18
Il giudice sospese l’udienza. Traballando, Pete si fece strada fino al corridoio. Passeggiò avanti e indietro. Si mordicchiò le unghie. Chiedendosi se c’era qualcosa che potesse fare per lei.
Aveva la bocca secca e c’era la fila per bere alla fontanella, si ricordò di averne vista un’altra nell’atrio e si avviò in quella direzione. Mentre beveva si accorse dei due uomini che gli passarono accanto, la testa china e la voce bassa. Uno di loro aveva l’andatura da parata di Devlin.
Pete chiuse la fontanella e si portò il fazzoletto al viso. Si curvò in avanti come per asciugarsi la bocca.
E sentì dire: «...è quasi finita. Domani le daranno il colpo di grazia».
Poi la voce nervosa di Quinn. «Domani, signore?»
«Domani testimonierà Lena Gobek.»
Pete aspettò che avessero svoltato l’angolo, poi si alzò e cercò di ricordare dove avesse già sentito quel nome. Gli ci vollero dieci minuti e una passeggiata intorno all’isolato, ma alla fine ci arrivò. Lasciò un appunto al commesso per Scott, chiedendogli di chiamarlo quella sera, poi salì in macchina.
A casa estrasse il vecchio fascicolo e lo passò al setaccio finché non la trovò. Rilesse gli appunti e riascoltò i primi secondi dell’intervista che aveva fatto alla donna. Lena Gobek era solo una vicina. Non era nessuno.
Poi iniziò a ricordare, e lasciò scorrere il nastro registrato.
Ricordò un piccolo appartamento, le tende chiuse per non far entrare il sole. Centrini di pizzo, ceramiche in una vetrinetta, una bambola con un costume antiquato su una sedia nell’angolo.
Ricordò una donna in carne con un marcato accento polacco. I capelli tinti di rosso, un abito informe, i piedi gonfi nelle pantofole. Gli aveva offerto del tè e l’aveva rimpinzato di una torta ai semi di papavero che gli restava incollata al palato.
Gli aveva parlato a lungo del marito. Di come si fossero conosciuti dopo la guerra quando lui era entrato nel ristorante del padre di lei.
«I capelli neri e ondulati, lo sguardo serio. Era la copia di Gregory Peck.»
Aveva parlato della corte che le aveva fatto, di quanto fosse romantico. Aveva sorriso mentre parlava. Si era portata la mano alla gola e sfiorata la clavicola con la punta delle dita.
«Il matrimonio fu una favola, signor Wonicke. Ecco l’album... vede? Il vestito. La torta. Questa è mia madre con mia sorella. E il ricevimento al ristorante di mio padre dopo la cerimonia fu bellissimo. Forse non come sarebbe stato prima della guerra, ma a quel punto niente era più come prima. Tutti cercavano di trarre il meglio da ogni cosa: come dicevano alla radio. Io e Paul non avevamo niente da invidiare a Joan Fontaine e William Dozier. E bevemmo champagne... oh, che emozione! Era stato mio padre a trovarlo. Non avevo mai assaggiato lo champagne... l’avevo visto solo al cinema. Mi sentivo come Myrna Loy.
«E poi ci trasferimmo qui, in questo appartamento. Era settembre. Il settembre del 1946. Paul aveva trovato lavoro e io mi occupavo della casa. Nell’attesa che nascessero dei bambini, ma il Signore decise di non farci quella grazia e dovemmo accettare il Suo volere. Non fu un periodo facile. Per niente.
«Ma traemmo il massimo anche da quello. Era nostro dovere. Uscii e mi trovai un lavoro anch’io. Come addetta alle vendite da Saks. Conosce Saks? In 5th Avenue? Oh, un lavoro meraviglioso. Gente elegante, ricca. Signore che acquistavano vestiti splendidi, gioielli. Valigie soffici come seta. Portavano dei cagnolini, dei cagnolini minuscoli con il collare ingioiellato, e avevano borsette e scarpe delle più costose. Addebitavano centinaia di dollari sul conto dei mariti con la stessa disinvoltura con cui io compravo il latte all’alimentari. Nessuno mi credeva quando lo raccontavo. Paul rideva e scherzava dicendo che avrebbe aperto un conto alla drogheria, ma nessuno mi credeva quando raccontavo dei soldi che spendevano quelle signorone.
