VIII.
Soffrire
Ricordare e dimenticare
«Mai più. Nemmeno per soldi. Anzi, per nessuna ragione al mondo.»
Alla fine di una maratona capita di ascoltare frasi di questo tipo, spesso pronunciate senza alcuna ironia. La sofferenza si vede anche troppo bene, durante l’ultima fase della gara, nei volti dei podisti e nella loro andatura rigida, scomposta. Persino gli atleti di vertice possono perdere fluidità ed efficienza nella corsa: il corpo umano, quando viene costretto per 42 chilometri a muoversi al limite delle proprie possibilità, manda segnali inequivocabili di disagio, che possono crescere fino a diventare intollerabili.
Ma non dura. Dopo una doccia, uno spuntino e un paio d’ore di riposo, non molti tra gli uomini e le donne che all’arrivo dicevano «mai più» sarebbero disposti a mantenere il punto. La prospettiva cambia in fretta. La sofferenza, certo, c’è stata: si riconosce di averla provata, anzi se ne va quasi fieri. Ma è una memoria che perde gli angoli vivi e smette di far male davvero. È una nostra grande risorsa. Mentre viviamo l’esperienza estrema di una maratona, infatti, abbiamo tutto il tempo per provare un’ampia e spiacevole gamma di sensazioni dolorose, al limite della sopportazione; sappiamo di averle affrontate e superate, o subite, ma non le assimiliamo. Appena il corpo recupera un minimo livello di benessere, ricostituendo scorte di glicogeno e iniziando a riparare gli altri danni fisiologici subiti in gara, entra in gioco una sorta di autodifesa, una istintiva predisposizione a dimenticare che ci permetterà ben presto di tornare ad affrontare prove altrettanto difficili e dolorose – la nostra ragione non può ignorarlo – che tuttavia non ci spaventeranno come dovrebbero, perché in realtà abbiamo rimosso la sofferenza.
Succede anche in altri ambiti, ovviamente: abbiamo tutti ben presenti, se ci guardiamo indietro, alcune esperienze dolorose che siamo capaci di non ricordare con la stessa intensità del momento in cui le abbiamo vissute. Per la corsa, anzi per tutte le discipline che comportano un impegno fisico al limite delle proprie possibilità, questa amnesia parziale e involontaria è un fatto essenziale: e non parlo solo della gara, perché anche durante un allenamento capita a volte di pensare «mai più», e mezz’ora dopo, appena usciti da una bella doccia calda, ritrovarsi a scherzare con i compagni come se niente fosse, per tornare a casa più contenti di prima, pronti ad affrontare lo stesso tipo di sforzo alla prima occasione.
Abbracciare il dolore
Il tema della sofferenza, per strano che possa sembrare, è controverso: non tutti i runners ne riconoscono la necessità, preferendo fermarsi – o rallentare – un attimo prima di incontrarla davvero. A me pare innegabile: non si può correre forte senza affrontare e superare una soglia di dolore che mette a dura prova la nostra resistenza mentale. Succede sempre, dai 400 metri piani (non a caso soprannominati «il giro della morte») alle ultramaratone, ma in maniera molto diversa a seconda della distanza. Molti anni fa, in una delle mie stagioni migliori, mi capitò di commettere l’imprudenza di iscrivermi a un miglio su strada senza preparazione specifica: dopo un minuto e mezzo mi faceva male tutto, persino le spalle e le braccia, e la seconda metà della gara si trasformò in una specie di agonia. La sofferenza dei 10.000 metri non è paragonabile a quella di una prova quattro volte più lunga, e non perché sia minore, se non come durata; anche tra una mezza maratona e una maratona ci sono differenze sostanziali, che dipendono dal fatto che su una 21 chilometri si corre a un’andatura più vicina al limite di soglia aerobica, cosa che costringe il podista ad affrontare un tipo diverso di difficoltà. In compenso nella parte finale di una 42 chilometri, anche in condizioni ideali, può capitare di dover correre in uno stato di quasi completo esaurimento del glicogeno, con sensazioni di estremo disagio psicofisico.
A ciascuno il suo, dunque. Ma la sofferenza è una costante, a meno che non ci si accontenti di allenarsi o gareggiare ben al di sotto delle proprie possibilità. Non date retta a chi dice che si può correre senza soffrire. Io alle volte soffro anche per fare un’oretta a ritmo blando, se non è la giornata giusta: bisogna amare lo sforzo fisico per praticare la corsa di resistenza. Come prepararsi adeguatamente ad affrontarlo è uno dei problemi cruciali della «costruzione» psicofisica di ogni atleta, e dura anni. In una certa misura ci si abitua anche al dolore, come ad ogni altra cosa: è bene, per un maratoneta, abituarsi ai diversi tipi di sforzo – e quindi di sofferenza – dentro e fuori la famosa «soglia», allenando non soltanto la resistenza aerobica generale, ma la resistenza alla velocità e la potenza aerobica40. Anche se in una maratona l’atleta non proverà mai il disagio causato da dover spingere a un ritmo più sostenuto della sua velocità aerobica massima, durante la preparazione è bene costringere il fisico a sostenere lo sforzo di correre una serie di ripetute brevi ad andatura molto rapida: non soltanto per migliorare la tecnica e rinforzare la muscolatura, ma per abituare la mente a sopportare una sofferenza diversa dal solito, rendendola più duttile e tenace.
Nella vita ho conosciuto corridori capaci di sopportare fatiche durissime, con una soglia del dolore inattaccabile. Si tratta probabilmente di una qualità innata, non troppo diversa dalla frequenza cardiaca bassa o dal numero di litri d’aria che si riescono a immettere nei polmoni: anch’essa, come queste doti più propriamente fisiologiche, può essere migliorata in misura non trascurabile. Purtroppo è molto difficile, e molto controverso, individuare i mezzi migliori per ottenere questo incremento della capacità di resistere alla sofferenza. Ancora oggi, dopo trentacinque anni di attività, non saprei dire con esattezza quale tipo di allenamento sia stato efficace nel rendermi mentalmente più forte.
