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Era mercoledì quando la chiamata arrivò all’«Herald». Un mercoledì mattina nella settimana più calda di luglio, e Pete Wonicke sedeva a una scrivania che non sentiva sua.

In maggio aveva allungato venti verdoni a Horowitz per fare a cambio e, nonostante fossero passati due mesi, la scrivania ancora gli trasmetteva una strana sensazione. Era così vicina alle segretarie da offrirgli una posizione di vantaggio su tutto ciò che passava dal centralino e che doveva essere assegnato. Gli altri giornalisti, quelli di lungo corso, avevano contatti con la polizia locale o informatori prezzolati. Perciò ricevevano una telefonata ogni tanto, sparivano per un paio di giorni, e tornavano con qualcosa. Pete sapeva che l’unico modo di procacciarsi una storia decente era tentare la fortuna.

Era uscito a bere una birra con Terry DeWitt la sera prima, e avevano concluso la serata in un locale seminterrato in Bowery Street. Al bancone del bar c’era una fila interminabile e lo strato di fumo azzurrino che avvolgeva la sala come una garza faceva lacrimare gli occhi di Pete. Era il genere di locale in cui, potendo scegliere, non avrebbe mai messo piede. Terry DeWitt era all’«Herald» da quasi otto anni, e prima era stato al «Courier» per altri sei. Si era guadagnato il rispetto di tutti. Girava persino voce che gli avrebbero assegnato una rubrica fissa. Era il genere di persona che Pete doveva ingraziarsi.

Terry se n’era andato dal locale a mezzanotte, mentre Pete era finito a giocare tre partite a biliardo con un tizio di nome Lucky a cui mancava un dito e che teneva un morso di tabacco tra la guancia e i molari. Quando si era svegliato alcune ore dopo, appiccicoso e vestito di tutto punto fuori dalle lenzuola, la sbornia non gli era ancora passata. Era entrato in ufficio sentendosi piuttosto bene – il primo ad arrivare per il turno di giorno, come sempre –, ma ora la sbronza stava calando ed era tempo di dire ai postumi che gli martellavano il cranio di fare quello che dovevano per poi lasciarlo in pace.

Pete allungò le gambe e continuò a sfogliare i bollettini arrivati nottetempo in cerca di uno spunto, a tenere gli occhi aperti su quello che gli accadeva intorno. Con la testa dolorante si sforzò di concentrarsi nonostante il battito delle dita sulle tastiere delle macchine per scrivere, lo squillo dei telefoni, il volume altalenante delle voci e, soprattutto, il ronzio dei neon. Si scostò i capelli dalla fronte e si fece aria con un taccuino. Nella redazione aleggiava il solito cattivo odore. Era una via di mezzo tra uno spogliatoio e una bettola: il puzzo di uomini che non si lavavano abbastanza spesso si mischiava al fetore di abiti non puliti, sigarette e cibo fritto. Gli salì la nausea.

Si chiese se convincere una delle ragazze della dattilografia a scendere al Brooke’s per prendergli un root beer float. Si frugò in tasca per cercare il portafogli e, sentendo il fruscio dell’ultima lettera di sua madre, la nausea gli salì alla bocca dello stomaco e la sua pelle si coprì di sudore.

Janine continuava a fare la spola tra l’ufficio del capo e la fotocopiatrice, e Pete sentiva il suo sguardo sulla nuca. Tenne la testa bassa sul fascio di fogli, la mente che vagava verso qualcosa di dolce, freddo e rinfrescante. Verso il tintinnio di un lungo cucchiaio in una coppa di vetro, la schiuma gialla e densa dove il gelato incontrava la bevanda gassata.

Continuò a sfogliare i bollettini e di tanto in tanto prese qualche appunto. La sua mente tornava senza sosta al foglio piegato che aveva in tasca. A gravare sul familiare senso di oppressione c’era un più recente sollievo generato dalla distanza tra il mondo rievocato dalla lettera di sua madre e la sua nuova vita a New York.

La donna gli scriveva tutte le settimane su fogli bianchi di carta velina che comprava nell’unica cartoleria del paese. Ogni volta che Pete sfiorava la carta fine ed economica che usava, pensava di doverle comprare qualcosa di bello. Carta spessa del colore della panna fresca. O magari filigranata e tinta di un lilla chiaro, oppure dei biglietti celesti con il bordo fiorito. Della carta da lettere acquistata a Manhattan: poteva chiedere al negozio di impacchettarla e mandargliela, e poi ricompensarsi per aver speso soldi che non aveva immaginando la faccia di sua madre quando avrebbe aperto la scatola.

