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Quando Pete si ripresentò al lavoro il mattino successivo, trovò due articoli sulla scrivania, nessuno dei quali relativo al caso Malone. La matita blu del revisore correva di riga in riga come la scia di una lumaca. Si versò una tazza di caffè, vi mescolò tre bustine di zucchero e prese a battere a macchina, ma i suoi pensieri gravitavano intorno a Devlin, a Quinn e a quello che aveva detto sulla signora Malone. E a Ruth Malone stessa.

Erano passati sedici giorni da quando i bambini erano stati rapiti e il corpo della bambina ritrovato, e non c’erano notizie concrete su chi l’avesse uccisa, né sul fratellino scomparso. La polizia aveva diffuso un comunicato secondo il quale Cindy era stata strangolata, senza però fornire altri dettagli. Tutto ciò che i giornali potevano pubblicare era un rimpasto di nomi, età e date, il luogo in cui Cindy era stata ritrovata, la descrizione di Frankie e di cosa indossava la notte in cui era scomparso, le svariate ipotesi su cosa gli fosse successo.

“Fuffa”, così la chiamava Friedmann. Serviva a tenere viva l’attenzione del pubblico. In attesa del capitolo successivo.

Che si aprì proprio quel mattino.

Squillò il telefono. Pete alzò lo sguardo come un automa e vide che Janine lo guardava mentre rispondeva. Distolse appena lo sguardo e coprì la cornetta con la mano. Pete tese l’orecchio.

Poi Janine mise la chiamata in attesa, ignorò l’«Ehi, che...» sussurrato da Pete e trotterellò verso l’ufficio di Friedmann. Doveva trattarsi di qualcosa di grosso: Janine non voleva neanche correre il rischio che qualcuno la sentisse per caso mentre passava la chiamata. La gonna stretta le impediva di avanzare se non a piccoli passi, ma considerata la velocità con cui procedeva, Pete mise da parte le bozze e aprì una pagina nuova del taccuino.

La seconda linea di Janine prese a squillare e Pete la ignorò, ma il trillo era così insistente che una delle altre segretarie coprì la cornetta con la mano e gli sibilò di rispondere. Pete non poté far altro che obbedire, gli occhi sempre puntati sulla porta di Friedmann.

Era O’Connor. Non appena udì la sua voce, a Pete tornarono in mente le parole di Friedmann: «O’Connor ha altre due settimane di ferie. Ti occuperai tu del caso fino al suo ritorno».

Assunse un tono frivolo. «Ehi, amico. Credevo fossi in Florida.»

«Wonicke? Che ci fai alla reception? Senti, non ho molto tempo. Sono in Florida. All’ospedale!»

«Cos’è successo? Stai bene?»

«No che non sto bene. Se stessi bene non sarei qui, razza di imbecille.»

Pete non perdeva d’occhio la porta di Friedmann, ma nessuno dei due era ancora uscito.

«Friedmann è in ufficio?»

«Sì, ma in questo momento è occupato.»

«Senti, riferisci tu il messaggio. Dovrei tornare domani, ma ho bisogno di un’altra settimana. Quel cretino di mio fratello ha distrutto la macchina.»

«Cazzo.»

«Già, cazzo.»

«Com’è successo?»

«Eravamo in un locale a giocare a biliardo e bere birra. Abbiamo alzato un po’ il gomito. Solo che quel coglione non regge l’alcol. E non ha voluto darmi le chiavi della macchina. E ora è ricoverato con due costole rotte e un polmone perforato, e tocca a me sbrigare le scartoffie dell’assicurazione.»

«Porca miseria, Con. Si rimetterà presto?»

«Quel cazzone? Oh, lui sta benissimo. Sono io che ho il collare. Dicono che non posso mettermi al volante per altre sei settimane.»