«Mi mettevo dietro al bancone e loro mi porgevano gli oggetti che volevano comprare: rossetti, braccialetti, borsellini. Gli oggetti più voluminosi venivano consegnati a domicilio oppure arrivava un’auto a ritirarli. Io confezionavo i cosmetici e i gioielli nella carta velina e loro si protendevano per prenderli dalle mie mani, e io pensavo... me lo ricordo bene... pensavo che anche le loro braccia fossero bellissime. Orologi d’oro e camicette di seta. La lana... morbida come velluto. Ho dimenticato come si... ah, già, cachemire. I cappotti di cachemire. Così soffici. Tutto era etereo. Avevano le unghie lunghe e laccate, anelli con brillanti, smeraldi, rubini. Bellissimi. Avevano le mani... oh, la pelle liscia come raso. Usavano crema emolliente e, quando prendevo dalle loro dita la penna che avevano usato per firmare le ricevute, ne sentivo il profumo. Rosa o violetta. Iris. Riesce a immaginare un’esistenza che profumi di rosa e iris, signor Wonicke?
«E la cosa strana è che, per tutto il tempo in cui ho lavorato lì e ho aiutato quelle signore a fare acquisti, sapevo che il mio posto non era dietro quel bancone. Ero arrivata in questo paese quando avevo quattordici anni e so bene come funziona qui. Questa è la terra della libertà. La terra delle opportunità. Lavora sodo e avrai successo. Io lavoravo sodo e so che avrei potuto diventare come quelle donne. Ma la fortuna non è mai stata dalla mia parte. Mai. Dio chiamò i nostri figli a sé prima che aprissero gli occhi. Cinque figli, in nove anni. E naturalmente persi il mio bel figurino. Se lo avessi mantenuto, sarei stata come una di loro. Tutti mi dicevano che ero bella.
«Ma dovetti rinunciare al lavoro. Mi ammalai a causa di tutte quelle gravidanze. E avevo dei mal di testa terribili. Terribili. Perciò, nel 1960, lasciai il lavoro e ora trascorro i miei pomeriggi con la famiglia... mia nipote ha avuto due gemelli l’anno scorso, due maschietti e ora ce n’è un altro in arrivo... e al cinema. Vado matta per i vecchi film... quelli con Clark Gable e Lana Turner, o... la settimana scorsa ho visto un film con Gene Tierney e George Sanders. Bellissimo. Magico. E tristissimo.
«E vivendo a New York a volte incontro le star del cinema per strada. Quando arrivammo non succedeva mai... gli attori vivevano tutti in California. A Los Angeles. Ma ultimamente si sono trasferiti qui, a New York. Il mese scorso ho visto un uomo in metropolitana... aveva un’aria familiare e mi sono avvicinata... Gary Cooper! Gary Cooper, che un martedì mattina è salito a Canal Street. Mia sorella non voleva crederci quando gliel’ho raccontato.
«Ah, New York... a New York succede di tutto. Scrivo sempre a mia cugina Sonja a Frombork... una città piccola, piccolissima... e l’aggiorno sulle novità. Il mese scorso, ero dal panettiere, è entrato un uomo armato che ha portato via tutti i soldi dalla cassa! Mi sono presa un bello spavento, e prima di tornare a casa sono dovuta andare da un’amica, la signora Roberts, che abita lì vicino per calmarmi un po’. I buoni vicini sono importanti, non crede?
«Sì, conosco la signora Malone. È ovvio. Conosco tutti i miei vicini. Lei, però, la conosco bene. L’ho incontrata alla cassa, ero dietro di lei. Ricordo la signora Malone per via dei suoi capelli. Ha dei capelli bellissimi... rossi con i riflessi biondi. Dopo l’ho raccontato alla mia amica e lei mi ha detto che si chiama rosso tiziano. Mai sentita una cosa simile! Credo che Edith si sia presa gioco di me.
«Sì, ha i capelli rossi e dorati insieme. È minuta. Magrissima. Tutta pelle e ossa! Gli uomini preferiscono le donne formose, non è così?