Ho qualche sospetto. Ad esempio: le ripetute in salita a Montenero, seguite da un quarto d’ora di corsa a ritmo-gara sul lungomare di Antignano. Dopo la quindicesima salita da 150 metri ci si ritrovava stesi per terra, con il cuore a 200 pulsazioni (beata gioventù!); non solo io, ma anche atleti di alto livello come i gemelli Cellai, che correvano i 1.500 metri in meno di quattro minuti. Appena ripreso fiato Bruno ci salutava e tornava in macchina al Campo Scuola dell’Ardenza, mentre noi si doveva spingere a 3’30” per un quarto d’ora buono, con le gambe che all’inizio giravano come quelle dei cartoni animati, felici di ritrovarsi in pianura, e poi la fatica che tornava a tagliare il fiato e stringere lo stomaco.
È solo uno dei tanti allenamenti che oggi definirei «massimali», ovvero spinti fino al limite delle possibilità: quel giorno nessuno di noi avrebbe potuto dare di più, e la differenza rispetto a una gara stava nel fatto che la normale seduta di allenamento era inserita in un ciclo settimanale di per se stesso molto impegnativo, mentre alla gara si arrivava comunque dopo un periodo di scarico, per quanto breve e limitato.
Non che le cose siano cambiate molto: a parte l’età, i principi sono gli stessi. Non si smette di allenare i muscoli a lavorare duro, e la mente a sopportare la sofferenza. È sempre un problema di limite, che deve essere gestito, se possibile, da un allenatore capace: l’atleta che si prepara da solo può commettere l’errore di chiedere troppo al proprio fisico, spesso per paura di cadere nell’errore opposto, cioè di fare troppo poco. Ma bisogna rendersi conto che come esiste una sofferenza «giusta» in gara – ne ho fatto cenno e ne riparleremo – così esiste un giusto livello di impegno in allenamento. L’eccesso di fatica può provocare non soltanto infortuni muscolari, ma anche un eccessivo consumo delle energie mentali: che non sono illimitate, soprattutto durante una preparazione lunga e difficile come quella che è necessario affrontare per una maratona.
Capita di fare delle sciocchezze. Alcune volte per pura e semplice sfortuna, altre per incoscienza. Mi è successo di essermi intestardito ad allenarmi con una febbre leggera, forse un inizio di influenza, senza dirlo al mio allenatore, con risultati facili da immaginare; o di aver visto atleti nascondere un infortunio come se potesse guarire «correndoci sopra», come si dice. La verità è che quando si sta bene non si vuole mollare di un centimetro; la sofferenza dell’allenamento diventa una sfida quotidiana, una dimostrazione di forza, una fonte preziosissima di autostima, e non si riesce a farne a meno. Si diventa non soltanto capaci di «abbracciare il dolore»41, che è una dote dei migliori atleti, ma si finisce per cercare con un po’ troppo entusiasmo quel contatto, con la paura di tirarsi indietro anche di fronte a difficoltà esterne, o ad altri ostacoli che andrebbero valutati con più saggezza.
Nella mia personalissima educazione alla sofferenza c’è un’altra sera indimenticabile. Campo Scuola di Cremona, primavera del 2014, preparazione per i 10.000 metri dei campionati italiani master. Leggo sul programma che mi ha mandato il mio amico Pietro questa indicazione: «Riscaldamento, poi 20x200 brillanti, recupero una decina di metri di passo, poi si torna al segno e si riparte». Minchia, penso mentre guido da casa al campo. C’è Angelo che mi aspetta e non sa ancora niente. Gli dico: «Stasera ci divertiamo, Pietro è stato cattivo», o qualcosa del genere. Ci scaldiamo sull’anello attorno alla pista, chiacchierando. Anche Angelo sembra un po’ perplesso ma non protesta. Mettiamo le scarpe leggere e cominciamo. Duecento metri brillanti, che sarà mai, finiscono subito.
Non prendiamo nemmeno il tempo con il cronometro: vanno fatti «a sensazione», siamo in forma e le gambe girano bene. Superata la linea d’arrivo ci facciamo portare per qualche passo, ci fermiamo, ci voltiamo e torniamo camminando al segno. Via. Altri duecento metri, stesso recupero. Dopo cinque o sei prove ci guardiamo preoccupati. È più dura del previsto, gli intervalli tra le prove sono cortissimi. Si va. Dopo una decina di ripetute siamo in crisi, il cuore non scende più abbastanza, facciamo appena in tempo a fermarci che sembra già di dover ripartire. Uno per uno. Ci facciamo forza a vicenda, senza più nemmeno il fiato per commentare la durezza dello sforzo o mandare a quel paese il nostro coach. Diciotto. Un polpaccio si indurisce. «Mi sa che non arrivo in fondo», penso mentre recuperiamo. Angelo ha lo sguardo perso nel vuoto. Anch’io non devo avere una bella faccia. Diciannove, lo finisco con una specie di lamento. Torniamo indietro per l’ultima volta. Venti e finiamo per terra. Rientriamo negli spogliatoi camminando piano piano. Dopo la doccia prendo il telefono e chiamo Pietro. È tranquillissimo. Gli dico che abbiamo fatto quello che ha detto lui, ma che cazzo, era un massacro. Pietro sembra stupito. Mi chiede come mai abbiamo trovato l’allenamento così difficile. «Insomma», gli rispondo, «venti duecento con quel recupero miserabile di pochi metri».
«Come venti duecento?», fa lui. «Era venti per cento. Controlla meglio».
Controllo sul foglio che ho in tasca. Venti per cento, ha ragione lui, ovviamente. Angelo mi guarda senza capire. Io allargo le braccia.
«Ho letto male. Ero convinto fossero venti per duecento.»
«Ma non li avrete mica fatti per davvero? Venti duecento, con quel recupero? Ma siete matti?»
«Beh sì che li abbiamo fatti. Tu ce li avevi messi in programma. Cioè non li avevi messi in programma, ma era come se... io pensavo...»
Era come se. Non ci vedo benissimo, ma nel mio errore c’era una motivazione psicologica: avevo letto venti per cento, ma mi sembrava un allenamento troppo leggero, ero in un momento di eccessiva «passione per la sofferenza», e la mia mente aveva corretto per conto suo, convincendosi di dover fare il doppio del previsto. Pietro è ancora il mio allenatore, Angelo è ancora tra i miei compagni di allenamento, e ogni tanto ci viene da sorridere quando pensiamo a quella sera un po’ folle.