E poi pensava a come si sarebbe sentito nel ricevere una sua lettera. E si odiava ogni volta per il fatto che sapeva, che sapeva, che non sarebbe stato in grado di sopportare la calligrafia elementare di sua madre su una carta da lettere realizzata appositamente per donne ricche.

Buttava giù una risposta stereotipata a ciascuna lettera a poche ore dal suo arrivo, e poi il senso di colpa lo costringeva a portarsela dietro per giorni, come la copertina che aveva da piccolo. Le aveva chiesto di scrivergli al giornale: voleva che vedesse, che riconoscesse, ogni volta che scriveva l’indirizzo, che suo figlio ce l’aveva fatta. Che era riuscito nel suo intento: si era trovato un vero lavoro, in città, in un ufficio dove la posta veniva consegnata direttamente alla scrivania.

Ma per quanto provasse a concentrarsi su quella sensazione, per quanto si convincesse di aver avuto successo, in un angolino della sua mente c’era sempre il timore martellante della precarietà di quel lavoro. La tiratura calava di settimana in settimana, e giravano voci di tagli al personale. Pete non poteva permettersi di perdere quel posto, e non solo perché riusciva a malapena a pagarsi l’affitto. Lì aveva fatto la gavetta – aveva battuto a macchina le previsioni del tempo, gli incidenti stradali e le cronache delle partite di football universitario – e il giornale aveva un debito con lui. Aspettava un’occasione da una vita; e quando la telefonata fosse arrivata, quella telefonata, l’avrebbe trovato pronto.

E quel torrido mattino di luglio, la chiamata arrivò.

Fu Janine a prenderla. Rimase in ascolto per qualche secondo, masticando la gomma e scribacchiando, e mormorando «ah-ah» di tanto in tanto. Pete non la perse d’occhio e notò che una stanghetta dei suoi occhiali da gatto era spezzata, che il rossetto aveva iniziato a colarle nelle rughe intorno alla bocca.

Poi Janine domandò: «Di che età?» e «Indirizzo?».

Solo un bambino scomparso. Forse un adolescente che era rimasto fuori fino all’alba, o un marmocchio che si era allontanato per strada mentre la mamma era distratta. Capitava. Dopo un paio d’ore di panico qualcuno avrebbe notato un bambino che piangeva sul marciapiede e avrebbe chiamato la polizia, e tutto si sarebbe risolto per il meglio con una bella fotografia di madre e figlio che ridevano e piangevano un po’ per lo spavento e un po’ per il sollievo.

Prevedibile. Scontato.

Però era sempre una storia e Pete poteva giocarsela bene: magari cogliendo lo spunto per scrivere un articolo sul crescente tasso di criminalità o sulle madri lavoratrici che abbandonavano i figli a se stessi. Qualcosa che avesse un minimo di interesse per l’umanità. E così Pete mise da parte i bollettini, si drizzò in piedi e si sistemò la cravatta.

Janine riagganciò, finì di scrivere qualcosa, strappò un foglio dal taccuino, infine si alzò e si diresse verso la cronaca locale. Pete le si parò davanti prima che avesse fatto cinque passi.

«Salve, Janine.»

Lei arrossì. Addentò la gomma da masticare. Si tolse gli occhiali e cincischiò con la catenella a cui erano appesi.

«Ciao, Pete.»

«Stai davvero una favola, oggi. Te l’ho già detto?»

Lei arrossì ulteriormente e si passò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

«Ehm... no...»

«Be’, è così. Tuo marito è un uomo davvero fortunato. Mi auguro che lo sappia.»

Lei ridacchiò, una mano sulla bocca per nascondere i denti storti, e alzò lo sguardo verso di lui spostando il peso su un fianco.

«Di che si tratta?» Con un cenno della testa Pete indicò il foglio che aveva in mano.

«Oh, è solo un bambino. Un bambino scomparso nel Queens. In... ehm... da qualche parte tra il Queens College e il Kissena Park.»

«E dove lo stai portando, questo bambino scomparso?»

Lei ridacchiò di nuovo.

«Oh... be’, il signor Friedmann mi ha ordinato di passare la chiamata a Jack Lamont.»

Jack Lamont, che il mese scorso si era aggiudicato la storia della prostituta uccisa. Che chissà come a marzo era riuscito a intervistare il testimone chiave del processo Mendoza.

Con la coda dell’occhio Pete vide Jack alzarsi e dirigersi verso il bagno o la macchina per il caffè.

Si protese in avanti, inspirò l’odore di sigaretta, profumo e cipria della donna. Con delicatezza le sfiorò la manica della camicetta.

«Questo colore ti dona, Janine.»