Si udì una voce in sottofondo e Con sbraitò: «Ancora due minuti... Miseria, qui non c’è nemmeno un telefono pubblico decente. Sono nella sala infermiere. Devo uscire di qui, amico. Questo posto è un buco di merda. Il caldo, le zanzare del cazzo. Ho le braccia che sembrano dei puntaspilli. Appena mi dimettono e sistemo le scartoffie vado dritto al primo noleggio auto e mi metto in strada... sì, sì, la sento, infermiera. Ho finito. Insomma, torno tra una settimana, più o meno. Diciamo lunedì. Il nove. Va bene? Puoi dirlo tu a Friedmann?»

«Certo.»

«Allora, che succede da voi? È arrivato qualcosa di interessante? Per cui vale la pena tornare di corsa?»

E io cosa ne so, Con? Sono solo l’addetto alla reception.

Pete passò in rassegna la fila di segretarie, tutte impegnate a parlare al telefono, a battere a macchina. Guardò la sua scrivania, gli appunti sul caso Malone. Le interviste trascritte, con i commenti e le domande a margine.

Inspirò profondamente e cercò di risultare il più disinvolto possibile.

«Non proprio. Un paio d’incidenti d’auto. Niente di che. Le solite cose.»

«D’accordo. Bene. Diglielo, che se entra qualcosa di grosso, torno lunedì. Lo prendo in mano appena arrivo. D’accordo? Hai capito?»

«Certo. Lunedì.» Pete lo appuntò sul taccuino, sempre guardando la porta di Friedmann. Quando si aprì, Janine uscì seguita a ruota da Friedmann che torceva il collo per perlustrare la stanza. Pete si alzò, catturò la sua attenzione.

«Devo andare, Con. Riguardati.»

Riagganciò. Friedmann fece un brusco cenno della testa e Pete obbedì.

«Bisogna che tu torni nel Queens, Wonicke. E alla svelta. 68th Drive. Ci sono sviluppi nel caso Malone, ma non so cos’hanno scoperto.»

Peter riferì il messaggio di O’Connor a Janine e corse al parcheggio. Sfrecciò sul ponte di Williamsburg alla velocità massima che la vecchia Chevrolet poteva concedergli, consultando freneticamente la cartina a ogni semaforo rosso. La polizia aveva cordonato la strada, l’asfalto scintillava al caldo soffocante di agosto. Era un vicolo cieco, probabilmente il ritrovo domenicale per i bambini in bicicletta: c’erano un terrapieno artificiale, un boschetto di alberi intisichiti. Proprio come il quartiere dove abitavano i Malone, era il genere di posto che passava inosservato.

Ma la vicenda era sulla bocca di tutti e, qualunque cosa fosse successa quel mattino, aveva già attirato una discreta folla. C’erano agenti dappertutto. Giornalisti a frotte. E un gruppo di curiosi a file di due o tre sul terrapieno. Anche l’atmosfera era diversa: lì il dolore era del tutto assente. E così pure la compassione. Pete osservò le facce curiose della gente e si rese conto che quelli non erano né amici né vicini, ma principalmente estranei coinvolti per caso in quella storia drammatica. Se ne stavano in silenzio, a braccia conserte, e tendevano il collo per guardare i poliziotti che entravano e uscivano dal boschetto. In attesa di qualcosa.

Pete scese dall’auto, il taccuino in mano, sudato sotto la giacca sportiva. Prese posizione accanto ai reporter più navigati che con aria indifferente se ne stavano addossati a un furgone. Ne riconobbe un paio dai primi piani in testa agli articoli a loro firma.

Non desiderava altro che essere uno di loro. Quanto avrebbe voluto la loro freddezza sulla scena di un delitto, la loro andatura sciolta, il loro modo di estorcere informazioni a vicini e negozianti, la loro capacità di tramutare un pettegolezzo in un fatto incontrovertibile.

Da due anni si dedicava a quel lavoro – due anni a battere a macchina bollettini di ordinaria amministrazione, a vivere in un monolocale sotto il quale sfrecciava la metro a ogni ora della notte e dove il pazzo della porta accanto strillava nel sonno – e quella era la sua grande occasione. Se lo sentiva. Quella storia era sua.