«Ricordo il giorno in cui l’ho vista per la prima volta, portava una camicetta, un paio di pantaloni e delle scarpe bianche con il tacco alto. I pantaloni erano troppo stretti. E canticchiava tra sé, tenendo il ritmo con il piede.
«E la settimana dopo l’ho vista per strada e l’ho salutata, naturalmente, non appena l’ho riconosciuta, ma lei ha tirato di lungo. Lì per lì ci sono rimasta male... la gente è maleducata a volte... ma poi l’ho vista entrare al Dolly’s, il salone di bellezza, e ho pensato che fosse concentrata sul suo appuntamento e che non mi avesse visto. Poi mi sono ricordata che dovevo farmi tagliare i capelli e l’ho seguita, e lei era lì con la mano sul tavolo che si faceva limare le unghie. Rideva e chiacchierava con una donna grassa seduta accanto.
«E così è stato facile chiedere a Dolly, la proprietaria, di tingermi i capelli dello stesso colore. Credo abbia usato la tinta sbagliata perché è diverso, ma è bello lo stesso, non trova anche lei? Allegro.
«E da allora ho notato spesso la signora Malone. Ci vedevamo per strada e le sorridevo, ma lei non si fermava mai a parlare con me. A volte siamo andate allo stesso supermercato.
«Non mi piace dirlo, ma da allora ho iniziato a notare anche altre cose. Cose piuttosto spiacevoli. Che porta camicette troppo scollate. E pantaloni troppo aderenti. Trucco pesante. E che non ha la fede al dito. Non ha un marito.
«Una mattina ho visto i bambini, i suoi figli, giocare sul prato davanti al mio palazzo. Ho chiesto al maschietto dove fosse sua madre e lui mi ha risposto che era a letto. A letto! Alle nove di mattina! Non va bene. Non va bene! Ho preso per mano i bambini e li ho portati qui da me, ho dato loro un bicchiere di latte. Poi li ho riaccompagnati a casa e la signora Malone non mi ha neanche ringraziato. Nemmeno un grazie.
«Ero sempre educata con lei, le sorridevo, le auguravo il buongiorno. E da quella donna mai una parola gentile. Niente. A dire il vero, signor Wonicke, ogni volta era come uno schiaffo in faccia.»
Scott telefonò a Pete, e lui gli riferì quello che aveva sentito dire a Devlin: che la testimonianza di Lena Gobek sarebbe stato il colpo di grazia per Ruth. Poi gli raccontò quello che ricordava della signora.
Seguì una pausa di silenzio, poi Pete chiese: «È un problema? La signora Gobek può essere un problema?».
Scott sospirò e, quando riprese a parlare, la sua voce risuonò stanca. Quasi infranta.
«Forse. Aspettiamo domani e vediamo cos’ha da dire. E che impressione farà. Che opinione si è fatto di lei quando l’ha intervistata?»
«Era... era solo una vicina. Una vecchia signora. Un po’ sola. Le piaceva parlare. Raccontare storie.»
Scott mugugnò. «Una vecchia signora a cui piace raccontare storie. Speriamo sia davvero tutto qua.»
Pete vide la signora Gobek alzarsi dal banco e raggiungere la sbarra dei testimoni. Ci mise un’eternità. Alla fine salì i gradini e prestò giuramento, quindi si accomodò sulla piccola sedia, la sua rotondità metteva in risalto gli spigoli vivi del legno che la circondava.
Teneva la borsetta sull’ampio grembo fiorito, forse per proteggersi dagli uomini che la stavano osservando. Aveva le mani chiuse intorno al manico, la pelle tesa come per prepararsi a combattere.
Pete guardò Ruth e lesse in lei un interesse superficiale. Forse un pizzico di curiosità. Era più concentrata su Lou Gallagher. Continuava a lanciargli occhiate finché lui non alzò la testa, e Ruth gli rivolse un sorriso nervoso. Parve rilassarsi solo quando lui le sorrise di rimando.
Pete ripensò alla sua espressione quando, al ristorante, Beckman le aveva detto che se ne sarebbe andato. Ripensò ai suoi lamenti strazianti quando Salcito l’aveva tradita in quella stessa aula. Lou Gallagher era il suo ultimo appiglio.
