13

Ruth era distesa sul divano, accanto a lei una bottiglia di Scotch svuotata per un terzo. Aveva messo su un disco di Gene Pitney, a ripetizione. Non sopportava più il silenzio. Canticchiava sottovoce mentre versava il liquore, sollevava la testa e beveva, poi rabboccava di nuovo il bicchiere.

Beveva per ubriacarsi. Era quasi la fine di ottobre e i compleanni dei bambini erano passati. Aveva stabilito di fingere che il diciassette e il ventiquattro fossero date come le altre, e di riempirle di locali, bourbon e uomini, di non dedicare nemmeno un secondo a pensare a cosa rappresentavano. Poi sua madre le aveva telefonato e aveva insistito per osservare quelle date insieme. Aveva usato proprio quel verbo: osservare. Come se fossero ricorrenze religiose per la preghiera e la devozione.

Ruth aveva ceduto, ma non avrebbe passato un’altra settimana in quel modo. Sola con sua madre e il ticchettio dell’orologio. Le visite quotidiane in chiesa, i pasti stracotti che nessuno voleva mangiare, e il non detto pesante come piombo nel caldo torrido della stanza.

Mai più.

Squillò il telefono, Ruth tenne il bicchiere davanti a sé e allungò un braccio dietro la testa per afferrare la cornetta. Fece cadere tutto e rotolò giù dal divano, versandosi il liquore sulla camicia.

Dal pavimento provenne la voce distante di Frank. «Ruth? Ci sei, tesoro?»

Era buffo. Sembrava fosse lontano anni luce. Ruth cincischiò con la cornetta. Ma non appena udì distintamente la sua voce e ne avvertì il leggero nervosismo, comprese perché aveva telefonato e si ricompose in fretta.

Ci aveva già pensato, ovvio che ci aveva pensato. Non proprio da quel punto di vista – Frank non era niente di che a letto, ma era premuroso e... be’, lei si sentiva a suo agio con lui ed era già tanto – ma più per il resto. Cenare insieme tutte le sere prima che Frank andasse al lavoro o che uscisse a bere con gli amici. I sabato sera sul divano a fumare, a guardare la tv. O due posti al Trylon e un hotdog a testa, se era giorno di paga.

Un tempo il pensiero di quella routine, delle abitudini di Frank – il suo modo di ripiegare i pantaloni prima di impilare gli spiccioli in mucchi ordinati sul cassettone, il suo modo di farla girare nel letto e di dirle in un sussurro quasi impercettibile: “Ciao, amore” – tutto questo l’aveva pian piano spinta con le spalle al muro fino a farla sentire in trappola.

Ora, però, da quando i bambini erano scomparsi, le cose erano diverse. Tutto era cambiato. Compresa lei. Forse un po’ di routine, un po’ di tenerezza, era quello di cui aveva bisogno.

Perciò quando Frank la invitò a cena la sera dopo, lei rispose di sì. E quando a fine serata lui accostò davanti all’appartamento e la guardò, il viso in controluce al bagliore ambrato del lampione, Ruth sentì scorrere tra di loro l’ardore stuporoso del vino e del brandy che avevano bevuto a cena, gli accarezzò la guancia e gli propose di entrare. Si piegò persino a indossare i panni della moglie pudica, il tipo di donna che Frank evidentemente desiderava: sedette a gambe incrociate, la schiena dritta, gli occhi ben aperti anziché sornioni, un dolce sorriso al posto del broncio seducente.

Conosceva Frank: era ancora sua moglie in ogni senso possibile. Sarebbe sempre stata sua moglie e non aveva bisogno di invitarlo.

E così lo guardò negli occhi per un secondo più del necessario, e lui si fece avanti. E Ruth percepì la consistenza familiare della sua bocca, l’odore di sigaretta e del sapone che usava, sentì la forza conosciuta delle sue braccia intorno a sé, e provò una sensazione che somigliava al sollievo quando la prese in braccio e la portò in camera da letto.

Fu gentile come lo era sempre stato, e lei lo strinse a sé ed emise i gemiti rauchi che tanto gli piacevano, e dopo si addormentarono.

Quando l’indomani mattina Frank se ne fu andato, lei rimase a letto a sonnecchiare ancora un po’ e poi andò a stendersi sul divano. Era quello che lui voleva. Quello che voleva sua madre. Quello che avrebbero voluto Cindy e Frankie: mamma e papà di nuovo insieme. Cercò di pensare a quello che voleva lei, ma le salivano le lacrime agli occhi e sentiva l’inizio di un mal di testa, perciò si accese un’altra sigaretta, si procurò una rivista e smise di pensare.

Più tardi, mentre il cielo imbruniva al calare della sera, sentì le grida dei bambini in strada. Stappò una bottiglia e bevve quattro bicchieri in rapida successione fino a non fare più caso ai rumori da fuori, poi accese la radio. Altri due bicchieri, alzò il volume e si mise a ballare.