Dopo ventitré minuti di pura tensione, un poliziotto si avvicinò adagio al gruppo dei giornalisti. Se la prese comoda, si tirò su la cintura dei pantaloni, fece dondolare il manganello, protraendo l’attesa ancora un po’. Uno dei giornalisti più attempati – Miller? Mellor? – si distaccò dal resto dei colleghi per andargli incontro a mezza strada. Il poliziotto emise un brontolio basso, l’altro chinò il capo, annuì, quindi rimase immobile, lo sguardo fisso per terra anche mentre l’agente gli dava una pacca sulla spalla e poi faceva ritorno, sempre lentamente, nella zona perimetrata. A quel punto il giornalista si riunì agli altri veterani che a loro volta riferirono informazioni frammentarie ai colleghi ai margini del gruppo. Pete tenne stretto il taccuino e fece il possibile per avvicinarsi agli altri. Nessuno gli rivolse la parola. Si sforzò per origliare brandelli di conversazione.

C’è qualcosa laggiù. Tra gli alberi.

Dev’essere il maschietto.

A quanto pare hanno trovato delle tracce. Vestiti, forse.

I poliziotti non si sbottonano.

Naaa, rilasceranno un comunicato tra un’oretta.

«È stata quella troia. Non ci sono dubbi.» Era stato il tizio con il naso da ubriacone e una palpebra cadente che gli congelava la faccia in un ammicco perenne. «Visto come va e viene dalla centrale... tutta truccata e pettinata. Non ha versato una lacrima. Neanche una.»

Il resto del gruppo, con la sigaretta accesa e la tazza di caffè in mano, annuì con solennità. Pete pensò a quei capelli fiammeggianti, a quegli occhi sgranati. Si domandò perché la signora Malone non avesse almeno finto di piangere, non avesse indossato i panni della madre disperata. Si chiese cosa stesse accadendo in profondità, sotto la superficie.

Ancora immerso nei suoi pensieri, si infilò il taccuino in tasca e si voltò, asciugandosi il sudore che gli grondava dalla fronte, agognando almeno un alito di vento. Fu perciò il primo a scorgere il fotografo della polizia che usciva dal boschetto. L’uomo era bianco come il marmo e farfugliava qualcosa, e Pete capì.

Il fotografo si addossò a una radiomobile parcheggiata e si chinò in avanti per riprendere fiato, o forse per vomitare. Pete gli fu accanto in un attimo, gli posò una mano sulla spalla e disse: «Credo ne abbia bisogno». E gli offrì una sigaretta. Il fotografo la prese con la mano tremante e aspettò che Pete l’accendesse al posto suo. Inspirò, e la sua pelle terrea riprese colore.

Guardava Pete, ma aveva gli occhi sgranati e come velati da una nebbia, e il giovane giornalista si rese conto che stava ancora vedendo quello che aveva lasciato tra gli alberi.

«Sono stato due volte in Corea. Ma questo... questo...»

Si portò la mano al viso per un istante e si coprì gli occhi. Pete chinò la testa in segno di comprensione, senza smettere di fissarlo.

«Quel povero bambino. Solo che... be’, non è più un bambino. Non ha più le braccia, e il collo...» Deglutì a vuoto. «Gli animali hanno straziato il corpo. E anche il caldo, dice il medico legale.»

Un brivido corse lungo la nuca di Pete, e il sapore metallico della nausea gli riempì la bocca.

Il fotografo tirò dalla sigaretta. «Sembrava un pezzo di legno. Ecco cosa ho pensato non appena l’ho visto. Un coso nero per terra. Il viso... Ho pensato subito che fosse un ciocco di legno. E l’odore. Oddio...»

E a quel punto il fotografo dette di stomaco e Pete indietreggiò sentendosi stringere la gola. Guardò i poliziotti che uscivano dal boschetto con lo stesso pallore verdognolo del fotografo, la stessa espressione inebetita, gli uomini dal furgone del medico legale che confabulavano a bassa voce, e i soccorritori che arrivavano armati di bottiglioni di alcol; per i vermi, probabilmente.

E si domandò come diavolo riferire la pietà e l’orrore di quella morte. E come trasmettere la propria rabbia e il proprio disgusto alla gente del Queens per il fatto che il corpo di un bambino fosse diventato oggetto di repulsione.