Servì a qualcosa? Non mi sento di affermarlo. È probabile che dal punto di vista atletico fu un allenamento addirittura controproducente, oltre il limite della fatica «giusta». Ma certamente servì a indurire la nostra forza di volontà. Se qualcuno vuole mettere alla prova la propria resistenza alla fatica, allora consiglio di fare venti volte duecento metri con un recupero così breve: se arriva in fondo senza mollare, significa che psicologicamente è pronto ad affrontare ostacoli di ogni tipo.
La capacità di affrontare la sofferenza resta comunque un mistero. La stessa persona può rivelarsi perfettamente in grado di superare una certa soglia del dolore in allenamento, e poi non riuscire a farlo in gara; all’opposto, ci sono atleti (più fortunati) che durante la settimana sembrano sempre voler mantenere un margine di sicurezza per tenersi a debita distanza dal dolore, ma con il numero sul petto, dopo lo sparo dello starter, mostrano una tenacia e una forza di carattere impressionanti. C’è un’abitudine alla sofferenza, che dipende senza dubbio da quante volte la si è «abbracciata» in allenamento; ma ci deve anche essere una specie di desiderio circoscritto e immediato di affrontarla: in alcune circostanze, se la testa è altrove, anche l’atleta più forte scoprirà con stupore di non aver voglia di soffrire, e sarà costretto a rallentare, o addirittura a fermarsi. È un problema in qualsiasi gara, ma in una gara di resistenza «avere dei pensieri» significa quasi certamente andare incontro a un fallimento.
«Mushin», o la mente vuota
I samurai descrivevano tre stati mentali necessari al guerriero: zanshin, ovvero la «mente pronta», capace di prendere piena coscienza di una situazione e metterne a fuoco ogni particolare; fudoshin, la «mente in equilibrio», purificata dagli eccessi delle passioni; e infine mushin, la «mente vuota», libera, e per questo pronta ad affrontare qualsiasi difficoltà e a guidare l’azione del corpo in maniera immediata, in accordo profondo con l’istinto. Può essere utile, nella fase più difficile della gara, cercare di imitare i maestri zen giapponesi, abituati a praticare il mushin: in primo luogo perché è necessaria una forma superiore di concentrazione per aiutarci a superare il dolore fisico, tenendolo separato dalla nostra coscienza; ma soprattutto perché soltanto una mente priva di preoccupazioni e tensioni può riuscire ad «abbracciare la sofferenza», un atto consapevole che richiede forza di carattere e piena libertà interiore.
La corsa di resistenza è un’attività non così lontana dalla pratica delle arti marziali orientali. Non c’è molta tecnica, certamente: ma la tecnica, nelle pratiche zen, caratterizza solo una fase dell’apprendimento, per dissolversi poi nella spontaneità dell’azione guidata dal mushin: «lo spadaccino», scrive il maestro Takuan Sōhō, «quando sta di fronte al suo avversario, non deve pensare all’avversario, né a se stesso, né ai movimenti della spada del suo avversario. Semplicemente sta in piedi in quel luogo, dopo aver dimenticato qualsiasi tecnica, pronto soltanto a seguire i dettami del subconscio»42.
Così deve fare il corridore. La tecnica è ormai dentro di lui: non la deve «applicare», ma soltanto lasciarla fluire dopo averla dimenticata; contemporaneamente deve separare se stesso dal proprio dolore fisico, osservarlo e accettarlo come un compagno di viaggio, senza paura. Il tentativo di negare e rimuovere la sofferenza è destinato a fallire in pochi minuti, lasciando il posto allo scoraggiamento; solo una «mente vuota» può avere la capacità di accoglierla, accettarla fin dove è possibile, e in alcuni casi addirittura trasformarla in una nuova e imprevista fonte di energia.
È un confine sottilissimo, ma chi ha esperienza di maratona sa di cosa sto parlando. Quando la sofferenza raggiunge un livello critico, diverso per ciascun atleta ma non per questo meno reale e percepibile, la mente tende a riempirsi di pensieri negativi – «ho sbagliato qualcosa; lo sapevo, non ce la posso fare» – e si mette subito in cerca di possibili attenuanti alla resa imminente, sia che si tratti di rallentare in maniera sensibile il passo sia che si tratti di un ritiro vero e proprio. La sola possibilità è invece quella di ascoltare con ancora maggiore attenzione i segnali del corpo: che abbastanza spesso, dopo alcuni minuti durissimi, diventeranno meno allarmanti. Perché il corpo fa due cose insieme: cerca di convincere la mente a sospendere uno sforzo che non riesce più a sostenere, e allo stesso tempo si attiva per continuare a obbedire agli ordini, trovando comunque il modo di produrre l’energia di emergenza necessaria a prolungarlo.
Questo, in qualche misura, accade a tutti: la differenza sta nella percezione del processo crisi-allarme-soluzione. Una mente allenata e libera non si lascia demoralizzare oltre misura, o troppo in fretta, dall’insorgere della crisi, ed è capace di dominare i ripetuti segnali d’allarme e sostenere il corpo mentre adotta le sue «misure di emergenza». Un maratoneta esperto, nel momento in cui sente che pur nella sofferenza i suoi muscoli si stanno dimostrando in grado di mantenere l’intensità dello sforzo, prova una specie di euforia muta, perché a quel punto intuisce, o spera, o comprende che niente potrà più fermarlo. Nella sua «mente vuota» si forma un pensiero che non è un pensiero, ma la comprensione intuitiva di uno stato psicofisico da custodire fino al traguardo, fragile e difficile da descrivere a parole benché sia reale. «Se riesci ad abbracciare la sofferenza, puoi superare praticamente qualsiasi ostacolo».
Il muro
C’è una sofferenza giusta e una sofferenza eccessiva. Esiste una crisi che non è possibile superare, nemmeno grazie al mushin e a una forza di volontà fuori dal comune. Il fisico ha un limite che neanche la mente consente di superare. Se un atleta si è allenato tanto da raggiungere una determinata velocità aerobica massima, potrà correre una maratona attorno all’85% di quella velocità; in casi eccezionali, potrà addirittura fare qualcosa di meglio, ma non molto. Nel nostro sport non si fanno miracoli, solo imprese costruite sul lavoro quotidiano: talvolta imprese sorprendenti, perché un atleta riesce a ottenere un tempo o una misura migliore di quelli che era lecito aspettarsi, ma sempre nell’orizzonte del possibile.