Hirsch si sistemò la cravatta, si alzò e si schiarì la voce. Fece vagare lo sguardo nell’aula prima di rivolgersi alla giuria. Si pregustava la vittoria, pensò Pete. Quello era il momento che aspettava.
Dando le spalle alla testimone, diede inizio all’interrogatorio.
«Potrebbe dire il suo nome e il suo indirizzo così che sia messo a verbale?»
La signora Gobek sembrava perplessa. Si schiacciò le dita contro il seno abbondante e si guardò intorno.
«Io?»
Hirsch si voltò verso di lei, nascondendo la propria impazienza sotto un mezzo sorriso. Annuì e la donna, sollevata, gli sorrise a sua volta.
«Mi chiamo Helena Elzbieta Gobek. Il mio cognome da nubile era Wachowiak. Sono nata a Elblag, in Polonia, il nove di gennaio 1917. Il mio indirizzo è 72nd Road 44, Queens, New York.»
Parlava a ritmo serrato, picchiettandosi sul ginocchio con la mano. E mentre elencava i dettagli della sua vita, un’ondata di risate si diffuse tra gli spettatori. Pete la vide alzare la testa per ascoltare meglio, notò il suo piacere nel trovarsi davanti a quel pubblico, a cui rivolse un sorriso. Poi si curvò sulla borsetta in attesa della domanda successiva.
«Da quanto tempo abita a quell’indirizzo, signora Gobek?»
«Io e mio marito viviamo lì dal settembre 1946. Da quando ci siamo sposati. Saranno ventun anni quest’anno.»
«Pertanto sarebbe giusto affermare che lei conosce bene il quartiere?»
Lei inclinò la testa e con solennità disse: «Non so se sarebbe giusto, signor Hirsch. Ma è la verità. Che conosco il quartiere».
Un altro scroscio di risate, stavolta più forte. La signora Gobek alzò lo sguardo verso i banchi del pubblico. Arrossì, raggiante.
«E l’imputata? Da quanto tempo conosce la signora Malone?»
Lena Gobek guardò Ruth per la prima volta e la sua espressione d’un tratto si fece seria.
«Conosco la signora Malone da tre o quattro anni.»
Il bisbiglio di Ruth risuonò nitido nell’aula, tanto che il giudice la guardò accigliato.
«Non conosco quella donna!»
Scott la zittì. Le posò la mano sul polso.
Hirsch si volse di nuovo verso la giuria e parlò lentamente. In modo enfatico.
«Da tre o quattro anni. Molto prima della morte dei bambini.»
Ruotò per guardare la signora Gobek.
«Come ha conosciuto la signora Malone?»
«Ci siamo incontrate al salone di bellezza sull’angolo tra Ascan e Queens Boulevard. La signora Malone ci va una volta a settimana a farsi i capelli e le unghie. Ho iniziato ad andarci anch’io.»
Pete guardò Ruth che fissava Lena Gobek.
«Si tratta del salone Dolly’s in Queens Boulevard 368?»
La signora Gobek annuì.
«La prego di rispondere a voce alta, signora Gobek, così che possa essere messo a verbale.»
La donna si voltò verso la ragazza bionda e magra accanto alla sbarra dei testimoni, le dita che volavano sulla macchina per stenografare. Si protese e articolò con cura: «Sì, il salone di bellezza Dolly’s».
«E quando è stato? Quand’è che ha iniziato ad andare al Dolly’s?»
«Nel 1963. Alla fine di ottobre.»
«Come fa a essere tanto sicura della data, signora Gobek?»
«Ci vado tutte le settimane, ed ero lì per la terza o quarta volta quando il signor Kennedy è stato ucciso. Tutti ricordano dov’erano quel giorno. Al salone non si faceva che parlare della povera signora Kennedy. Del sangue sul suo vestito. Dell’uomo che aveva sparato al presidente dalla finestra.»
«Ha mai incontrato la signora Malone fuori dal salone di bellezza?»
«Sì, la incontravo all’alimentari. Andavamo entrambe a fare la spesa il martedì e il venerdì pomeriggio. La vedevo spesso e la salutavo.»