Rovesciava la testa e guardava il suo riflesso alla finestra ormai buia: le spalle magre, le braccia bianche, le dita lunghe come alghe di fiume, i capelli un vento impetuoso rosso dorato. Piroettò, si distese, dimenò i fianchi e ignorò i colpi alla porta, il telefono che squillava. Bevve ancora e ballò finché il mondo non divenne un caleidoscopio di colori che danzavano con lei. I colori, la luce e il nastro stretto di cielo sopra gli edifici bui vorticarono finché Ruth non si accasciò, esausta, contro lo schienale del divano e scoppiò a ridere, le gambe in aria, mentre il ritmo continuava a riverberarsi nel suo corpo.

E fu mentre era lì distesa, la testa girata per guardare il sole che tramontava dietro i tetti dall’altra parte della strada e le prime stelle che facevano capolino, che notò le luci, le auto e le ombre all’esterno. E mentre guardava, arrivò un’altra auto, lunga, lustra e scintillante. Lo sportello si aprì e scese Devlin, il profilo illuminato da un lampione.

E Ruth rimase lì distesa, ansimante, la gonna intorno ai fianchi e i capelli sulla faccia. Lì era senza dubbio invisibile, in quell’oscurità segreta, ma le parve che i loro occhi si incrociassero attraverso quello spazio crepuscolare. Per un istante fu come fossero vicini, come due amanti.

Pete pensò per giorni alla sua conversazione con Gina. Poi un mattino si svegliò all’alba e capì cosa doveva fare. Si spruzzò dell’acqua in faccia, evitando di guardarsi allo specchio. Aveva imparato che, se non si guardava dentro, la paura non poteva insinuarsi in lui. Se non guardava, non poteva vedere le cose che lo spaventavano di più: che New York non era casa sua, che non era bravo abbastanza, che un giorno avrebbe dovuto ammettere la sconfitta e tornarsene in Iowa con la coda tra le gambe, trovarsi un lavoretto per il quotidiano locale e ogni giorno fingere davanti a sua madre di essere felice di essere tornato a casa.

Normalmente, quando la paura minacciava di sopraffarlo, afferrava la giacca, correva giù per le scale, si chiudeva il portone alle spalle e camminava a passo sostenuto verso la luce del mattino. E quando raggiungeva la tavola calda all’angolo di 2nd Avenue e ordinava i soliti pancake con sciroppo d’acero, quella sensazione regrediva e lasciava il posto allo stupore. Di trovarsi lì. Del fatto che New York fosse davvero la metropoli che aveva visto al cinema e nelle pubblicità: taxi gialli guidati da italiani arrabbiati che cambiavano corsia senza mettere la freccia, vecchi dai capelli bianchi che bevevano da buste marroni agli angoli delle strade. L’Empire State Building illuminato di notte come un angelo del firmamento e le insegne dei locali disseminate ai suoi piedi come lustrini.

Ma quel giorno ebbe l’impressione che i pancake e lo skyline non fossero sufficienti. Mentre si portava il rasoio al viso, si accorse che gli tremavano le mani. Posò il rasoio e riprese fiato, si costrinse a guardarsi allo specchio. Era la cosa giusta da fare. Moralmente giusta.

Finì di radersi, si vestì e guidò fino all’ufficio, e per tutto il tempo fu in preda alla paura.

Ma il sapore della certezza, tagliente come ferro in bocca, lo guidò fino alla scrivania. Si sedette e iniziò a battere sulla macchina.

...La signora Malone era visibilmente sconvolta quando le ho fatto visita. Ha dichiarato più volte di non avere idea di chi volesse fare del male a lei o ai suoi figli. Come ha sostenuto fin dall’inizio, ha messo a letto i bambini alla solita ora, li ha controllati a mezzanotte e ha scoperto che erano scomparsi al mattino. Non ha sentito nessun rumore insolito. Sente terribilmente la loro mancanza, come farebbe qualsiasi madre. L’appartamento è di una pulizia impeccabile ma stranamente silenzioso, e la signora ha difficoltà a dormire. Ha paura che la persona che li ha rapiti sia ancora là fuori, e che altri bambini possano essere in pericolo.

Quando ebbe finito, estrasse i fogli dalla macchina, li rilesse velocemente e li portò nell’ufficio di Friedmann. Il capo era al telefono e alzò un dito per fargli segno di aspettare, ma Pete posò il pezzo sulla scrivania e scese all’alimentari. Ordinò un ice-cream soda e si sedette al bancone a guardare la cameriera che versava la Coca-Cola e il gelato nel bicchiere, rendendosi conto di non essere così tranquillo da mesi. Qualunque cosa fosse successa, poteva ancora guardarsi allo specchio.