I grandi campioni lottano contemporaneamente con limiti individuali e assoluti; gli altri, è ovvio, solo con i propri, pur sperimentando spesso simili difficoltà e la stessa sofferenza. Per i maratoneti il momento decisivo è l’incontro con il «muro». Tutti ne hanno sentito parlare: chi non lo ha ancora affrontato finisce per sentirsi escluso da una comunità di iniziati, mentre gli amici con più esperienza ne accennano appena nei loro discorsi, come fosse un elemento della gara troppo noto per meritare più di una mezza frase, ma anche troppo minaccioso per essere oggetto di scherzi a cuor leggero.
Il muro. Definizione amatoriale: qualcosa contro cui si va a sbattere in genere dopo il trentesimo chilometro e prima del trentaseiesimo, quando le gambe diventano di legno, ogni passo costa improvvisamente una fatica disperata e la forza di volontà si sgretola di fronte all’evidenza del disastro che si sta abbattendo sul corpo del corridore. Definizione tecnica (semplificata): crisi metabolica causata dall’imminente e precoce esaurimento del glicogeno muscolare, a sua volta imputabile in primo luogo al fatto che il fisico dell’atleta non è stato sufficientemente allenato a consumare un’adeguata quantità di acidi grassi, oltre agli zuccheri, per produrre l’energia necessaria a mantenere l’andatura di gara43.
Detto così fa anche più paura, e a ragione: perché quando si va a sbattere contro il muro è troppo tardi per rimediare. Oggi ci sono prodotti studiati per fornire al corpo un supporto di energia di pronto impiego: ma la quantità che se ne può assumere è limitata, e comunque vanno presi prima di trovarsi in condizione di estrema difficoltà, non dopo il manifestarsi della crisi. A quel punto è tardi: prima che l’apporto di nuovi carboidrati possa consentire al corridore di ritrovare il giusto equilibrio psicofisico, passano alcuni irrecuperabili minuti. Nella migliore delle ipotesi. La capacità di superare la sofferenza estrema causata dalla crisi metabolica dipende quindi non tanto dal buttar giù qualche decina di grammi di gel – aiuta, è ovvio, ma non subito – quanto dalle meravigliose risorse del corpo umano, che prima di arrendersi (in questo caso prima di «spegnersi», ovvero di svenire)44 è in grado di trovare soluzioni alternative utilizzando le proteine dei muscoli o gli acidi grassi di cui dispone in buona quantità, che pur essendo molto meno efficaci del normale carburante ricavato dagli zuccheri gli consentono comunque di mantenersi in movimento. Ma molte volte questa estrema fonte di energia stenta a rendersi disponibile, e nel frattempo la gara è irrimediabilmente compromessa.
Il muro, dunque. Ci si può andare a sbattere contro e fermarsi o lo si può scavalcare con molta fatica, ma quella cosa è lì che ci aspetta, messa di traverso sulla nostra strada, alta ruvida e grigia. Lo ripetono quasi tutti i maratoneti non professionisti: al muro non si sfugge. Non è vero. È una possibilità, non una condanna. Bisogna essere preparati ad affrontarlo, perché altrimenti si rischia davvero di restare schiacciati dalla sofferenza improvvisa che provoca; ma bisogna anche coltivare, nel profondo, la certezza di poterlo evitare. E intendo evitarlo del tutto, non semplicemente essere capaci in qualche modo di sopportare il dolore e superare il muro. Nelle mie gare migliori non l’ho nemmeno intravisto: non sono un caso isolato, né possiedo «capacità fuori dal comune», come mi disse una volta un altro maratoneta, escludendo a priori la possibilità che un corridore «normale» potesse scansare l’ostacolo tipico delle gare di resistenza.
Ne sono certo, ed è un messaggio fondamentale per chi inizia a correre: scelta del ritmo giusto, corretta gestione delle energie, condizioni psicofisiche ottimali e un po’ di fortuna possono permettere a chiunque di evitare il brutto incontro. Ma di questo a suo luogo. Ora si parla di sofferenza, dunque di tutte quelle volte in cui il muro si para davanti al corridore proprio dove temeva di incontrarlo: dopo il trentesimo chilometro e non abbastanza vicino al quarantaduesimo. Il traguardo non è lontanissimo, ma svanisce oltre un orizzonte nero: spesso è impossibile restare concentrati sull’azione di corsa, perché tutte le energie psichiche rimaste servono a contrastare il dolore fisico. È un micidiale circolo vizioso, perché proprio nei minuti in cui sarebbe disperatamente necessario correre bene, nel modo più corretto ed economico, i muscoli non possiedono più l’elasticità per farlo e la mente deve pensare ad altro. Deve contrastare il puro e semplice spirito di sopravvivenza, che le chiederebbe di fermarsi.
Non c’è molto da fare, a quel punto. Anche perché il problema non è il «fiato», come si dice spesso in modo molto approssimativo quando si vuole indicare una crisi aerobica. No, fiato ne abbiamo a sufficienza e il cuore non batte all’impazzata: da questo punto di vista è tutto abbastanza sotto controllo. Solo che le gambe sono, in alternativa, o completamente vuote, con la consistenza di stracci bagnati, o dure e infuocate. O anche le due cose insieme: non si sa come sia possibile ma ci riescono. Molli e fradice, eppure di legno che brucia. Non si va avanti se non a prezzo di un dolore fisico nuovo, che sgomenta, e che per di più sembra del tutto vano. Anche poche centinaia di metri prima si viveva la gara in una condizione di sofferenza, questo è certo: ma si soffriva per spingere, e la sensazione di un legame positivo causa-effetto (devo spingere, e questo provoca dolore, ma ha un senso perché sto andando come speravo) era sufficiente a mantenere la concentrazione, a nutrire la nostra forza morale tanto da permetterle di mantenere il controllo della corsa. Ora è cambiato tutto: si soffre e basta, perché la spinta che si è in grado di produrre diminuisce di minuto in minuto, ed è del tutto insufficiente a mantenere l’andatura. Più il dolore aumenta e più diminuisce l’effetto dello sforzo. È una situazione che la mente non può sopportare a lungo.