Ruth sembrava non credere alle sue orecchie. Aggrottò la fronte e scosse la testa.
«E poi, dove?»
«Be’, dappertutto nel quartiere. La vedevo per strada, a volte al parco. Soprattutto con i figli. Bambini molto belli. Educati.»
«Riconosceva i bambini?»
La signora Gobek guardò le fotografie ingrandite dei bambini appese alla parete e la giuria seguì il suo sguardo.
«Sì. Conoscevo il piccolo Frankie e sua sorella. La signora Malone la chiamava sempre Cin.»
Pete intravide la faccia pallida di Ruth.
Hirsch tornò a rivolgersi alla giuria.
«Quindi, signora Gobek, lei conosce bene la signora Malone? La conosce da qualche anno?»
«Sì. Certo. La conosco.»
«Bene. La ringrazio. Ora torniamo alla notte del tredici luglio 1965. La prego di riferire alla corte cosa ricorda di quella notte. A parole sue.»
Pete la vide sprofondare sulla sedia. Indubbiamente aveva letto fiumi di parole sul caso nei quotidiani, aveva sentito uscire di tutto dalla bocca di parenti e vicini, di sconosciuti. Come avrebbe fatto a trovare le sue, di parole?
La donna guardò Hirsch, la giuria. Il giudice. Quindi di nuovo Hirsch.
Il procuratore annuì e lei iniziò a raccontare, dapprima con esitazione.
«Quella notte faceva caldo. Un gran caldo. Non riuscivo a dormire perciò mi sono alzata per... per andare in bagno. E per bere un bicchiere d’acqua.»
«E poi cos’è successo?»
Hirsch la incoraggiava con gentilezza, ma Pete riusciva a cogliere l’impazienza nel suo tono di voce. Voleva che arrivasse al nocciolo della questione. Aveva quasi la bava alla bocca.
«Ho portato il bicchiere in salotto e mi sono seduta accanto alla finestra. Non avevo sonno. Ho pensato di leggere un po’ prima di tornare a letto. Poi mi sono ricordata che avevo lasciato il libro in camera e non volevo rischiare di svegliare Paul andando a prenderlo. Aveva il raffreddore ed era stanco.»
Erano i dettagli a rendere reale quel racconto. Pete osservò le facce dei giurati e vide che si trovavano in quell’appartamento buio insieme a lei.
«E allora cos’ha fatto, signora Gobek?»
«Sono rimasta seduta accanto alla finestra. Era aperta ed entrava un bel venticello.»
«In che direzione è rivolta la finestra?»
«Si affaccia su Main Street.»
«Che ore erano?»
«Quando mi sono alzata ho guardato l’orologio ed erano quasi le due. All’inizio c’era silenzio, poi ho sentito delle voci. Saranno state le due e un quarto, le due e venti.»
«Quante voci ha sentito, signora Gobek?»
«Dapprima non riuscivo a capire. Poi si sono avvicinate. Erano in due. Un uomo e una donna.»
«Riusciva a sentire cosa si dicevano?»
«No. All’inizio no. Venivano verso di me. Sotto il lampione. Non capivo cosa dicevano, ma sentivo i tacchi della donna.»
Gli occhi della vecchia si posarono su Ruth.
«Lei portava sempre le scarpe con il tacco.»
Scott balzò in piedi. «Obiezione!»
Il giudice già scuoteva la testa prima ancora che l’avvocato avesse parlato.
«Accolta. La giuria ignori l’ultimo commento della signora Gobek. Signora, la prego di attenersi alle domande del procuratore sugli avvenimenti di quella notte.»
La donna avvampò. Abbassò la testa.
«Sì, signore.»
Guardò Hirsch.
«Ho sentito i tacchi della donna. E delle voci.»
«Quindi ha sentito le voci di due persone. È riuscita anche a vederle?»
Lei annuì con convinzione. «Sì, certo. Li ho visti dall’altra parte della strada. Sotto il lampione. Li ho visti chiaramente.»
«Può descrivere cosa ha visto?»
«Una donna. Indossava i pantaloni. I suoi capelli brillavano sotto la luce del lampione. E portava i bambini.»