L’articolo di Pete si conquistò un posto nell’edizione del mattino, ma le correzioni furono così tante da rendere il suo stile praticamente irriconoscibile. E il «Courier», lo «Star» e il «Times» aprirono tutti con la stessa vicenda. Meglio di niente. Era la prima volta che un suo pezzo appariva in prima pagina. Era pur sempre un inizio.

Passò i due giorni successivi nei dintorni di 72nd Drive a lavorare sui pezzi che sarebbero seguiti. Gravitava nel quartiere intorno alle squadre di poliziotti in uniforme, in cerca di Devlin. Gli agenti lavoravano porta a porta per la seconda volta, sperando di trovare testimoni. Quello che alcune settimane prima era apparso come orribile, adesso era un avvenimento all’ordine del giorno.

«Se notasse qualcosa di sospetto, signore, per quanto insignificante possa sembrarle, la prego di chiamarci... no, non ci disturberà affatto, signora... sì, signora, una tragedia. Grazie a voi.»

Li vide mostrare una fotografia di Frankie e Cindy in ogni casa, li vide aspettare con le facce pazienti e stanche mentre la gente osservava i sorrisi innocenti, faceva schioccare la lingua e inconsapevolmente sfiorava la testa ai figli che, incuriositi, sbirciavano da dietro gambe e porte quei poliziotti in carne e ossa. Poi restituivano la fotografia. Scuotevano la testa e prendevano i biglietti con l’indirizzo e il numero di telefono del distretto di polizia. Non sapevano niente. Non avevano sentito né visto niente.

Pete stava uscendo da un appartamento a pochi minuti a piedi da 72nd Drive quando vide due agenti che bussavano a una porta dall’altra parte del pianerottolo. La donna che aprì sembrava trafelata: si ravviava i capelli tinti di rosso con le mani grassocce, tirava la vestaglia rosa fucsia, si faceva aria in faccia. Disse di chiamarsi Gobek e non guardò mai gli agenti negli occhi per tutto il tempo in cui Pete rimase lì; scosse la testa ancor prima di aver visto la fotografia. No, non abbiamo visto niente. Né visto né sentito niente. Io e mio marito siamo persone tranquille, ci piace andare a letto presto.

La porta si richiuse e i due poliziotti si scambiarono un’occhiata, poi scossero la testa. Proseguirono e Pete andò a sedersi in macchina, si accese una sigaretta e rilesse gli appunti.

I vicini parlavano volentieri della famiglia. Della separazione dei genitori.

«Dieci anni fa non c’erano persone come i Malone in questo quartiere. Coppie divorziate e altri soggetti poco raccomandabili. Ci siamo trasferiti qui dalla città in cerca di pace e tranquillità. E guardi ora cosa succede.»

«Non posso biasimare Frank per aver fatto i bagagli ed essersene andato. Ha visto la signora Malone? Come si veste? Escludo che gli fosse fedele.»

«Frank Malone? Oh, è un tesoro. L’inverno scorso sono uscita di casa un mattino e la mia macchina non voleva mettersi in moto. Me ne stavo lì a chiedermi come fare, chi chiamare, quando è passato lui e mi ha domandato se avevo bisogno di aiuto. L’ha sistemata in un quarto d’ora. E non ha voluto un centesimo. Un vero gentiluomo.»

«Credo sia un po’ pazza, per quel suo modo di fare. Per il bere e il resto. Aveva i bambini a cui badare, è vero. Torna a casa tardissimo quattro o cinque volte la settimana... e a volte bestemmia come uno scaricatore di porto. Non c’è fumo senza arrosto, non è così che si dice? Una donna come quella... be’, chissà cosa sarebbe capace di fare.»

La potenza dell’avversione collettiva verso la signora Malone alimentava la curiosità di Pete. Nei confronti della donna. Di quello che era successo ai suoi figli. Del motivo per cui non aveva l’aspetto di una madre in lutto. Era tempo che vedesse con i suoi occhi cosa c’era in fondo a quella storia. Voleva sentire cos’aveva da dire la signora Malone. Giudicarla con i suoi occhi.