La sola speranza a cui ci si aggrappa è che le cose cambino in fretta. La mente è poco lucida, ma cerca lo stesso di ricordare: qualcuno una volta ci ha detto di aver scavalcato il muro. Da qualche parte una volta abbiamo letto che la crisi non dura all’infinito (ci mancherebbe). Decidiamo di rallentare e tenere duro e stare pronti a cogliere i primi segni di una luce, anche minima, che si riaccende. In realtà non decidiamo niente, perché correre è diventato talmente difficile che il rallentamento è inevitabile. Passano i metri – i chilometri ormai diventano scogli separati da un abisso – e non succede. Nessuna nuova inaspettata fonte di energia. I muscoli continuano a bruciare. Si stanno mangiando da soli, anche questo lo sappiamo. Meglio non pensarci. Niente più zuccheri, quindi i muscoli demoliscono i legami molecolari dei loro stessi tessuti. Ma non ricavano granché dal «fiero pasto», per dirla con Dante: il dolore non diminuisce, l’efficienza della corsa non migliora in maniera apprezzabile.
È tardi per finire la maratona come dovrebbe essere finita, mantenendo il passo iniziale o addirittura in leggera progressione. Probabilmente, a questo punto, è tardi anche per ritirarsi, a meno che il dolore non diventi davvero insopportabile (e qui ognuno fa i conti con la propria capacità di sopportazione, senza più alcun termine di riferimento esterno): perché il traguardo è ormai vicino, e una buona dose di tenacia ci sostiene contro ogni logica. Direi, per esperienza, che almeno la metà dei maratoneti negli ultimi 6 o 7 chilometri di gara vanno incontro a una crisi di questo tipo. È questo il motivo per cui, se si riesce a evitare il famigerato muro e a non rallentare, in quei lunghi chilometri finali si possono guadagnare molte posizioni, superando atleti che sembrano quasi fermi. Come ho detto: può succedere a qualsiasi livello; anzi dovrebbe succedere a chiunque non commetta errori nella valutazione del ritmo-gara in rapporto alla preparazione svolta. Soffrire è necessario, in una gara di resistenza; soffrire troppo no.
La sofferenza, comunque, non è uguale per tutti. Nemmeno la capacità di affrontarla e superarla è uguale per tutti. Per quanto sia difficile valutare questo elemento, è certo che i corridori più forti hanno, tra le loro qualità, un’eccezionale attitudine a sopportare il disagio fisico che deriva da uno sforzo così intenso e prolungato. In una certa misura è una dote che può colmare la disparità di altri parametri più strettamente legati all’azione di corsa: ho conosciuto splendidi atleti senza carattere, come si usa dire, che vivevano il dolore quasi fosse un’offesa personale, e lo rifiutavano; e ho conosciuto atleti mediocri, che arrivavano a torturarsi pur di non mollare, tirando fuori dal proprio corpo fino all’ultima disperata energia. La forza di volontà non basta, inutile illudersi; ma nemmeno il talento puro, l’eleganza, la capacità polmonare e il cuore lento, la muscolatura affusolata e ricca al punto giusto di fibre veloci. Se la testa non insiste a dare gli ordini giusti, nemmeno il corpo di un campione riesce a superare il muro, quando lo incontra.
Duello al sole
Alcuni corridori di altissimo livello hanno dimostrato, in situazioni anche per loro eccezionali, di possedere una forza di volontà tale da costringere il corpo a sostenere uno sforzo eccessivo, danneggiandolo in maniera non subito evidente, in parte misteriosa dal punto di vista medico eppure reale e profonda, se non irreparabile. La leggenda di Fidippide che muore sulla porta di casa di un cittadino ateniese non è poi troppo lontana dal vero: la mente può essere capace di ignorare i segnali d’allarme inviati dai muscoli e dal cuore fino a spingerli in un territorio sconosciuto – perché pochissimi esseri umani lo hanno mai attraversato, e sono tornati indietro per raccontarlo – e potenzialmente letale.
La maratona di Boston del 19 aprile 1982 viene ricordata come the duel in the sun, «il duello al sole»: la più bella di sempre, secondo molti appassionati. Negli ultimi 10 chilometri, quando si era sparsa la voce di quello che stava accadendo, lungo il percorso si assieparono centinaia di migliaia di spettatori per incitare i due ragazzi che si stavano dando battaglia al limite delle loro possibilità, o forse al limite delle possibilità umane, se non oltre.
Non doveva andare in quel modo. C’era un solo favorito: lo statunitense Alberto Salazar, figlio di un esule cubano, che poco più di cinque mesi prima aveva vinto per la seconda volta consecutiva la maratona di New York stabilendo la miglior prestazione mondiale in 2h08’13”. Salazar non aveva ancora ventiquattro anni ed era in splendida condizione fisica; nove giorni prima, forse imprudentemente, aveva corso un 10.000 di esibizione nello storico Hayward Field della Oregon University, chiudendolo in 27’30”, appena due secondi sopra il record nazionale e staccato di pochi decimi dal keniano Henry Rono. Il pubblico di Boston faceva il tifo per lui e tra gli atleti schierati alla partenza non sembrava esserci nessuno in grado di metterlo seriamente in difficoltà: Bill Rodgers, che partiva quel giorno col pettorale numero 1 attribuito di diritto al defender, il vincitore dell’edizione precedente, era considerato il secondo favorito, ma aveva corso la sua migliore maratona nel 1979 in 2h09’27” e non era più stato capace di correre sotto le due ore e dieci, ben distante dal record recente di Salazar. Il quale, alla vigilia, era più che sicuro di vincere: il suo obiettivo – come avrebbe dichiarato in seguito – «non era soltanto arrivare primo, ma demolire gli avversari», staccandoli tanto nettamente da togliere ogni dubbio su chi fosse il più forte. «Vedevo ogni maratona come una prova della mia virilità. Non mi bastava vincere la gara, volevo seppellire gli altri ragazzi»45.
Alberto Salazar aveva un problema di autostima e maturità, evidentemente. Ma era uno splendido atleta, all’apice dell’efficienza fisica. Si era convinto di non avere rivali pericolosi; doveva soltanto stare attento a non commettere errori e imporre senza fretta il proprio ritmo, che nessuno, verosimilmente, sarebbe riuscito a sostenere a lungo. Ma le cose non andarono come aveva previsto. Nemmeno dal punto di vista climatico, perché dopo un periodo di tempo fresco e variabile, tipicamente primaverile, lunedì 19 aprile – il Patriots’ Day degli americani – a Boston il sole sorse brillante nel cielo sgombro di nubi: una giornata splendida per chiunque non dovesse correre una maratona, visto che alla partenza (fissata a mezzogiorno) la temperatura dell’aria era già oltre i venti gradi. Una difficoltà in più da non sottovalutare, che si sommava al percorso ondulato e dunque particolarmente impegnativo della Old Time Marathon.