L’indomani mattina Pete si presentò in sala stampa alle sette in punto. Raccolse i bollettini arrivati nottetempo dalla vaschetta e iniziò a passarli al vaglio. Poi, con la coda dell’occhio, vide arrivare Friedmann. Non l’aveva mai visto in ufficio a quell’ora.

Friedmann lo squadrò e gli rivolse un brusco cenno della testa.

Pete si sistemò la cravatta e si alzò. Prese fiato ed entrò nell’ufficio del direttore, a testa alta.

Il suo articolo era sulla scrivania, interamente barrato da un frego rosso. Friedmann lo indicò.

«Che cazzo è? Ti avevo detto di lasciar perdere.»

Si sfilò gli occhiali e si massaggiò la radice del naso.

Quando riprese a parlare, sembrava quasi triste. «Cosa ti è preso, Wonicke? Avevi ambizione da vendere. E la stoffa per diventare un buon giornalista. E ora te ne esci con questa merda!»

Si lasciò cadere sulla sedia. «La donna è sospettata dell’omicidio dei suoi figli. E l’unica cosa che ti viene in mente di scrivere è che è triste?»

«Non credo sia stata lei.»

«E dove sono le prove?»

«È... complicato.»

«Lo è sempre. Il tuo lavoro è... era... semplificare le cose per i lettori.»

«Mi sta licenziando, signor Friedmann?»

«Non ho altra scelta. Te la sei cercata.»

Guardò Pete dritto negli occhi. «Nient’altro da dire?»

Pete sostenne il suo sguardo. «Ho fatto la cosa giusta. Solo questo, signor Friedmann.»

Si voltò per andarsene. Prese la giacca e uscì dall’ufficio proprio mentre il turno di lavoro stava iniziando.

L’indomani mattina Pete sedeva in una tavola calda davanti a un piatto di pancake e un bicchiere di latte, le pagine degli annunci di lavoro aperte sotto i suoi occhi. Non aveva idea di che pesci pigliare. Fare il giornalista a New York era la sua più grande aspirazione.

Eppure, mentre cerchiava gli annunci per commesso e impiegato, continuava a pensare a Ruth Malone. Era come se avesse abbandonato un libro a metà, e voleva conoscere il finale a ogni costo.

Chiese l’elenco telefonico alla cameriera e si fece dare qualche spicciolo, poi cercò gli uomini di cui gli aveva parlato Gina, e fece qualche telefonata. Nessuno dei due accettò di parlargli: Johnny Salcito gli riagganciò in faccia, e non riuscì a superare la barriera della segretaria di Lou Gallagher.

Decise di provare con una tattica diversa. Rimase ad aspettare in macchina davanti alla centrale di polizia finché non individuò l’uomo che Gina aveva identificato come Salcito. Pete lo seguì per nove o dieci isolati, fino a una bettola fatiscente dove non c’erano altri agenti. Prese posto in un angolo del locale e lo osservò bere.

Salcito beveva solo ed esclusivamente per ubriacarsi: non guardava mai la televisione, non sollevava mai la testa quando qualcuno faceva una battuta o alzava la voce. Beveva Blended Scotch, lo tracannava senza interruzioni, senza ghiaccio né soda o apparente soddisfazione. Fissava il bancone o i sottobicchieri con aria annoiata; di quando in quando gettava un occhio verso un quotidiano che qualcuno aveva dimenticato lì. Si allentò la cravatta, si passò un dito nel colletto e si tamponò la fronte con un fazzoletto sudicio. Poi spinse il bicchiere in avanti di qualche centimetro in attesa che il barista lo rabboccasse.

Pete notò le vene violacee sul suo naso, i polsini lisi. Vide la sua mano tremare e pensò a quello che aveva detto Gina, che quell’uomo doveva dei soldi alla gente sbagliata.

Per due sere di fila Pete osservò Salcito entrare nella bettola subito dopo il turno di lavoro e andarsene intorno alle undici. La terza sera Pete tenne d’occhio l’orologio, pagò il conto e uscì nel parcheggio prima di lui. Vide Salcito incespicare verso la sua auto, il suo respiro formava nuvolette di vapore bianco nell’aria notturna. Lo vide cincischiare con le chiavi e farle cadere sull’asfalto ghiacciato, chinarsi e rialzarsi lentamente e con grande fatica, metterci un po’ a ritrovare l’equilibrio.

Alla fine imboccarono la superstrada, ogni tanto Salcito sbandava verso la linea bianca. Pete ripensò al racconto di Frank, che era andato fino a Huntington per trovare Salcito. Sembrava fossero diretti proprio in quella direzione.

Dapprima Pete cercò di tenersi a due o tre macchine di distanza da lui, ma l’oscurità rendeva difficoltoso l’inseguimento e pensò che Salcito fosse troppo ubriaco per notarlo. Perciò gli rimase incollato e prese l’uscita dietro a lui, infine serpeggiò per le buie strade di periferia standogli sempre alle calcagna.