Lei sgranò gli occhi e arrossì per la terza volta. Pete si arrischiò a lanciare un’occhiata di sottecchi per assicurarsi che Jack fosse fuori dai giochi. Si raddrizzò.

«Non credo che oggi Lamont sia venuto.»

Lei batté le palpebre.

«Ah, no? Avrei giurato di averlo visto...» Si voltò, ed entrambi guardarono la scrivania vuota di Jack. Poi la donna tornò a fissare Pete, un po’ sperduta.

«Non preoccuparti. Ci penso io.»

«Oh, be’, non saprei. Il signor Friedmann ha detto che...»

«Suvvia, Janine. Scommetto che Friedmann preferirebbe che qualcuno se ne occupasse invece di lasciare il messaggio in giro mentre lo “Star” o il “Courier” sono già in prima linea.»

Le sfilò il biglietto di mano e se lo mise in tasca. Poi le fece l’occhiolino.

«Oh» ripeté lei. «Ma il signor Friedmann ha detto che... insomma...»

«Non preoccuparti. Ci penso io.»

Pete rallentò per cercare parcheggio. Era un quartiere tranquillo, non il genere di posto dove spariscono i bambini e, non fosse stato per la presenza delle donne, avrebbe pensato di aver sbagliato strada. Erano dieci o quindici, raggruppate in piccoli crocchi su una chiazza di erba secca fuori da un palazzo. I capelli cotonati, le voci basse, le facce che scintillavano alla calura. Poi Pete scorse un tizio che lavorava per il «Courier». Anderson, forse. Aveva un nome dal suono svedese. Pete l’aveva visto a una conferenza stampa: gli ispidi capelli biondi e la giacca sbiadita di velluto a coste spiccavano in mezzo a giacche e cravatte. Se ne stava addossato alla capote della sua auto e scarabocchiava sul taccuino.

Pete gli si avvicinò con più disinvoltura possibile.

«Sono Pete Wonicke dell’“Herald”. Lei è Anderson, giusto?»

L’uomo non alzò neanche lo sguardo dai suoi scarabocchi. «Anders.»

«Ah, scusi.»

Pete rimase accanto a lui per un momento, poi estrasse il taccuino dalla tasca per tenere le mani impegnate. Vide un poliziotto girare intorno al palazzo con un sacchetto per le prove e un altro che, in disparte rispetto alle donne, osservava accigliato le finestre dell’edificio.

Allora forse la faccenda era seria.

Chiese: «Qualche novità?».

Anders si strinse nelle spalle. «È solo un bambino che si è allontanato da casa. Niente di che.»

Parlava in modo lapidario. Annoiato. Squadrò Pete da capo a piedi. «Perché? Ti aspettavi qualcosa di più interessante?»

Pete si sentì avvampare e distolse lo sguardo, fingendo di armeggiare con la macchina fotografica. Distolse lo sguardo da Anders, scattò un paio di foto all’edificio, poi si accostò al capannello di donne più vicino. Notando il taccuino e la macchina fotografica, quelle si portarono subito le mani ai capelli; iniziarono a lisciare e sistemare.

Pete si stampò un sorriso in faccia e si fece avanti.

«Buongiorno, signore. Sono Peter Wonicke dell’“Herald”. Sono qui perché il direttore del mio giornale è molto preoccupato per la scomparsa del bambino. Mi domando se potete dirmi qualcosa al...»

«Bambini.»

Non lo guardava, ma Pete sapeva che era stata lei a parlare. Gambe tozze, fianchi larghi, un vestito stretto di cotone stampato e pantofole ai piedi. Capelli stopposi color giallo limone raccolti per nascondere la ricrescita. La faccia tonda, una dose eccessiva di fard. Niente anello al dito. Fumava e guardava il poliziotto che sfogliava il suo taccuino.

«Mi scusi, signorina...?»

«Eissen. Gina Eissen.» Si girò verso di lui. «Doppia esse.» Soffiò un pennacchio di fumo nello spazio che li divideva. «Ha detto “bambino”. Ma i bambini scomparsi sono due. Frankie e Cindy Malone.»

La donna lo fissò apertamente e sotto il suo scrutinio l’inesperienza gravò su Pete come un pastrano di lana. Gli prudeva la pelle e aveva le ascelle sudate.

Notò una ragazzina che sostava nervosamente ai margini del gruppo. Avrà avuto sui quattordici, quindici anni. Poi si fece avanti un’altra donna. Alta, i capelli ricci appuntati sulla testa e il naso lungo, portava un cardigan celeste appoggiato sulle spalle, una borsetta bianca al braccio. Protese la mano ben curata.

«Maria Burke. Lei come ha detto di chiamarsi?»

«Wonicke. Peter Wonicke dell’“Herald”.»