«Entrambi?»
La signora Gobek osservò Ruth. La sua esile corporatura.
«Portava la bambina che era... forse era addormentata. E tirava il maschietto per la mano. L’uomo camminava davanti a lei.»
Pete ripensò ai servizi che aveva letto sui giornali. Alla cronaca che aveva scritto lui stesso. Tutti quei dettagli erano apparsi sui rotocalchi.
Hirsch si girò verso la giuria.
«La notte del tredici luglio ha visto una donna camminare per strada con un uomo e due bambini? È questo che vuole dirci, signora Gobek?»
«Sì. Sì, è quello che sto dicendo. È quello che ho visto.»
«E dopo cos’hanno fatto?»
«Lei si è fermata e...» Sollevò le braccia come per cingere l’aria. «Si è issata la bambina in spalla. Come se fosse pesante. Ha lasciato andare il bambino che è corso verso l’uomo. Allora lui è tornato indietro e ha preso la bambina. È andato verso una macchina parcheggiata sul lato sbagliato della strada. Ha aperto lo sportello e ha gettato la bambina sul sedile posteriore.
«La donna è accorsa gridando: “Non trattarla così”. Lui l’ha guardata e le ha chiesto: “Che? Ora ti dispiace?”. E ha detto qualcos’altro che non sono riuscita a capire. Lei gli ha risposto: “Non dire così. Non dire così”. Per due volte.»
Ruth era una statua. Aveva gli occhi sgranati, carichi di disperazione. Pete lanciò un’occhiata verso Frank Malone che sedeva ripiegato su se stesso e si guardava le mani.
«Il bambino è salito sul sedile posteriore. Ho cercato di chiudere la finestra, ma ha cigolato e la donna ha detto qualcosa all’uomo. Si sono voltati tutti e due nella mia direzione perciò mi sono nascosta dietro le tende. Ho sentito il motore accendersi e, quando mi sono affacciata di nuovo, ho visto l’auto fare inversione e allontanarsi.»
«Signora Gobek, voglio che rifletta attentamente prima di rispondere alla mia prossima domanda.»
Tacque e sull’aula discese un silenzio assoluto, di attesa.
Hirsch riprese: «Sono sicuro che lei sappia che l’equilibrio dell’intero processo dipende dalla risposta che mi darà».
Pete si accorse di aver smesso di respirare.
«Riconosce in quest’aula una delle due persone, l’uomo o la donna, che ha visto quella notte?»
Stavolta non ci fu nessuna pausa, nessun silenzio di tensione. Prima che Hirsch avesse finito di formulare la domanda, la donna già annuiva.
«È quella donna là. È lei. Lei» e la mano grassa e bianca si staccò dal manico della borsetta. Indicò Ruth.
«Bugiarda! Bugiarda! Hai giurato di dire la verità! Non sai nemmeno cosa sia, la verità!»
Ruth era paonazza, furibonda. Aveva tentato di alzarsi, ma Scott la tratteneva per un braccio invitandola a rimettersi a sedere.
Un mormorio si diffuse tra gli spettatori e il giudice dovette battere il martelletto due, tre volte per ristabilire l’ordine. A poco a poco l’aula tornò silenziosa e Hirsch chiese di nuovo alla testimone: «Era la signora Malone la donna che ha visto quella notte?».
«Sì. Era proprio lei.»
Ruth scattò di nuovo in piedi, strillando: «Non ero io! Non ero io!».
Stavolta Pete percepì il terrore dietro la rabbia emergere oltre gli appelli alla calma di Scott, il crescendo di voci e persino il martelletto del giudice che richiamava i presenti all’ordine.
«Non ho mai incontrato quella donna! Non la conosco! Lei non mi conosce. Non mi conosce!»
Alla fine Scott costrinse Ruth a sedersi e si levò anche la voce del giudice.
«Un altro scatto del genere, signora Malone, e la farò allontanare dall’aula. Avvocato, controlli la sua assistita.»
Scott si rivolse a Ruth e la cinse con un braccio. Pete vide lo stupore sul viso dell’avvocato.
Hirsch sorrise al giudice e disse: «Avrei ancora qualche domanda, vostro Onore».