Perciò si drizzò, gettò la sigaretta e si avviò verso il palazzo dove abitava. Faceva parte di una schiera di edifici di mattoni rossi a tre piani: la facciata scalcinata, la vernice che si staccava dai davanzali. Da una finestra aperta al secondo piano proveniva della musica.

Schiacciò il campanello dell’appartamento dei Malone. Nessuna risposta. Aspettò, ci riprovò. Ancora niente.

Le lasciò un messaggio e lo infilò nella cassetta delle lettere insieme al suo biglietto da visita. Le scrisse che era interessato ad ascoltare la sua versione dei fatti, che voleva sapere cosa, secondo lei, era successo ai bambini.

Rimase accanto alla sua macchina per un po’, fumò una sigaretta chiedendosi se sarebbe apparsa. Niente.

Lunedì mattina Pete arrivò prima del solito. Recuperò le ultime bozze corrette, stappò una Coca-Cola e si mise a leggere. Quando vide passare Friedmann, si precipitò nella sua direzione.

«Ha un minuto, signor Friedmann?»

Questi guardò l’orologio. «Sessanta secondi, non uno di più.»

Pete lo seguì nel suo ufficio. Friedmann sprofondò sulla sedia, in attesa.

«La ringrazio, signore. Allora, Con... O’Connor non è ancora tornato. Ho detto a Janine...»

«Sì, sì, lo so. L’incidente. Il fratello. Bla bla bla. Cosa vuoi?»

«Voglio continuare a occuparmi del caso Malone.»

Friedmann si appoggiò allo schienale della sedia, pensieroso.

«So tutto sulla vicenda. Anche se Con tornasse... be’, intanto non sappiamo quando lo farà. Conosco il quartiere. L’ho esplorato palmo a palmo. Voglio andare a fondo in questa storia. Scavare un po’ e vedere se riesco a scoprire qualcosa.»

Ripensò a Ruth Malone: il trucco, i capelli cotonati, l’assenza di dolore. «Credo che ci sia dell’altro dietro le apparenze.»

Friedmann scattò in piedi, prese il barattolo di mangime per pesci.

«Da quant’è che sei da noi? Un anno?»

«Due.»

«Due. Bene.» Sparse il mangime in scaglie sulla superficie dell’acqua, osservò i pesci che risalivano a galla, il loro ritmico boccheggiare.

Si voltò verso Pete. «Okay.»

«Okay?»

«La storia è tua. Tua la firma, tua la responsabilità.»

«Caspita. Grazie. Grazie, signor Friedmann. Davvero.»

«Al primo casino, te la tolgo. E niente discussioni.»

«Non se ne pentirà, signor Friedmann.»

«Invece sì, so che me ne pentirò. Ma se il Signore ha deciso di mandare in ospedale il mio cronista numero uno e mi ha inviato te al suo posto, chi sono io per oppormi? Il Signore dà, il Signore prende. Ora fuori di qui. Va’ a scrivere qualcosa di decente da mandare in stampa.»

Tre giorni dopo. Ventidue in totale da quando i bambini erano scomparsi. Tre settimane da quando Quinn gli aveva detto che Devlin riteneva necessario indagare a fondo su Ruth Malone. Eppure, nonostante le imbeccate di Quinn, nonostante l’apparente determinazione della polizia a scavare e trovare prove contro di lei, ancora non c’era stato alcun arresto. Pete continuava a interrogarsi. Su cosa avessero scoperto, e cosa invece no.

Si fermò al cancello del cimitero in attesa del corteo di automobili. Aveva lasciato la bottiglia di Coca-Cola in macchina perché reputava irrispettoso berla; e adesso pensava al suo sapore, alla condensa sul vetro, alla dolce carica della caffeina.

Poi udì il lento avvicinarsi di una macchina e si voltò in tempo per vedere il carro funebre che avanzava verso di lui sotto il torrido sole pomeridiano. Mentre l’auto sfilava, Pete intravide una donna anziana a bordo, dritta come un fuso, le labbra serrate, gli occhi puntati davanti a sé. Un sacerdote, con la faccia di chi va incontro a una dura giornata di lavoro.