«Capisco. Be’, è bello che il suo giornale abbia mandato qualcuno a occuparsi del fatto, signor Wonicke, e mi fa piacere che almeno lei porti la cravatta, a differenza del suo collega laggiù... ma purtroppo sta sprecando il suo tempo.»

Lo guardava in faccia, senza tuttavia incrociare il suo sguardo.

«Prego?»

«I piccoli Malone non sono scomparsi. La madre a volte è un po’... distratta, e devono essere scappati mentre lei non guardava. Tutto qua. Non c’è altro da aggiungere. I bambini non spariscono in questo quartiere.»

Allora quella era davvero una faccenda che poteva sbrigare da solo.

«Ha detto Malone, signora Burke?»

«Sì.»

«E quanti anni hanno i bambini?»

Si appuntò i nomi e le età dei bambini e dei genitori, da quanto tempo vivevano in quella strada, e il parere della signora Burke su qualsiasi cosa, dal modo di vestire della signora Malone ai servizi dell’«Herald» sulle ultime elezioni presidenziali, fino all’indolenza dell’amministrazione comunale nel Queens. Scattò una foto alle donne. Senza mai perdere d’occhio la ragazzina che, alla fine, si fece avanti e si rivolse a Maria Burke.

«Ehm... mamma?»

La signora Burke era nel pieno di un’invettiva sulla raccolta dei rifiuti e quasi non si fermava nemmeno per riprendere fiato.

«Non ora, tesoro. La mamma è occupata.»

«Mamma, devo...»

«Sally, te l’ho già detto. È maleducazione interrompere una conversazione tra adulti.»

«Ma si tratta di Frankie e Cindy.»

Con quelle parole calamitò tutta la loro attenzione.

«Cosa intendi?»

«Be’, è solo che...» Si torceva le mani e il suo sguardo altalenava tra la signora Burke, Gina Eissen e Pete. «Non so che fare. Ho provato a dirlo a quel poliziotto e anche lui ha detto che era troppo impegnato.»

«Dirgli cosa, tesoro?»

«Vedete quella carrozzina?» Tutti si voltarono a guardare. Era una carrozzina robusta con una scatola sopra, a un metro circa da una finestra aperta ai trenta gradi dell’aria esterna. Pete sollevò la macchina fotografica e rubò un paio di scatti.

«Cosa c’è che non va?»

«Ieri sera era davanti al palazzo della signora Rossi. È stata spostata.»

Guardò Pete. «La finestra aperta? È quella della loro camera. La camera di Frankie e Cindy.»

La signora Burke sembrava impaziente. «E?»

«Be’, pensavo che... magari qualcuno avesse spostato la carrozzina per... insomma, per farli uscire da lì. O che forse l’hanno usata per scendere.»

«Sally, non essere ridicola. Due bambini piccoli non potrebbero spostare quel coso da soli... non arriverebbero nemmeno al maniglione. Piantala di attirare l’attenzione su di te, tesoro, e lascia che la polizia faccia il suo lavoro.»

Pete si sentì addosso gli occhi di Gina Eissen e si voltò per incrociare il suo sguardo.

«Lei cosa ne pensa, signorina Eissen? Cosa crede che sia successo ai bambini?»

Nessuna esitazione. «Qualcuno li ha presi.»

Una donnetta scura che fino ad allora era rimasta in silenzio lasciò andare un sospiro. Si voltò verso di loro, la pelle olivastra in fiamme. «Non dirlo nemmeno, Gina! Non dirlo!»

Gina buttò la sigaretta e la schiacciò con la punta del piede, con voluta lentezza.

«Perché no? Questo giornalista mi ha chiesto cosa pensavo.»

Guardò Pete dritto in faccia.

«Ruth Malone non li perde d’occhio un attimo, signor Wonicke. Per lei sono tutto. Non è distratta,» lanciò un’occhiata al vetriolo alla bocca stretta della signora Burke «ha da fare. Si ammazza di lavoro e alleva i figli da sola. Ha da fare ed è stanca morta, ma se fossero scappati lo saprebbe. Qualcuno li ha presi. Ve lo dico io.»

Si morse il labbro. Deglutì a vuoto.

«Qualcuno, un pazzo, è entrato durante la notte e li ha presi, e Ruth,» fece un cenno verso la finestra aperta «lei darà i numeri, tutta sola là dentro.»

A un tratto Pete ebbe la sensazione che quella storia dilagasse fino a riempire le paure delle donne intorno a lui. Per lo meno Gina Eissen era convinta che a quei bambini fosse successo qualcosa di brutto. All’improvviso si accorse di avere il cuore in gola, la bocca secca. Poteva essere l’inizio di qualcosa di grosso.