C’era qualcosa di stranamente intimo in quel pedinamento, e per un po’ Pete fu tormentato da quella sensazione; il silenzio delle strade deserte, l’aspetto familiare dei giardini coperti di brina, delle staccionate illuminate dalla luna, delle finestre buie. Era l’atmosfera notturna di qualsiasi piccola città americana. Sembrava un ritorno a casa, e Pete e Johnny Salcito erano gli unici due esseri umani ad assistere a quello spettacolo.

Pete fermò l’auto al centro di un incrocio deserto e vide Salcito parcheggiare in un vialetto più avanti. Guidava con una mano sul volante e gli occhi puntati sulla strada; un uomo comune che tornava a casa dalla moglie e i figli dopo il turno di lavoro. Pete lesse il numero sulla cassetta della posta e notò la forma dell’albero in fondo al vialetto, il nome della via all’angolo.

Buonanotte, amico. Sogni d’oro.

Si fermò all’incrocio successivo e si appuntò tutti i dettagli; le sue dita smaniavano per descrivere l’andatura pesante di Salcito, la sua espressione sperduta. Ma si impose di non farlo perché non sarebbe servito a niente. Non era professionale. Dal momento che, a dirla tutta, non voleva umanizzare quel tipo. Non era il personaggio di una storia: era un potenziale testimone, un potenziale complice, un potenziale assassino.

Perciò solo i fatti. L’indirizzo. L’albero. L’inclinazione della cassetta della posta. Il cartello dell’agenzia immobiliare nel prato della casa accanto.

E l’indomani mattina Pete tornò nel quartiere mentre Salcito era al lavoro e portò con sé i fatti per identificare la casa. Ma quando raggiunse la strada, capì che l’avrebbe riconosciuta comunque. Il giardino pieno di erbacce, la cassetta della posta rotta, le finestre inzaccherate e i paletti spaccati della staccionata: tutto questo rivelava il genere d’uomo che vi abitava, e il nome della strada sarebbe stato sufficiente.

Pete pensò di nuovo alle parole di Frank sul fatto che Huntington fosse il posto ideale dove crescere dei bambini. Chiamò l’agenzia immobiliare sul cartello e scoprì che le case in quella via erano spaziose. Dotate di quattro o cinque camere, erano state costruite per famiglie numerose. Ma se nei giardini delle altre abitazioni c’erano biciclette, altalene appese agli alberi e canestri per giocare a basket sopra il bandone del garage, la casa di Salcito era vuota. Gina aveva detto che era sposato, ma Pete era sicuro che entrando avrebbe trovato il guardaroba semivuoto, la moquette segnata dalle impronte di mobili scomparsi e, alle pareti, scacchiere di quadri che non c’erano più.

Quella sera Pete andò a sedersi sullo sgabello accanto a quello di Salcito, ordinò una birra e si voltò verso di lui.

«Salve.»

Di nuovo: «Salve».

Salcito alzò la testa. I suoi occhi incrociarono quelli di Pete nello specchio appeso dietro il bancone. Sembrava esausto. Sconfitto.

«Dici a me?»

«E a chi, se no?»

«Che... che cazzo vuoi?»

«Parlare.»

Salcito lo guardò con aria torva, scosse la testa. Alzò il bicchiere.

«Non ti conosco.»

«Lei è Salcito, giusto?»

L’uomo abbassò il bicchiere lentamente. Piantò le mani sul bordo del bancone. Si volse verso Pete.

«Chi vuole saperlo?»

«Mi chiamo Wonicke.»

«Te l’ho detto, non ti conosco.»

Silenzio.

«Chi ti manda?»

«Nessuno.»

«Chi è stato? Johanssen? Chi?»

«Non mi manda nessuno.»

«Lasciami in pace.»

Pete osservò i suoi occhi iniettati di sangue, i pugni chiusi. Deglutì. «Signor Salcito, sono un giornalista.»

L’uomo parve rilassarsi. Aprì le mani.

«E quindi? Io non interesso a nessuno.»

«Mi sto occupando del caso Malone. Vorrei parlare di Ruth.»

«Ah, sì? Come tutti gli altri, figliolo. Ma io non parlo con i giornalisti.»

Si girò dall’altra parte e prese in mano il bicchiere.

«Senta, so che lei è un poliziotto. E so che ha avuto una relazione con la signora Malone.»

Stavolta Salcito fu veloce. Abbatté il bicchiere sul bancone e avvicinò il viso a quello di Pete.

«Che fai? Minacci?»

Pete alzò le mani, scese dallo sgabello, indietreggiò. «No. Ci mancherebbe altro. Le sembro forse una minaccia?»