Non c’era nessun altro. I genitori erano ancora sotto interrogatorio alla centrale. Forse era una benedizione che non dovessero vedere un’altra piccola bara calata nello stesso fazzoletto di terra.

Poi arrivò un taxi da cui scese una delle vicine dei Malone: la donna che il primo giorno gli aveva detto che qualcuno aveva preso i bambini. Greta qualcosa. No, Gina. Gina Eissen. Aveva le guance arrossate, madide di sudore, un fazzoletto e un mazzo di margherite sfiorite in mano. Lo guardò e fece per superarlo, ma scivolò sulla ghiaia e inciampò. Pete l’afferrò per il braccio.

«Cazzo. Fanculo a queste scarpacce di merda. Cazzo...»

E poi scoppiò a piangere, lacrime rumorose e sature di Scotch le colavano lungo il naso, parole arrabbiate e confuse le uscivano dalla bocca.

«Non dovrei neanche esserci, qui... non è giusto... seppellire dei bambini...»

Prese a gemere e lui le picchiettò imbarazzato sulla spalla, pescò un fazzoletto e glielo offrì. Fissò la strada di terra battuta e si chiese cosa dirle.

La donna si soffiò il naso, si ricompose, si passò un dito sotto ciascun occhio per limitare i danni. Sospirò.

«Cristo... Grazie per... be’, grazie.»

«Brutta giornata.»

«Eh, già.» Estrasse una bottiglia mezza vuota dalla borsa. Mandò giù un sorso. «C’è qualcun altro?»

«Per ora solo una macchina. Con una donna a bordo.»

«Probabilmente la madre di Ruth.» Un altro sorso. «Sembrava che avesse una scopa nel culo?»

Di punto in bianco la donna scoppiò a ridere, poi smise all’improvviso. «Cazzo, Gina, non dovresti dire cose del genere.»

«Signorina Eissen... è sicura di farcela?»

Lei mandò giù un sorso, poi un altro. «Devo. Ho promesso a Ruth che sarei andata. Frankie ha bisogno di qualcuno che lo conosceva davvero. E non di una come quella là, con i suoi biglietti di Natale,» un cenno sdegnoso della testa in direzione della chiesa «ma di qualcuno che sapeva quali fossero i suoi giocattoli preferiti, e che non gli piacevano le carote.» Tirò su con il naso. «Qualcuno che lo conosceva davvero.»

Si girò e si incamminò verso la chiesa, zoppicando appena sul tacco rotto, le gambe tozze come tronchi sotto l’orlo sfrangiato, e rimise la bottiglia in borsa.

Pete la raggiunse, la prese sottobraccio. «La accompagno.»

«Sto bene. Solo che...»

«Davvero. Mi permetta di aiutarla.»

E prima che Gina potesse dire qualcosa, erano già davanti alla porta della chiesa. Pete gliela tenne aperta.

La funzione fu breve: solo Pete e Gina su una panca e un’anziana dall’altra parte della navata. Gina la indicò con un cenno e mormorò: «È quella là. Nonna Kelly».

Pete osservò l’anziana durante tutto il servizio funebre: gli occhi asciutti, le labbra serrate. Lei ignorò entrambi. Il sacerdote le si avvicinò, si sedette al suo fianco e le prese una mano. Iniziarono a parlottare a bassa voce.

Mentre Pete continuava a guardarla lei si voltò, come se avesse percepito il suo sguardo. Pete notò le rughe che scavavano solchi nel suo viso. Osservò i ricci brizzolati, le occhiaie scure.

Chinò il capo, soddisfatto che nessuno l’avesse visto arrossire, e seguì Gina fuori dalla chiesa verso un piacevole calore dopo il freddo buio dell’interno.

«Posso darle un passaggio, signorina Eissen?»

Lei estrasse di nuovo la bottiglia, bevve un sorso, si strinse nelle spalle. E lo seguì trotterellando verso la macchina.