In prigione, durante le lunghe notti nere o le ore lente e silenziose a passeggiare in cortile, Ruth ha provato a isolare l’istante in cui tutto è cambiato. Sempre che ci sia stato un tale istante.

Forse fu quel primo mattino, quando Devlin trovò le bottiglie nella spazzatura. O forse il pomeriggio, quando arrivò la telefonata.

Era in salotto con un bicchiere di ginger ale freddo in mano e dalla finestra guardava i poliziotti sul prato e le donne sul marciapiede. Osservava le donne dalle stecche delle persiane: gli occhi saettanti, lustri sotto i capelli cotonati, le bocche umide che si aprivano e si chiudevano. I gomiti che si allungavano sotto le braccia conserte quando uno degli agenti si spostava.

E poi il telefono prese a squillare. Si voltò, ma il giovane poliziotto dalla faccia rossa la batté sul tempo. Alzò la cornetta e poi si allontanò, borbottando parole a lei incomprensibili. Ruth pensava che fosse una di quelle telefonate tra sbirri. Che non avesse niente a che fare con quello che le era successo.

Poi il giovane richiuse la mano sulla cornetta e gridò: «Sergente Devlin! Venga subito qui, signore!».

Ruth aveva già la bocca aperta per formulare le domande alle quali sapeva che l’ispettore, apparso rapidamente sulla soglia nonostante la corporatura massiccia e squadrata, non avrebbe comunque risposto. L’ispettore prese il telefono e si passò una mano sulla fronte, sui capelli untuosi.

«Devlin.» Silenzio. «Quando?... È sicuro?»

I suoi occhi vagarono per la stanza mentre parlava, la mente altrove. E poi il suo sguardo si posò su Ruth. Ha spesso immaginato cosa deve aver visto in quel momento: la sagoma del suo corpo che si stagliava contro la luce della finestra, i capelli un alone di fuoco intorno al viso pallido, gli occhi sgranati e spaventati fissi nei suoi.

Per un lungo istante si guardarono attraverso la limpida luce dorata. Ruth fece un passo in avanti.

«Li hanno... cosa...»

Poi la persona all’altro capo della linea disse qualcosa, e la domanda le morì sulle labbra. Devlin riagganciò e si voltò verso di lei.

«Ho bisogno che venga con me, signora Malone.»

«Li hanno trovati? Hanno trovato Frankie e Cindy? Li hanno... stanno bene?»

Quasi sentiva le loro manine nelle sue. Immaginò le lacrime. Le magliette sporche. I dolcetti che avrebbe comprato per festeggiare.

Lui la guardò, l’espressione indecifrabile.

«Venga con noi, signora.»

«Dove? Stanno bene?»

Il sergente non rispose, le tenne soltanto la porta aperta. Lei abbassò gli occhiali e lo precedette in corridoio. Tremava.

Mentre uscivano dall’edificio, Devlin un passo dietro a lei, Ruth rivide le donne sul marciapiede. Le donne che conosceva, le donne i cui figli giocavano con i suoi. Alcune avevano le lacrime agli occhi, la faccia triste e indistinta. Altre si sussurravano facendosi schermo con la mano. Vide occhi accigliati, bocche sigillate. Vide compassione. Vide facce sbiancate per la paura, la curiosità e qualcos’altro, qualcosa di più duro a cui non osò dare un nome.

Ruth incrociò gli occhi di Maria Burke, prima che le altre distogliessero lo sguardo. Come se la sua disgrazia fosse contagiosa, anche Nina Lombardo abbassò la testa.

Ruth avanzò fino a raggiungere i poliziotti. Un crocchio scuro di uniformi e abiti, e poi ai margini qualcuno che la fissava: Johnny Salcito. Si fermò, stupita, incapace di guardare altrove. Quel viso amorevole, forte, che aveva iniziato a cambiare nell’ultimo anno; le mascelle sempre più flosce e cadenti, le vene rotte sul naso più visibili. Quei tristi occhi castani che l’avevano guardata da dietro innumerevoli tavoli di innumerevoli locali e ristoranti, che l’avevano fissata, eccitati e persi, mentre si spingeva dentro di lei. Quegli occhi, ora, erano vuoti.

Johnny indietreggiò, incrociò le braccia e bisbigliò qualcosa a uno degli altri poliziotti per farlo ridere. La osservò senza alcuna emozione e lei gli restituì lo sguardo finché i suoi occhi non si riempirono di lacrime e la sagoma di Salcito si perse nel gruppo di altre figure ostili. Tutti la guardavano.