Salcito scosse la testa, borbottò qualcosa. Poi tornò a sedersi e prese il bicchiere.

Pete tirò un sospiro di sollievo. Disse: «Signor Salcito, forse vuole parlare con qualcuno. Far sentire la sua versione».

Nessuna reazione.

«Va bene. E se le dicessi quello che so, e lei mi correggesse se sbaglio?»

Una pausa di silenzio, poi Salcito parlò sommessamente: «Non qui».

Pete lo guardò, in attesa.

«Non voglio che si sappiano i fatti miei. Conosci il Ricky’s, in 57th Street?»

«Certo.» L’avrebbe trovato.

«Ci vediamo lì tra un’ora. C’è una saletta sul retro... il proprietario mi conosce. Digli che devi vederti con Sal.»

Quando Pete arrivò, Salcito era già lì, seduto a un tavolo traballante con una bottiglia e due bicchieri.

Invitò Pete ad accomodarsi. Si accigliò mentre il ragazzo spostava i bicchieri per fare spazio al registratore e al taccuino.

«Non mi fai compagnia?»

«Devo lavorare.»

Salcito aprì la bocca, fece spallucce.

«Okay. Be’, cominciamo dall’inizio. So che ha avuto una relazione con Ruth per diversi mesi, forse anche di più.»

«Rusty. La chiamavamo Rusty, per via del colore ruggine dei suoi capelli.»

«Suppongo vi siate conosciuti sul lavoro.»

Salcito rise.

«Che c’è da ridere?»

«Hai ragione, e hai torto. Ma soprattutto torto.» Sospirò. «Ho ricevuto una chiamata. Due anni fa, forse meno. Un tipo che conosco era in un locale una sera, con delle ragazze. Io facevo il turno di notte. Ha chiamato in centrale verso le undici, mi ha chiesto di unirmi a lui.»

Aveva gli occhi puntati sul tavolo, la mente altrove.

«Ero nella sala operativa quando è arrivata la chiamata. Scartoffie e caffè. È di questo che mi occupo. Scartoffie e caffè. Una merda.»

Iniziava a farfugliare.

«Insomma, squilla il telefono ed era Meyer. Aveva lasciato l’arma nell’inverno del ’62, quando era morto suo padre e... be’, immagino che questa parte della storia non ti interessi. Ma ogni tanto usciva con noi, frequentava i nostri locali.»

Tacque.

Pete gli chiese: «E quella sera le ha telefonato?».

Salcito annuì.

«Ho pensato che non avesse chiamato me. Che avesse telefonato per sentire chi c’era. Cercava compagnia per andare a bere qualcosa una volta finito il turno. Non gli importava chi fosse, voleva solo mostrarci che tipo di ragazze poteva permettersi. Meyer, be’, lui aveva ereditato un discreto gruzzolo alla morte di suo padre. Era cambiato. Gli piaceva ostentare. Mostrare a tutti che poteva comprarsi il meglio. Aveva chiamato per cercare compagnia... non me in particolare. Non me. Cazzo, se non fossi...»

Mandò giù un lungo sorso di Scotch.

«Alla fine sono andato.»

Tacque, si strinse nelle spalle. Bevve un altro sorso.

«Era ubriaco. Mi ha detto che c’era una festa al McGuire’s. Voleva che andassi con lui. Gli ho detto che stavo lavorando... era così ubriaco che non sapeva nemmeno chi avesse chiamato. Gli ho detto che mi aveva telefonato al lavoro. Allora lui mi ha chiesto di raggiungerlo alla fine del turno. Non ammetteva rifiuti.

«Quando sono arrivato, Meyer era su uno dei divanetti tondi accanto all’ingresso. Aveva una ragazza a ciascun lato e, quando mi ha visto, le ha abbracciate entrambe. Mi ha fatto l’occhiolino e si è appoggiato allo schienale. Nel secchiello del ghiaccio c’era una bottiglia di champagne, altre due bottiglie vuote sul tavolo e dieci dollari di mancia accanto alle chiavi della sua Cadillac. Sembrava le avesse lasciate lì senza farci caso.

«Si vestiva sempre bene, Meyer. Abiti eleganti, cravatte alla moda, camicie inamidate. Ricordo però di aver pensato che quella sera fosse un po’ sciupato. Aveva il vestito spiegazzato e la camicia tesa sulla pancia, come se avesse messo su peso.

«Mi ha stretto la mano e mi ha presentato la biondina seduta accanto a lui. Donna. O Dana, non ricordo. Era l’altra ragazza, l’amica di Donna. Era lei che mi interessava.

«Era diversa dalle altre. Sul serio, tutta un’altra cosa. Meyer e la bionda si avvinghiavano, lei strillava e sghignazzava, e lui le infilava la mano sotto la gonna. Rusty invece... era diversa. Misteriosa. Quella sera abbiamo solo parlato. Parlato e bevuto lo champagne di Meyer, e ballato.»