Sarebbe stato consigliabile correre leggermente sotto ritmo, dunque, dal momento che le condizioni non erano favorevoli per tentare di ottenere una prestazione cronometrica eccezionale. Salazar si ritrovò subito nel piccolo gruppo di testa, com’era ovvio, ma non fu lui a dettare l’andatura. E nemmeno il defender Bill Rodgers. Fin dai primi chilometri un altro americano, Dick Beardsley, gli si mise al fianco senza mollare un metro, e anzi facendo in modo di mantenere un ritmo vicino a quello della sua miglior prestazione mondiale. Beardsley era un ragazzo del Minnesota di ventisei anni, che aveva corso la sua prima maratona nel 1977 in 2h47’14” e da allora aveva fatto progressi stupefacenti, migliorandosi per tredici volte consecutive – è ancora nel Guinness Book of Records per questo – fino a stabilire il proprio primato personale nel giugno del 1981 vincendo la Grandma’s Marathon di Duluth, nel suo Stato d’origine, in 2h09’37”. La distanza tra i due non era quindi eccessiva; ma l’orgoglioso Alberto era il campione del momento, mentre il timido e semisconosciuto Dick era soltanto un contadino del Midwest che seguiva metodi di allenamento eccentrici, come colpirsi centinaia di volte le cosce coi pugni mentre si riposava davanti alla televisione, sperando potesse servire a rinforzare i quadricipiti femorali, o correre estenuanti ripetute in salita, sotto la neve, quando ogni altro atleta sarebbe rimasto per prudenza al coperto e al caldo. Nonostante il suo ottimo personal best nessuno, quel diciannove aprile, avrebbe scommesso un dollaro sulla vittoria di Beardsley; e il suo cappellino da ciclista con la visiera sollevata, che gli dava un’aria da corridore della domenica, certo non aiutava a renderne credibile la presenza in testa alla gara accanto ad Alberto Salazar e Bill Rodgers.
Lesa maestà, o poco meno. Salazar si lasciò innervosire dalla coraggiosa condotta di gara di Beardsley, dimenticandosi di bere o trascurando volontariamente di farlo, forse per dimostrare anche in quel modo la propria superiorità. Al quinto miglio (ottavo chilometro) i battistrada passarono accanto a un laghetto dove una coppia stava pagaiando in canoa: Bill Rodgers, voltandosi verso Beardsley, gli chiese se non avrebbe preferito starsene tranquillo sull’acqua a godersi il tepore del sole di primavera, piuttosto che affrontare una maratona. Il ragazzo del Minnesota sorrise e rispose subito qualcosa di ovvio – «chi non lo vorrebbe» – mentre a mezzo metro di distanza Salazar ascoltava senza replicare: il primatista del mondo non dava confidenza, non era tipo con cui gli avversari si sentissero incoraggiati a scambiare qualche parola amichevole. Nemmeno in quella fase sospesa della gara in cui tutto viene ancora facile, anche guardare il paesaggio e invidiare una coppia di innamorati.
Comunque Salazar non avrebbe voluto essere altrove. Era lì per vincere e dimostrare ancora una volta di essere il più forte. Dopo un’ora di corsa sono ancora in quattro: con Beardsley e Rodgers c’è anche il messicano Mendoza, che mostra però i primi segni di cedimento, e presto rimane indietro. È ormai l’una del pomeriggio e il calore aumenta ancora: Beardsley beve ogni volta che può, afferrando al volo i bicchieri d’acqua che gli porgono gli spettatori – non ci sono punti di rifornimento regolari, si fa quel che si può – mentre Salazar insiste a rifiutarli. Al diciassettesimo miglio, ovvero poco oltre il ventisettesimo chilometro, quando stanno per affrontare la prima delle tre salite in cui di solito si decide la gara, si stacca anche Bill Rodgers e inizia il vero «duello al sole».
Beardsley sa di essere meno brillante – il suo tempo sui 10.000 è di circa un minuto e mezzo peggiore di quello di Salazar – e cerca quindi di staccarlo. Adotta una tattica dispendiosissima, con brusche variazioni di ritmo, sperando di cogliere l’avversario di sorpresa e riuscire così a guadagnare un piccolo margine di vantaggio. Non succede: Salazar resta mezzo metro dietro di lui, sulla difensiva, ma risponde a tutte le accelerazioni senza lasciarsi intimidire né demoralizzare.
La fatica comincia a farsi sentire. Beardsley pensa che non riuscirà a mantenere quel ritmo ancora per molto; ma anche Salazar sta soffrendo. Deve soffrire anche lui. Mancano ancora 5 miglia, 8 chilometri: non bisogna immaginarle tutte insieme, come un unico indistinto e terribile periodo di agonia. Meglio focalizzarsi solo sul prossimo tratto di strada, che sembra interminabile ma ancora possibile da superare. Beardsley, d’istinto, adotta l’espediente del framing, il «frazionamento»: suddividere la distanza in segmenti che la mente può concepire e gestire, in onde di sofferenza che prima o poi devono perdere forza, ritirarsi, prosciugarsi.
La folla aumenta e si stringe addosso ai due corridori. Che avanzano come ipnotizzati in una fuga immobile: per centinaia e centinaia di metri restano a mezzo respiro di distanza, Beardsley avanti, Salazar la sua ombra. Poi succede qualcosa. Manca mezzo miglio, e l’azione di corsa di Beardsley perde d’improvviso fluidità. Sta quasi zoppicando. Alberto Salazar, senza cambiare passo, guadagna una decina di metri; le motociclette della polizia superano Beardsley e lo seguono, aprendogli la strada e proteggendolo dalla gente. La gara sembra finita: il ragazzo del Minnesota sta correndo con un’andatura innaturale e perde rapidamente terreno. Sopra il suo ginocchio destro il muscolo della coscia si è contratto: lo si vede a occhio nudo, una specie di grumo di dolore sotto la pelle tesa.