Le donne rientrarono in casa per preparare il pranzo; alcune riapparvero. Arrivarono altri agenti che stazionarono sul praticello a mormorare tra loro. Pete ne abbordò un paio, chiese loro se avessero commenti da fare. Tutti risposero la stessa cosa: che non c’erano novità e le ricerche dei piccoli Malone erano in corso.

Pete si guardò intorno in cerca di Anders, ma la sua auto era sparita. Fece qualche altra foto, cercò di catturare il senso di attesa. Le voci basse, la tensione, le facce tirate.

La donnetta scura servì dei panini, arrossì quando Pete la ringraziò e si presentò come Carla Bonelli. Rimase con lui a guardarlo mangiare, chiacchierò del lavoro del signor Bonelli e gli portò un bicchiere di latte.

Pete le chiese se aveva delle fotografie dei bambini scomparsi, lei tornò in casa e riapparve con un album rivestito da carta da parati a fiori. Sfogliò le pagine popolate da italiani dalla faccia tonda a matrimoni e banchetti, poi si fermò, sollevò il cellofan ed estrasse due fotografie.

Una ritraeva dei bambini che giocavano in strada – quella strada? I dettagli erano insufficienti per stabilirlo –, un idrante aperto, lo spruzzo argenteo dell’acqua che occultava lo sfondo. Per prima cosa Pete notò i disegni della luce; l’arcobaleno di gocce creato da una bambina che volteggiava, i capelli bagnati aperti a ventaglio dietro di lei. Notò i dettagli del costumino a gale sulle braccia e le gambe tornite, e, accanto a lei, il corpo ossuto di un bambino in pantaloncini. Doveva avere due o tre anni più della femminuccia, ma la superava in altezza di tutta la testa, le membra scure e lunghe, i denti bianchi.

L’altra fotografia mostrava gli stessi due bambini sul divano, con una donna seduta in mezzo. La donna teneva il braccio intorno alla femmina e il maschietto le posava la testa sulla spalla. I tre ridevano all’obiettivo. Avevano la stessa bocca larga, la stessa fronte alta, ma se i bambini erano tutta innocenza e allegria, il sorriso patinato della donna non combaciava con l’espressione degli occhi.

La signora Bonelli sfiorò la fotografia. «Sono loro. Frankie e Cindy. E la loro mamma. Quella è Ruth.»

Poi aggiunse: «L’ho vista, sa. Stamattina. Non riesco a credere che sia stato proprio stamattina».

«Ha visto la signora Malone? Dove?»

«Era laggiù» indicò la fine della strada. «Cercava i bambini. Mi ha detto che erano scomparsi.»

«E lei cos’ha fatto?»

«Non sapevo che fare. Non sapevo nemmeno se stava dicendo la verità. Che Dio mi perdoni, ho pensato...» i suoi occhi si riempirono di lacrime «ho pensato che avesse bevuto.»

Tirò su con il naso. «Non me lo perdonerò mai.»

Pete cercò di farsi venire in mente qualcosa da dire, ma tutto ciò che gli uscì fu: «Signora Bonelli, sono sicuro che... be’, aspettiamo che ci sia qualche novità».

Lei annuì. Si asciugò gli occhi con il grembiule. Prese il piatto e il bicchiere e tornò in casa.

Pete si guardò intorno e fece scivolare le foto nel taccuino, chiuse l’album in fretta e lo lasciò sul gradino di casa. Tornò in macchina. Non c’era altro che potesse fare: aveva i nomi, aveva raccolto i dettagli sulle circostanze della sparizione. Da quanto aveva visto e sentito, i poliziotti ne sapevano quanto lui.

Accese il motore e decise di cercare un telefono per chiamare in ufficio, prima di tornare indietro e battere a macchina gli appunti.

Poi il portone del palazzo si aprì e un mormorio spazzò la sparuta folla come la brezza un campo di granturco.

Un agente in uniforme uscì dal portone. Arrossì accorgendosi di essere al centro dell’attenzione, si precipitò verso una volante parcheggiata in fondo al vialetto e si mise alla guida.

Sulla soglia apparve poi un secondo uomo che strizzò gli occhi al sole del pomeriggio. Era grosso, largo di spalle, i capelli impomatati all’indietro, la faccia terrea e squadrata.

Anche se era in abiti borghesi, anche lui doveva essere della polizia. Camminava come un poliziotto e gli altri agenti in uniforme si misero sull’attenti non appena uscì.

Pete sollevò la macchina e scattò una foto.

Clic.

L’uomo tenne aperto il portone e una donna apparve dietro di lui.

Non era come si aspettava. E non appena se ne rese conto, si chiese cos’era che si aspettava; cosa l’avessero spinto ad aspettarsi quelle donne. Una selvaggia, pensò. Con i capelli scarmigliati, sciatta nel vestire. Un’isterica.