Gina si addormentò prima che raggiungessero la strada principale. Pete lanciò un’occhiata alla donna che, accasciata da una parte, russava rumorosamente, le tracce lasciate dalle lacrime ben visibili nonostante il trucco pesante. Si domandò come diavolo avrebbe fatto a tirarla fuori dalla macchina.

Ma la donna si svegliò non appena imboccarono 72nd Drive e Pete spense il motore. Si guardò intorno con aria intontita, si stropicciò gli occhi e si girò verso Pete. Poi sospirò e fissò un punto oltre il parabrezza. Fuori c’era ancora un piccolo gruppo di giornalisti che ronzavano intorno al palazzo come mosche sulla carne putrefatta. Erano quasi le cinque. E faceva ancora caldo.

Senza guardarlo, Gina disse: «Grazie per avermi portato a casa. E per essere rimasto con me».

«Si figuri. Senta, posso farle alcune domande? Sulla signora Malone?»

«No.» Tirò fuori le sigarette, se ne accese una.

«Vorrei solo capire una...»

«Ho detto di no. Grazie per il passaggio, ma Ruth non ha certo bisogno che un giornalista ficchi il naso nella sua vita. Come se gli sbirri non bastassero.»

Aveva la voce impastata, ma la sua rabbia era palese.

Sospirò, e lo fissò attraverso la coltre di fumo. «L’hanno licenziata, lo sapeva? Nemmeno tre settimane dopo che è successo. Non poteva andare al lavoro, e allora l’hanno silurata. Perciò voi,» puntò la sigaretta verso Pete «ora dateci un taglio. Lasciatela in pace.»

Aprì lo sportello, fece ruotare le gambe slanciandole fuori dalla macchina e si accasciò in avanti facendo cadere la sigaretta per terra, la testa riversa sulle ginocchia in modo quasi aggraziato.

Pete attese un momento, poi un altro e, siccome la donna non si muoveva, le picchiettò sulla larga schiena.

Gina annuì. Farfugliò qualcosa. Agitò la mano senza alzare la testa.

«Mi dia un secondo. Un secondo... solo.»

Poi tacque, stavolta così a lungo che Pete pensò avesse perso i sensi. E infine emise un lungo sospiro, sollevò la testa e si mise in piedi in un unico movimento fluido.

Si fermò per stiracchiarsi, accese un’altra sigaretta e poi si avviò in modo lento e ondeggiante verso il marciapiede, oltre la folla di giornalisti, e attraversò il prato. Quando raggiunse i gradini che conducevano al portone del palazzo, alzò la mano senza voltarsi e agitò le dita in direzione di Pete.

Lui rimase seduto ancora un istante. Sentiva ancora l’odore di Scotch e di fumo.

Prese il suo pacchetto, pescò una sigaretta e la picchiettò sul cruscotto, l’accese e la fumò lentamente, osservando la luce che cambiava e il pomeriggio che moriva tutt’intorno. Udiva in lontananza l’Expo: la musica, gli sprazzi di una voce che si rivolgeva ai visitatori.

La gente passava davanti alla sua auto: soprattutto donne, due o tre alla volta, con i sacchetti della spesa, a braccetto o spingendo la carrozzina. Gruppi di bambini scorrazzavano sul marciapiede, gridavano minacce e insulti, piccoli volti indistinti su magliette vivaci. I bambini sembravano non accorgersi della sua presenza. Indubbiamente erano stati messi in guardia dopo il rapimento dei Malone, ma le abitudini infantili erano più forti delle raccomandazioni dei genitori. Per loro era solo un’idea. Una storia di paura fra le tante.

Le donne invece lo notavano eccome. Lo guardavano dritto in faccia e si accigliavano, e tenevano gli occhi fissi su di lui mentre abbassavano il mento, raddrizzavano le spalle e confabulavano tra loro sottovoce sullo strano tipo in macchina. Una coppia si appuntò il suo numero di targa, in modo ostentato, nella speranza che fosse sufficiente a mandarlo via e, siccome non ebbe l’effetto sperato, ripassarono le lettere per renderle più scure e nitide: un gesto scaramantico per esorcizzare il verificarsi di altre tragedie.