Aspettò ancora qualche secondo, osservando Ruth come per studiarla attentamente. I membri della giuria lo imitarono.
Aveva due chiazze rosse sulle guance. Hirsch voleva che la giuria assistesse alla sua rabbia, comprese Pete. Voleva che riuscissero a immaginarla furente e fuori controllo.
«Signora Gobek, gli eventi che ci ha riferito si sono svolti la notte del tredici luglio 1965, è corretto?»
La donna annuì, un po’ sconcertata, poi si sovvenne di qualcosa e si protese di nuovo verso la stenografa.
«Sì, è corretto.»
«Mi risulta che la polizia l’abbia interrogata il sei agosto, circa tre settimane dopo la scomparsa dei bambini. Conferma anche questo?»
«Sì, signore.»
«Eppure in occasione di quel primo interrogatorio lei non ha accennato a niente di tutto questo. Di essersi svegliata di notte, di essere rimasta seduta accanto alla finestra, di quello che aveva visto in strada.»
La testimone sembrava nervosa.
«Può spiegare alla corte per quale motivo non lo ha fatto? Perché non ha detto niente finché non ha scritto una lettera alla polizia, quattro mesi dopo il crimine?»
Pete fissò la signora Gobek. Il vestito informe, i capelli tinti. E capì: lei era il pezzo mancante del puzzle. Era stata la sua deposizione a fornire finalmente a Devlin quello che gli serviva per arrestare Ruth.
Lei intanto sedeva sul bordo della sedia, accigliata, mentre Scott, con aria di rassegnazione, ascoltava Hirsch che demoliva gli argomenti della difesa prima ancora che il suo avvocato potesse enunciarli.
La signora Gobek intrecciò le dita intorno alla catenina con il crocifisso che portava al collo e abbassò lo sguardo.
«Be’, è stato mio marito.»
«Suo marito le ha proibito di parlare con la polizia?»
«Sì. Gli ho detto che volevo farmi avanti, ma lui mi ha consigliato di restarne fuori. Che i poliziotti sapevano fare il loro mestiere e che non avevano bisogno di me. E che, se quello che dicevo era vero, allora anche qualcun altro doveva aver visto. Ha detto... lascia che la denuncino gli altri.»
Hirsch si appoggiò alla sbarra, quasi con naturalezza, e sorrise alla giuria. Un paio dei giurati sorrise di rimando.
«Suo marito era riluttante a permetterle di farsi avanti. Ed è comprensibile. Ma cos’è successo, signora Gobek, per farle cambiare idea?»
«Ho letto del caso sui giornali. Che la polizia non aveva arrestato nessuno. Ho capito che non sapevano niente. Che nessun altro aveva visto.»
Alzò il mento.
«L’ho capito... e ho detto a mio marito: sono l’unica ad aver visto quella donna, la signora Malone, con i bambini la notte in cui sono stati uccisi.»
Il suo sguardo sorvolò la giuria, i banchi del pubblico, e andò a posarsi su Ruth. Arricciò le labbra.
Hirsch si fece da parte e le lasciò recitare l’ultima battuta senza interromperla.
«Ho capito che ero l’unica che poteva aiutare la polizia a catturare quell’assassina.»
Hirsch le sorrise.
«La ringrazio, signora Gobek. La prego di restare seduta.»
Si allontanò da lei, fece l’occhiolino a Scott e disse chiaramente: «La testimone è sua, avvocato».
Scott si alzò dal tavolo. Sembrava esausto.
«Signora Gobek, le persone che ha visto dalla finestra quella notte, parlavano a voce alta? Gridavano?»
«No, parlavano a un tono di voce normale.»
«E quanto erano distanti dalla sua finestra? Per esempio quando si trovavano sotto il lampione?»
La donna corrugò la fronte. «Be’, non saprei dirlo con esattezza.»
Scott agitò la mano. «Erano, per esempio, più lontani di me? O della giuria? O di quella finestra?»
La testimone si guardò intorno e indicò la porta d’ingresso dell’aula.
«Direi che la distanza era quella.»
Scott seguì il suo sguardo. «La ringrazio, signora Gobek. Quindi all’incirca dodici metri.»