Invece era facile riconoscere la donna patinata della fotografia. Aveva le fattezze di una bambola. Era magra, portava dei pantaloni chiari che le arrivavano ai polpacci, una camicetta aderente. Ed era minuscola, o forse così appariva in confronto agli uomini che la circondavano: il poliziotto davanti a lei, il tizio alle sue spalle con la sigaretta in mano. Aveva i capelli corti, scuri all’ombra dell’ingresso e poi di un rosso oro fiammeggiante quando uscì alla luce del sole.

Clic.

Alzò la testa e guardò prima le donne, poi gli agenti. La sua bocca assunse la forma di una O di stupore. Ma prima che Pete riuscisse a capire cosa stava guardando, lei distolse lo sguardo e seguì il poliziotto in borghese sulla volante che li aspettava.

Pete guardò verso il portone e vide emergere il terzo uomo. Aveva ancora la sigaretta in mano, ma la teneva fiaccamente, come se si fosse dimenticato di averla tra le dita. Era imponente, come il poliziotto in borghese, ma se quest’ultimo era tutto autorità e determinazione, l’uomo sembrava sperso. Aveva la camicia spiegazzata, le mascelle bluastre nei punti in cui non si era rasato. Fissò la signora Malone che saliva in macchina e, mentre la guardava, la sua espressione cambiò. Al posto dell’aria intontita di chi si è appena svegliato, sul suo viso si delineò qualcosa che somigliava alla paura.

Clic.

L’auto si mise in moto e partì. Pete accese il motore e si lanciò all’inseguimento.

Ruth sedeva sul sedile posteriore; immobile, silenziosa, trattenne il fiato per lunghi istanti di tensione. Devlin viaggiava davanti, sul sedile del passeggero. Ruth non riusciva a guardarlo, ma di tanto in tanto sentiva i suoi occhi su di sé attraverso lo specchietto, il peso del suo scrutinio, il sollievo quando distoglieva lo sguardo.

Avrebbe voluto chiedergli dove fossero diretti, ma sapeva che non le avrebbe risposto. Si costrinse a tacere. Ad aspettare. La stavano portando dai bambini. Doveva concentrarsi su quel pensiero. Su Frankie e Cindy.

Il sedile di pelle bollente le si incollava alle gambe attraverso i pantaloni di cotone, aveva i palmi sudati. La sirena suonava mentre sfrecciavano attraverso il traffico dell’ora di pranzo. Ruth avvertì una lieve corrente d’aria tiepida soffiare dai finestrini anteriori verso il punto in cui sedeva, soffocata, in trappola. L’autista farfugliò qualcosa al conducente di una vecchia station wagon che impiegava troppo tempo a mettersi da parte.

Ruth osservò la sua impazienza come da una certa distanza. Fissò la pelle rossa e lentigginosa che usciva dal colletto rigido, i capelli tagliati da poco, rasati troppo corti sulla nuca. Si rese conto che era il poliziotto nel suo appartamento. Quello che si chiamava Quinn. Ricordò la propria rabbia nel vederlo inginocchiato accanto al letto e sentì quella stessa rabbia svanire, rimpiazzata da un inatteso moto di tenerezza, dal desiderio di proteggerlo. Era troppo giovane per quel mestiere: per avere un capo come Devlin, per fare il poliziotto.

Si abbandonò al poggiatesta strappato e chiuse gli occhi. Sognò di starsene in un posto fresco. In un posto sterminato e silenzioso. Poi emersero inaspettati i ricordi delle estati alla fattoria di suo zio in Nebraska, e insieme la cocente nostalgia per l’ombra che dilagava sulla prateria alla sera e per l’ampio cielo sbiancato dalla luce morente. Ripensò allo scricchiolio irregolare della sedia a dondolo di zia Shauna, al ghiaccio che tintinnava nel suo bicchiere di limonata, alla pula che le impolverava le gambe ossute e abbronzate, e immaginò di trovarsi laggiù: a dondolarsi sotto la veranda, lo sguardo perso verso la terra sempre più tenebrosa, ad ascoltare il sussurro della brezza e il frinire dei grilli e il silenzio della notte in una città che era a migliaia di chilometri di distanza dal luglio di New York.

La volante frenò all’improvviso; Ruth si sentì schiacciare indietro e subito catapultare in avanti, e dovette piantare le mani sul sedile anteriore per ritrovare l’equilibrio. Il collo rosso e lentigginoso del guidatore non si torse.