Svuotò di nuovo il bicchiere.

«Rusty... non ballava come le altre... lei si muoveva sinuosa con le mani, le spalle e i fianchi. Era flessuosa come un nastro bianco nell’oscurità.»

Tacque di nuovo e Pete non trovò niente da dire. Alla fine Salcito sospirò e disse: «È successo quella prima sera. Ero... non lo so, mi aveva stregato».

Scoppiò a ridere. «Cazzo, ma che sto dicendo? Ovviamente volevo scoparla, ma... volevo anche vederla muovere. Vederla ridere. Mi ci sono voluti quattro giorni per trovare il coraggio di telefonarle. Pensavo non si ricordasse di me.

«Invece sì. Sembrava felice che l’avessi chiamata. L’ho portata a cena... in un posto carino. Di lusso.»

Versò il liquore e bevve. I suoi occhi e la sua immaginazione erano da un’altra parte.

«Abbiamo flirtato. Lei si protendeva in avanti, mi sfiorava il braccio mentre parlavo. Ricordo... il suo profumo. Portava le calze e sentivo il fruscio della seta quando si muoveva. Quel rumore leggero mi faceva impazzire. E lei lo sapeva.»

Pete immaginò il profumo della pelle di Ruth. Quel fruscio lieve quando accavallava le gambe. La curva graziosa dei suoi minuscoli piedi.

«Siamo andati a casa sua a bere qualcosa, e sono stato... be’, sono stato rispettoso con lei. Ci sono andato piano. Ero già stato con donne sposate e pensavo che... anche se flirtava con me, pensavo fosse un po’ timida. Che non facesse sul serio.»

Scosse la testa. «Ma mi sbagliavo. Era incredibile, come mi provocava. Come si muoveva, le parole che usava. Era come un animale. E la differenza tra il suo modo di fare in pubblico, sobrio e controllato, e il suo modo di essere a letto... era una donna completamente diversa. Incredibile.»

La bottiglia era già vuota per due terzi.

«Ma c’erano delle cose che mi lasciavano perplesso.»

Pete tacque.

«Voleva scopare solo al buio. Anche quando ormai stavamo insieme da un po’. Non voleva che la vedessi. Appena avevamo finito, sgattaiolava in bagno prima che potessi accendere la luce. Usciva vestita di tutto punto, il trucco perfetto, e versava da bere a entrambi.

«E quando andavamo fuori a cena o a ballare, e facevamo una passeggiata per strada, potevo prenderla per mano, ma non baciarla fuori di casa. Ballava con me, mi stuzzicava, mi toccava... ma non mi ha mai baciato in pubblico. Non ho mai capito perché.»

Si versò da bere. Aveva gli occhi lucidi.

«Sono tante le cose di lei che non capirò mai.»

Pete si sporse in avanti.

«E i bambini?»

Salcito alzò lo sguardo.

«Crede che sia stata lei? Che li abbia uccisi lei?» Pete trattenne il fiato in attesa della risposta.

Salcito scosse la testa. «Non lo so. Non ne parlava mai. I suoi figli non erano... li ho visti solo un paio di volte... passavo a prenderla e loro erano lì. Poteva capitare che leggessi loro una storia mentre aspettavo che Rusty finisse di prepararsi. A volte brontolava perché avevano versato qualcosa o perché non andavano subito a letto. Ma erano cose normali.»

Scosse di nuovo la testa. «Cazzo, non lo so. Come ho detto, c’erano cose di lei che non ho mai capito.»

«L’ha chiamata quella notte, vero? La notte in cui sono scomparsi i bambini. L’ha chiamata verso mezzanotte, e poi di nuovo alle due? Giusto?»

Salcito fece una mezza risata, scosse la testa. «Cristo, ero ubriaco quella notte. Pensavo che Ruth volesse scaricarmi e ho preso la sbronza peggiore della mia vita.»

«Ma l’ha chiamata? Ha detto ai poliziotti di averla chiamata, di averle parlato solo la prima volta, e che la seconda non ha risposto nessuno.»

Scosse la testa ancora una volta. «Quella notte avrei potuto parlare con il papa e san Francesco e non me lo ricorderei. Chi cazzo sa cos’ho fatto?»

Pete si abbandonò allo schienale della sedia. Quindi Ruth poteva essere a casa quella notte. Non potevano dimostrare che non lo fosse.

Inoltre Johnny Salcito non aveva un alibi. Esattamente come Ruth, non poteva dimostrare cosa stesse facendo alle due di notte.

Pete attese un momento, poi gli chiese: «Ne ha parlato con Devlin? Di come l’ha incontrata, da quanto tempo la conosce?».

Salcito gli rivolse i suoi occhi iniettati di sangue. Poi scoppiò a ridere.

«Se ho parlato con Devlin? Questa è buffa.»