Beardsley ricaccia le lacrime in gola. Sa di non avere più speranza; poi – come racconterà lui stesso – mette un piede in una piccola buca nell’asfalto e quel movimento brusco, invece di azzopparlo definitivamente, lo aiuta. Con una specie di frustata il muscolo si scioglie, e Beardsley trova la forza per spingere ancora. Salazar, sempre circondato dalle moto, imbocca l’ultimo rettilineo ormai sicuro di aver vinto: ha smesso di sudare da tempo, sta correndo in condizioni prossime alla disidratazione, è quasi incosciente e forse rallenta senza nemmeno rendersene conto. Capisce però che qualcosa non va dalle urla della folla, se possibile ancora più frenetiche, e dalle moto che improvvisamente accelerano per fare spazio al suo inseguitore. Il campione si volta: come in un brutto sogno Beardsley è di nuovo a pochi metri, con il suo cappellino bianco, e si avvicina. C’è una foto in cui Salazar guarda sopra la sua spalla sinistra e sembra un uomo disperato, una preda che cerca di sfuggire a una minaccia mortale.

Boston, 19 aprile 1982: Alberto Salazar (2) e Dick Beardsley (3) in prossimità dell’arrivo.
Non vuole perdere, non può perdere, e reagisce. Reagisce forse non è la parola giusta: piuttosto Salazar resiste, si costringe con uno sforzo terribile a tirar fuori dal proprio cuore e dalle proprie gambe la forza per non crollare. Beardsley è in rimonta, ma sono tutti e due ormai oltre i propri limiti, oltre la soglia della sofferenza. Gli spettatori gridano e non sanno nemmeno più che cosa: incoraggiano insieme Alberto e Dick, il campione e l’outsider, il cittadino e il campagnolo. Non si tratta più di parteggiare per uno di loro. È un solo urlo che accompagna due uomini, come se avessero ingaggiato una lotta mortale contro un nemico comune. Oltre la sconfitta e la vittoria, per se stessi e per ciascuno degli spettatori.
La distanza si riduce ma non si annulla. Al traguardo il cronometro segna 2h08’52” per Salazar, 2h08’54” per Beardsley. Barcollano. Salazar viene trascinato a braccia fino alla premiazione. Gli ciondola la testa, è chiaramente sul punto di svenire; la corona d’ulivo del vincitore sembra una corona di spine, e il suo volto quello di un Cristo morto e resuscitato. Riesce a tendere una mano verso Beardsley, che sembra molto più lucido, per tirarlo accanto a sé e abbracciarlo. Beardsley guarda nel vuoto e sorride, probabilmente stupito di non essere crollato lungo il percorso, di essere sempre in piedi, vivo, capace di respirare e parlare. Sconfitto nel modo al tempo stesso più doloroso – pochi metri, uno spasimo – e più glorioso, perché aveva contribuito a creare, con la sua incredibile prova agonistica, un finale di gara senza precedenti, destinato a restare nella storia dell’atletica leggera. «La più bella maratona di sempre», scrivono i giornalisti sui loro taccuini. Qualcuno accenna al caldo, alla «terribile sofferenza dei corridori». Qualcuno annota che Salazar stenta a riprendersi, dopo l’arrivo: viene immediatamente reidratato con una flebo di soluzione salina46. Qualcuno ascolta quello che Beardsley dice al suo allenatore, Bill Squires, che lo ha raggiunto in mezzo alla gente, e ora lo sostiene e lo protegge. Qualcosa come «non ho vinto, ma non ho perso».
Salazar e Beardsley avevano attraversato una dopo l’altra la soglia della resistenza, e poi quella della sofferenza, e poi – come avrebbero ricordato entrambi, se è davvero possibile ricordare un’esperienza del genere – quella della disperazione, dell’incoscienza, fino a una sorta di resurrezione oltre il dolore, come un corpo sotto anestesia che continua a muoversi in virtù di un miracolo della volontà. Successe a entrambi: continuarono a spingere al ritmo delle prime miglia, e poi ancora e ancora, nonostante il caldo rendesse difficile mantenere un’andatura tanto pericolosamente vicina al record del mondo. Erano entrambi giovani, ma quell’esperienza estrema segnò la loro carriera di atleti e di campioni. Salazar sembrava destinato a dominare a lungo la scena mondiale: gli riuscì invece di vincere solo un’altra maratona di New York, poi il suo declino fu rapido e irreversibile. Si ammalava spesso – raffreddori, bronchiti, influenza – e i dottori non capivano perché; soprattutto, come avrebbe dichiarato più tardi, «per dieci anni, fino al 1994, ho intensamente odiato la corsa», pur tentando ostinatamente di recuperare la velocità, la leggerezza, la gioia. Anche Beardsley non riuscì più a correre allo stesso livello del «duello al sole»; qualcosa si era spezzato nel suo corpo e nella sua mente, tanto da convincerlo a rinunciare definitivamente all’attività agonistica nel 1988. Poi, il 13 novembre del 1989, Beardsley subì un gravissimo incidente mentre era al lavoro nella sua fattoria, e la sua vita cambiò per sempre47.
Non lo si può affermare, ma molti pensano che quel giorno a Boston sia Alberto che Dick soffrirono troppo, consumando non soltanto il proprio fisico, ma qualcosa di più nascosto e misterioso che c’è in ognuno di noi: una risorsa preziosa, anzi essenziale, ma non illimitata48.
La solitudine del maratoneta49
Provate a osservare il volto gli atleti verso la fine di una maratona. Anche quello dei campioni. Il loro sguardo è fisso, smarrito: sembra stiano seguendo immagini o fantasmi visibili solo a loro. Il corpo agisce ma la mente è altrove. È l’effetto dello sforzo psicologico estremo necessario ad «abbracciare la sofferenza»: non si può chiedere di più a un essere umano, e dunque nella fase decisiva della corsa la concentrazione deve essere assoluta, benché «vuota», o forse proprio perché vuota, perché priva di altri pensieri. Gli occhi, come sempre, rivelano la qualità della vita interiore, che in quel momento è chiusa in un orizzonte inaccessibile.
La sofferenza crea uno spazio chiuso di solitudine assoluta. Gli altri non possono accedervi, se non come occasionali comprimari; quando soffriamo davvero, nessuno può sapere quello che stiamo passando, né condividere. Non importa se ci vuol bene, se ci ama, se desidera con tutta la forza fare qualcosa per noi. Siamo soli di fronte al dolore che ci possiede; soli e disarmati, impotenti.