Pete ripensò al frigo vuoto nel suo appartamento, frugò nella giacca in cerca del portafogli e sentì lo scricchiolio dell’ultima lettera di sua madre.

Di solito gli scriveva del tempo, che era sempre piacevolmente caldo, insopportabilmente umido o tremendamente freddo. Gli scriveva dei suoi giretti in città, del costo dei biglietti dell’autobus o delle file nei negozi. Gli scriveva della sua artrite, che era sempre stabile, grazie al cielo, e leggendola Pete avvertiva un’antica noia opprimente.

Ma quella lettera era diversa. La tirò fuori dalla tasca. Piegato all’interno c’era un assegno.

Rileggendola, vide sua madre seduta al tavolo della cucina sotto la luce ambrata del lampadario, i capelli imbiancati sulle tempie, le macchie di vecchiaia sulle mani. Sentì gli aromi familiari della cera d’api e delle verdure cotte.

Udì la sua voce sottile e speranzosa.

Non è molto, lo sai che non siamo mai stati dei nababbi. Ma abbiamo versato le rate regolarmente e alla morte di tuo padre l’assicurazione ci ha pagato. I soldi sono in banca, e sono tuoi. Ti faranno comodo, un giorno. Quando ti deciderai a mettere su casa.

Fra le righe Pete lesse la speranza della madre, chiara come se fosse stata messa nero su bianco.

Ripiegò la lettera e la ripose nella busta. Avvertì il desiderio improvviso di stendersi e dormire a lungo. Poi qualcosa lo indusse ad alzare lo sguardo e vide Ruth Malone alla finestra del suo appartamento. Indossava un abito chiaro di stoffa aderente e se ne stava con le mani e la fronte schiacciate al vetro, e guardava giù verso la strada soleggiata. Il mondo che andava avanti senza di lei.

Pete la guardò osservare le donne e i bambini, e ripensò ai vicini con cui aveva parlato. Alle cose che avevano detto su di lei. Forse si sentiva al sicuro, lassù, dietro un vetro. Forse pensava che, non sentendo cosa dicevano, le loro parole non avrebbero potuto ferirla.

Mentre continuava a guardarla, lei ruotò per appoggiare una spalla e il fianco contro il vetro. Aveva la testa rovesciata all’indietro, la folta criniera di capelli fiammeggianti le ricadeva pesante sul collo.

E poi ruotò ancora, facendo perno sulle scapole che rimasero a contatto con il vetro. Si rotolò come se fosse nel letto in una pigra domenica mattina e tutto fosse normale. Ruotò di nuovo e si fermò con le mani contro il vetro, lo sguardo rivoltò al cielo rosso fuoco. Sembrava quasi che stesse pregando.

E d’un tratto Ruth Malone non era più al sicuro. Pareva una falena pallida che svolazzava sbattendo contro la finestra. In trappola.

Pete provò lo stranissimo desiderio di toccarla e, nel medesimo istante, proprio mentre avvampava per la vergogna, lei lo vide. Spalancò gli occhi e, per un lungo istante, nessuno dei due si mosse. Poi dischiuse le labbra. Lentamente.

Pete abbassò lo sguardo e la lettera gli cadde tra i piedi. Mise in moto la macchina armeggiando con le chiavi. Non la guardò più, ma continuò a sentire i suoi occhi su di sé anche quando imboccò la superstrada. Si sentiva nudo, come se lei l’avesse guardato dentro, e questo lo spaventò.

Tornò a casa, si stese sul letto e cercò di non pensare a lei. Ma la sua mente continuava a tornare alle sue labbra dischiuse. Al modo in cui l’aveva guardato.

E allora si rese conto che con la mano si stava massaggiando il pene sotto la biancheria, al pensiero di quella bocca su di sé. Di quella O contornata di rossetto intorno al sesso, la mano affondata tra quei capelli fiammeggianti. Si abbassò i boxer verso le cosce e venne con un gemito, si asciugò la mano sull’addome e si addormentò prima che la sostanza viscosa si fosse seccata all’aria torrida della sera.