Vide che si trovavano in un lotto vuoto di un quartiere che non conosceva. Confusa e d’un tratto sopraffatta dal panico, Ruth guardò Devlin, ma lui era già sceso dall’auto e le stava aprendo lo sportello. A qualsiasi spettatore sarebbe parso un gesto galante; in verità quegli sportelli si aprivano solo dall’esterno. Si chinò e Ruth trasalì inorridita quando l’uomo le infilò la grossa mano sotto l’ascella. Indietreggiò nel tentativo di sfuggire alla sua presa: non sopportava l’idea che quell’uomo toccasse il suo sudore, che avesse il suo odore sulla mano, ma lui la tirò con forza e lei si ritrovò fuori dalla volante con metà del corpo, inciampò sul pietrisco, quindi si incamminò al fianco di Devlin che ancora le teneva la mano in quel posto vergognoso.

Avanzarono incespicando, la camicetta di Ruth incollata alla pelle e le caviglie doloranti nel punto in cui i laccetti delle scarpe le affondavano nella carne gonfia. Era rossa in faccia, lo sentiva: in parte per il caldo e in parte per l’umiliazione che quella passeggiata – che quell’uomo – le stava infliggendo.

Una mosca le ronzò in faccia e lei la scacciò, poi un’altra e un’altra ancora. Agitava la mano, si sventolava, cercava disperatamente di mantenere un minimo di decenza. Tutte quelle mosche. Erano attratte dal suo odore, dalla sua gialla puzza di femmina? L’inguine, le ascelle, persino il sudore che le grondava, sporco, lungo il collo e la schiena. Che la insozzava.

Respirò dalla bocca, finché poi si accorse che non era lei l’origine di quel fetore, di quel sapore. Era un odore diverso, dolciastro. Quello della carne rimasta troppo a lungo sotto il sole.

Vide un nugolo scuro di mosche più avanti, udì il loro ronzio impaziente mentre gli insetti si accanivano per avvicinarsi alla fonte di quel fetore nauseante.

Devlin la trascinò con sé e lei incespicò sulla sua scia, ma stavolta non fu per il pietrisco o per i tacchi: lo respingeva, lottava contro di lui, si mordeva il labbro per trattenere le lacrime, determinata a non farsi vedere piangere a prescindere da cosa c’era sotto quella nuvola nera e brulicante.

Devlin la strattonò di nuovo e Ruth si oppose con tutte le sue forze perché l’odore era più intenso e non poteva più fingere di non sapere. La verità si leggeva sulle labbra tese dell’uomo, nella sua espressione inflessibile e persino nelle sue spalle quadrate. Lei si voltò, gemette, e tra i sussurri lo supplicò di fermarsi, e finalmente lui obbedì. Non mollò la presa, e lei non gli staccò gli occhi di dosso. Non voleva vedere nulla. Non poteva costringerla a farlo.

L’ispettore ci provò. Le gridò di guardare, e una goccia di saliva le atterrò sulla guancia, ma lei era ormai ben oltre il disgusto. Allora Devlin l’afferrò per le spalle e la fece voltare. Lei distolse la testa, ma lui l’agguantò per il mento e la spinse, e alla fine Ruth fu costretta a guardare.

C’era sporco dappertutto. Sporco e rifiuti: lattine e bottiglie che scintillavano al sole, sacchi della spazzatura, alcuni aperti dai ratti, una bici senza una ruota. E al centro di quella discarica, morbido cotone rosa. Un disegno a fiorellini. Un barlume di una sostanza bianca screziata di viola come marmo marezzato. E una cascata di capelli biondi. Ruth protese una mano, ma prontamente Devlin la tirò indietro, impedendole di toccare. Lei aprì la bocca, ma le mosche, la calura, l’odore e l’improvvisa consapevolezza che quelli erano proprio i capelli che aveva lavato, spazzolato e pettinato per quattro anni fecero calare un sipario nero sul mondo. Devlin la sostenne, e il suo tocco fu quasi gentile. La rimise in piedi, poi la fece voltare e per un secondo Ruth gli fu riconoscente per quella tenerezza inaspettata.

Poi vide la gente dall’altra parte della strada. Vide le schiere di facce verso cui l’uomo l’aveva fatta voltare, le mani a schermare gli occhi, le bocche in movimento. Vide le macchine fotografiche, percepì la vampata della loro curiosità.

Ci fu un lampo e poi, come la goccia che precede il temporale, una pioggia di altri lampi.

E sullo sfondo, la stretta dolorosa al braccio, la voce dell’uomo all’orecchio, bassa e sibilante.

«È lei? È sua figlia?»

Ruth abbassò lo sguardo verso la creatura accasciata ai suoi piedi, e poi il mondo prese a vorticare a una velocità inaudita e lei piombò di nuovo nell’oscurità.