Si versò da bere. Tracannò un sorso.

«Il giorno in cui sono scomparsi i bambini... quel giorno maledetto... sono andato da lui. Gli ho detto che la conoscevo. Che la conoscevo bene.»

Un altro sorso.

«Sai cos’ha fatto? Mi ha portato nello spogliatoio, ha estratto un paio di lettere che le avevo scritto. Immagino le avessero trovate nel suo appartamento. All’inizio ero incazzato. Sai, il fatto che le avessero lette mi metteva in imbarazzo. Erano uno scambio privato tra me e lei. Ma poi ha strappato la pagina della rubrica di Ruth dove c’era il mio indirizzo. Me l’ha mostrata. Poi l’ha fatta a pezzettini e li ha gettati nel cesso come coriandoli. E mi ha detto: “Ecco fatto. Dimenticala”.»

Tossì. Bevve di nuovo.

«Mi sono offerto di parlargli, di raccontargli tutto di lei. Non ha voluto sapere niente. Ha scritto che l’avevo chiamata. Mi ha chiesto se l’avessi chiamata di nuovo, più tardi, e io ho risposto di sì. Ho detto che non avevo idea di cosa avessi fatto dopo. Perciò ha scritto che avevo telefonato a Ruth più tardi quella sera, che la seconda volta nessuno aveva risposto. Tutto qua. Non voleva sapere altro, e la settimana dopo sono stato messo a dirigere il traffico. Mi ha detto che se mi facevo scappare un’altra parola su di lei non avrei più avuto nemmeno quel lavoro.

«Non ha voluto sapere niente. Io volevo raccontarlo a qualcuno. Dovevo dire a qualcuno di lei. Com’era realmente. Ma lui non ha voluto saperlo.»

Era mezzanotte nel Queens e Ruth non riusciva a dormire nonostante il bourbon che si era scolata. Frank era tornato a casa da due settimane e lei non sopportava il rumore del suo respiro regolare. Il suo russare, di tanto in tanto. Il russare di Bill Lombardo al di là del muro. Il cigolare del letto di Gina quando si muoveva nel sonno.

Sentiva la tensione nelle palpebre quando cercava di tenere gli occhi chiusi. Non sopportava l’esistenza di quelle persone. Non sopportava che riuscissero a dormire. Non sopportava il peso del loro sereno sognare.

Serrò i denti e scese dal letto. Indossò il cappotto e gli stivali. Attraversò il corridoio a tentoni. Trattenne il fiato. Si tenne aggrappata all’idea di fuggire.

Poi aprì la porta principale e una luce argentea la investì. Il gelo, la neve alta e incontaminata.

Andò incontro a quella notte novembrina e si riempì i polmoni dell’aria gelida e pura, poi soffiò lentamente una nuvola di vapore, rimirando il paesaggio immobile.

Si fermò sul prato innevato di fronte al palazzo e la quiete si insinuò sotto i suoi abiti, penetrò nella sua pelle fino a inebriarla. Voleva correre, saltare e ballare su quel biancore fino a coprirsi dello scintillio argenteo del freddo e del silenzio.

Girò su se stessa, le braccia aperte, le braccia sostenute dalle correnti d’aria rarefatta e pulita. E quando ebbe un capogiro si lasciò cadere e giacque su una coltre spessa di neve. Aveva il respiro accelerato e il sangue che le rombava nelle vene.

Poi aprì gli occhi e guardò su verso le file di mattoni, le teorie di finestre come orbite vuote. Le decine di giudizi chiusi dietro quelle mura.

Da mesi, intrappolata in casa dalla folla, dai giornalisti e dal peso di quegli sguardi, si affacciava da quelle finestre e immaginava il momento in cui avrebbe potuto sedersi là fuori come chiunque altro. Sola e inosservata. Lo desiderava tanto da sentire quasi l’erba ingiallita graffiarle le braccia e le gambe.

Pensava alle lunghe sere dorate all’aperto in compagnia di Frank o Gina, alle conversazioni pigre sulle panchine malmesse, una bottiglia di birra in mano. Ai pomeriggi in ginocchio su una coperta sbiadita con Frankie e Cindy che costruivano un’isola o una città con la terra. E ora, sebbene sola e in silenzio, continuava a sentirsi spiata. Rimase lì sdraiata, avvolta dalla lana calda e umida, i capelli sudati sotto il vecchio berretto da caccia di Frank, distesa sotto la luna anziché il sole, sotto le tenebre stellate anziché un cielo terso.

Divaricò le braccia e le gambe, la neve che si posava sulla sua pelle arrossata. Aprì la bocca per farvi cadere i fiocchi bianchi, e li assaggiò uno a uno mentre si scioglievano in un bacio freddo.