La sofferenza di un finale di maratona è un caso particolare, perché al tempo stesso estrema e volontaria: potrebbe cessare in un istante senza conseguenze, perché per quasi tutti i corridori un ritiro non comporterebbe alcun contraccolpo professionale o economico; ogni minuto aggiunto ha la particolare qualità di un dolore affrontato liberamente, e quindi felicemente. È l’avverbio più appropriato, anche se può sembrare strano: perché la sola vera felicità è quella che troviamo sul nostro cammino quando siamo del tutto liberi.
E adesso siamo davvero vicini al senso più profondo della corsa. La resistenza di fronte al dolore; la forza di volontà di fronte a una prova durissima del cui significato profondo noi soltanto siamo i custodi, perché l’abbiamo scelta, e dobbiamo continuare a restare fedeli attimo dopo attimo a quella scelta sempre più difficile. Varrebbe la pena di allenarsi e gareggiare solo per vivere i momenti di una crisi. Che ci mette a nudo, in perfetta solitudine, e ci fa scoprire sia i nostri limiti fisici e mentali, sia le qualità nascoste di cui non possiamo fare a meno se vogliamo arrivare al traguardo.
40 O velocità aerobica massima: è la velocità a cui si ha il massimo consumo di ossigeno che il corpo di un atleta è in grado di acquisire tramite la respirazione, e che è possibile mantenere per circa 6/7 minuti; vedi quanto detto nel capitolo III, p. 31, n. 2.
41 Nel gergo militare statunitense, con l’espressione embrace the suck («abbracciare la schifezza», in realtà, non la sofferenza) si indica la «propensione ad accettare consapevolmente o apprezzare qualcosa che è estremamente spiacevole, ma inevitabile». «Embrace the suck: se riesci a farlo, puoi superare praticamente qualsiasi ostacolo o difficoltà»: R. Roy, C. Lawson, The Navy SEAL Art of War, New York, Crown Business, 2015, p. 108.
42 Sōhō Takuan, The Unfettered Mind, translated by W. Scott Wilson, Tokyo, Kodansha International, 1986, p. 19. Su corsa e zen: L. Speciani, Lo Zen e l’arte della corsa, Milano, Edizioni Correre, 2001; L. Shapiro, Zen and the Art of Running, Avon (Mass.), Adams Media, 2009.
43 Il «muro» e il modo per superarlo è un tema presente in tutti i testi dedicati alla corsa di resistenza: vedi ad esempio L. Speciani, P. Trabucchi, Mente e maratona, Milano, Edizioni Correre, 2003, pp. 208-209.
44 Lo dico per esperienza, perché andai a sbattere contro il muro al quarantacinquesimo chilometro della 50 chilometri di Romagna 2015, unica ultramaratona corsa nella mia vita: riuscii poi a non fermarmi e tagliare il traguardo in 3h28’, che mi permise comunque di vincere la mia categoria, ma subito dopo l’arrivo mi stesi per terra a pochi passi dal traguardo, semicosciente. Ho un vuoto di memoria di qualche decina di secondi.
45 J. Brant, Duel in the Sun, in «Runner’s World», aprile 2004, https://rw.runnersworld.com/selects/duel-in-the-sun.html.
46 «Per la maggior parte della gara, Salazar non aveva bevuto, preoccupato del fatto che il peso aggiuntivo potesse rallentarlo nel finale. Il suo volto era bianco di sudore disseccato. Dopo il traguardo svenne: la sua temperatura basale era scesa fino a 88 gradi [Fahrenheit, corrispondenti a 31,1°]. Per farlo rinvenire, i paramedici furono costretti a somministrargli per endovena sei quarti di soluzione salina» (J. Kahn, The Perfect Stride, in «The New Yorker», 8 novembre 2010).
47 Quel giorno la gamba sinistra di Dick Beardsley rimase intrappolata in un macchinario. Era da solo; se la cavò «con un polmone perforato, un polso, alcune costole e delle vertebre rotte, una grave concussione, una gamba dilaniata e la scimmia sulla spalla». Da quando venne dimesso dall’ospedale, infatti, Beardsley fece uso sempre più smodato di antidolorifici, fino a sviluppare una vera e propria dipendenza, che lo portò a falsificare ricette mediche e ad essere arrestato per consumo di droga nel novembre 1996. Si è ripreso e vive a Bemidji, Minnesota; tiene spesso conferenze – ma non sulla maratona, bensì sulla possibilità di liberarsi dalla dipendenza da oppiacei. L’intera vicenda del «duello al sole» e dei suoi due protagonisti è ricostruita nel bel libro di J. Brant, Duel in the Sun: Alberto Salazar, Dick Beardsley, and America’s Greatest Marathon, Emmaus (Pa.), Rodale Press, 2006.
48 Il 19 aprile del 1982 a Boston ben 156 atleti conclusero la gara sotto le due ore e mezzo, nonostante il caldo fuori stagione. Era il primo momento d’oro della maratona, vissuta ancora come una specialità atletica severa; nei vent’anni successivi l’aumento della quantità dei partecipanti non è stato accompagnato da un analogo miglioramento della qualità. Nel 2003, infatti, soltanto 21 atleti sono stati in grado di correre la maratona di Boston in meno di due ore e mezzo; nel 2017 – un anno eccezionale, nelle serie recenti – sono stati invece 125 (109 uomini e 16 donne). La maratona è come un triangolo isoscele che ha mutato forma: trentacinque anni fa la base era molto più stretta, ma il vertice più appuntito; oggi la base è almeno dieci volte più ampia, ma la percentuale di runners in grado di correre a buoni livelli si è decisamente ridotta.
49 La solitudine del maratoneta è la traduzione del titolo di un bellissimo racconto dello scrittore inglese Alan Sillitoe (The Loneliness of the Long-Distance Runner), apparso nel 1959 (prima edizione in italiano: Torino, Einaudi, 1964). Il protagonista Smith, tuttavia, non è un maratoneta, ma un adolescente rinchiuso in riformatorio che scopre di possedere un notevole talento per la corsa, e decide di ribellarsi al sistema rifiutando di tagliare il traguardo di una gara di cross-country che sta dominando. Il racconto di Sillitoe è uno dei primi casi in cui la corsa – e la solitudine del corridore – diventa metafora di libertà intellettuale, oltre che fisica, dalle costrizioni sociali.