La donna fece spallucce.
«Adesso vorrei sottoporre alla sua attenzione il reperto numero 16, una cartina dell’isolato in cui si trova l’appartamento della signora Malone.»
Il commesso le porse un foglio su cui era stampata una pianta, e la giuria recuperò la propria copia del documento.
«L’appartamento della signora Malone è indicato da una croce. Riesce a vederlo sulla sua copia, signora Gobek?»
La donna osservò il foglio e annuì. «Sì. Lo vedo.»
«E il suo appartamento è indicato da una croce blu. Ci conferma che quello è il suo appartamento?»
La donna annuì di nuovo. «Sì. Sì, è casa nostra.»
Scott recuperò qualcosa dalla tasca e si avvicinò alla testimone tendendo la mano.
«Ora vorrei che con questa penna segnasse il punto in cui si trovavano le persone che ha visto la notte del tredici luglio.»
Le consegnò la penna e attese. La donna guardò Hirsch, che annuì.
Incoraggiata da quel cenno, la donna stappò la penna e fece un segno sul foglio. Scott riprese la penna e tenne sollevata la cartina.
«Chiedo alla corte di notare che sulla cartina la signora Gobek ha tracciato un segno a una distanza di quasi sessanta metri dalla sua finestra, sulla base della scala indicata.»
Consegnò il foglio al membro della giuria più vicino che lo fece girare.
Scott si rivolse alla testimone.
«Sessanta metri, signora Gobek.»
Pete si rilassò. Questo l’avrebbe sicuramente destabilizzata.
Ma lei guardò Scott senza commentare.
«È una bella distanza per riconoscere qualcuno e per sentire cosa sta dicendo.»
La donna rimase in silenzio.
«Ha appena affermato che parlavano a un tono di voce normale. Sta forse insinuando di aver udito due persone che parlavano a voce normale a una distanza di sessanta metri?»
La donna arrossì. «Io non insinuo niente. Li ho sentiti. Ed è normale: quando la mia amica, la signora Ciszek, mi chiama dal suo appartamento e mi chiede se ho bisogno di qualcosa all’alimentari, io la sento da casa mia.»
A quel punto si levò un crepitio di risa, e la tensione si allentò almeno in parte.
Scott chiese: «Dove abita la signora Ciszek?».
Il commesso restituì la penna e il foglio alla signora Gobek che appose un altro segno.
«Sottopongo all’attenzione della corte che la signora Gobek ha indicato un appartamento a circa cinquantacinque metri dal suo.»
Il foglio passò di nuovo nelle mani della giuria. Stavolta non sembravano troppo interessati: tutti gli sguardi erano puntati sulla signora Gobek.
«Se la sua amica parla a un tono di voce normale...»
La signora Gobek annuì. «Sì. Sì. Normale.»
«Se la sua amica parla a un tono di voce normale e lei si trova nel suo appartamento, riesce a sentirla a una distanza di cinquantacinque metri?»
Scott riuscì a trasmettere l’incredulità nella propria voce, ma questo servì solo a provocarla. La donna si sporse verso il microfono, gli occhi puntati sull’avvocato.
«Certo che riesco a sentirla. Ho un udito perfetto. Una vista perfetta.»
Scott rimase a guardarla ancora qualche secondo mentre Pete si protendeva in avanti e in silenzio lo spronava a continuare. Doveva pur esserci qualcosa che poteva fare, un’altra prospettiva da mettere in luce.
Invece Scott tornò alla sua postazione e, con tutta calma, annunciò: «Non ho altre domande, vostro Onore».
Hirsch balzò in piedi prima che Scott avesse raggiunto il tavolo della difesa. Mentre la signora Gobek lottava con il cancellino per scendere dalla sbarra dei testimoni, Hirsch accorse ad aiutarla.
«Allora, com’è andata?»
La prese sottobraccio. «Splendido. È stato splendido.»
E per un momento il viso rubicondo e trionfante della donna parve davvero splendido. Mentre il giudice aggiornava l’udienza al giorno successivo e Ruth veniva scortata via, il sorriso della signora Gobek fu come un raggio di sole nell’aula cupa.