Trattenne il fiato e sentì lo stomaco torcersi, soffiò e guardò scendere la curva nascosta dei seni. Alzò lo sguardo e vide il lucore piatto e argenteo di ciascuna finestra, e sentì i loro sguardi su di sé. Sapeva che lì tutti vedevano tutto e che niente passava inosservato.

Ma chiuse gli occhi e li ignorò mentre la notte dilagava intorno e dentro di lei che, distesa in un solco a forma di angelo, inspirava la fine aria nera. E pensò che, se qualcuno le avesse chiesto cosa ci faceva là fuori, avrebbe risposto: respiro.

Pete trovò lavoro in una libreria nel Greenwich Village. La paga era ridicola, ma sarebbe bastata a tenerlo a galla almeno per un po’.

Al colloquio disse che poteva lavorare solo part time. Quando gli chiesero perché, lui rispose che aveva degli impegni familiari. Un parente ammalato. Forse lo avevano assunto solo per compassione. Ma non gli importava.

Durante i primi due giorni di lavoro, non riuscì a togliersi dalla testa l’intervista a Johnny Salcito. Lo scatto di rabbia iniziale. La tristezza mentre parlava di Ruth.

Chiamò Gina, la invitò a bere qualcosa, le raccontò cos’era successo. Lei bevve due brandy, ne ordinò un terzo. Ascoltò, fumò, si strinse nelle spalle.

«Perché sei così sconvolto? Non crederai che sia stato Johnny? Dimmi di no. Quel povero idiota. Perché avrebbe dovuto fare del male ai bambini?»

Pete sospirò. «Nessuno ne aveva il motivo.»

A quel punto Gina distolse lo sguardo. «Be’, è vero. Ma certe persone ne avevano più di altre.»

«Tipo chi?»

Gina lo guardò negli occhi e inclinò la testa. «Non ricordi cosa ti ho raccontato?»

«Riguardo a Ruth?»

«Riguardo a Ruth e Lou.»

«Credi che Lou Gallagher abbia a che vedere con quello che è successo? Ai bambini?»

Lei lo fissò a lungo. Poi distolse lo sguardo.

«Mi hai raccontato che ha pestato un uomo in un locale perché era geloso di Ruth. C’è una bella differenza tra riempire di botte un uomo e uccidere due bambini.»

«Quell’uomo non poteva reagire. Era indifeso come un bambino. E tu non c’eri. Non hai visto Lou. Era... era come posseduto. Brutale. Assetato di sangue.»

«Tu pensi sia stato lui, vero?»

Gina annuì lentamente.

«Ne hai parlato con Ruth?»

«Oddio, no! L’hai visto, in che stato è. Immagina come la prenderebbe se le dicessi che secondo me il suo fidanzato ha ucciso i bambini. Ne sarebbe devastata.»

Gina tirò dalla sigaretta.

«E glielo direbbe. Non mi faccio illusioni... glielo direbbe subito. Vorrebbe che si mettesse a ridere e la rassicurasse, che le dicesse che sono tutte cazzate. Oppure vorrebbe avvisarlo. Non ci crederebbe mai, ma avrebbe paura della polizia.»

«Ci hai riflettuto a fondo, a quanto pare.»

«Sì.»

«Cosa credi che farebbe Lou, se Ruth lo avvisasse?»

Scosse la testa. «Non lo so.»

Pete aspettò in silenzio. Notò l’irrequietezza negli occhi di Gina. Il modo in cui continuava a inumidirsi le labbra.

«Hai paura di lui.»

Lei annuì di nuovo. «Sarei sciocca a non averne.»

«Perché lo stai dicendo a me?»

«Hai detto che la polizia aveva bisogno di un altro indiziato.»

«Sì. Ma pensavo che tu avessi sospetti su Salcito.»

«Oddio, no. Non è stato Johnny. È un ubriacone, ed è anche un po’ svitato, ma adora Ruth.»

«Quindi vuoi che indichi Lou alla polizia? Perché non vai tu a parlare con Devlin? E non gli dici di cosa hai paura?»

«Credi che non ci abbia provato? Camminerei a piedi nudi da qui al New Jersey se bastasse a incriminare l’uomo che ha ammazzato Frankie e Cin. Sono stata alla centrale due giorni dopo che Cin... dopo la scomparsa dei bambini. Devlin non ha voluto ascoltarmi.»

«E cosa ha detto?»

«Mi ha detto che avevo visto troppi film. Mi ha detto di tornare da Ruth e di dirle di mandare qualcuno di più... attendibile la prossima volta che voleva indicare un sospettato alla polizia. Mi ha detto che non ero così idiota da fare il lavoro sporco per conto di Ruth. Ho provato a spiegarglielo e lui mi ha detto di andarmene o mi avrebbe fatto arrestare per intralcio alla giustizia.»

Gina tracannò il resto del liquore.

«Tu sei una persona attendibile, Pete.»