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Ogni volta che rivive gli eventi del primo giorno, quello che non cambia mai è la lentezza con cui quei momenti scorrono nella sua mente. Ci furono ore d’attesa: al mattino, a casa, prima di Cindy. E in seguito, alla centrale di polizia, in stanze anonime con sedie di plastica dove venne lasciata da sola con il suo dolore e l’orrore di tutto quello che le era capitato. Nessuno che rispondesse alle sue peggiori paure per Frankie. E poi ore di interrogatori, e nessuno che le dicesse nulla, che la rassicurasse. Continuavano a farle sempre le solite domande.
Devlin e un altro agente facevano a turno. Lei rispondeva meccanicamente. A cosa potevano servire quelle domande se niente ormai aveva più importanza?
Alla fine la lasciarono andare. Frank era nell’atrio, passeggiava su e giù, la mano tra i capelli, e la aspettava.
«Ruthie... oddio, Ruth.»
Lei non riusciva a guardare il suo dolce viso disperato, perciò si abbandonò tra le sue braccia e sprofondò contro il suo petto, esausta.
Erano le undici passate quando tornarono a casa. Frank voleva entrare, parlare delle domande che avevano fatto a entrambi e delle risposte date. Lei sospirò e gli disse che era stanca. Lui si accigliò, annuì e si schiarì la voce, quindi se ne andò.
La porta di casa si aprì prima che lei avesse il tempo di alzare la chiave; sua madre era già lì. Ruth la guardò, la faccia arcigna e rugosa, gli occhi vuoti, sentì il ricordo di anni di rancori e litigi salire dentro di lei come un’ondata di nausea.
Ruth richiuse la porta con delicatezza e senza fare rumore, poi appoggiò la testa contro il pannello e lasciò cadere le spalle, chiuse gli occhi. Finalmente riuscì a piangere. Rammenta ancora il dolce sollievo di potersi sfogare davanti a una donna che per tutta la vita aveva visto i suoi lati peggiori. Fu come acqua fresca dopo una giornata torrida.
Aprì la bocca e, singhiozzando, le lacrime le scesero lungo le guance, e i singulti divennero lamenti. Guaì come un cane fino ad avere la gola in fiamme e un filo di saliva le colò dalla bocca. Lo asciugò con rabbia e pensò all’aspetto che doveva avere: la faccia imbrattata, a chiazze, gonfia. Bavosa. Per qualche secondo non se ne curò.
Sua madre la strinse a sé per la prima volta da quando era bambina, le accarezzò la schiena e la coccolò come non faceva da vent’anni. E Ruth fece scivolare le braccia intorno a quel corpicino magro e ricurvo.
La donna l’accompagnò fino al divano. «Sssh, Ruthie, sssh. Andrà tutto bene. È il volere di Dio, solo questo. Cindy ora è con Gesù. Sssh, Ruthie. Sssh.»
I suoni che produceva sua madre erano vuoti, privi di significato, ma chissà come Ruth comprese che emetterli era suo dovere, e glielo lasciò fare. Era l’unico modo per ricambiarla di un po’ di conforto. Non aveva altro.
Infine sua madre si ritrasse. Ruth alzò la mano per asciugarsi le lacrime e provare a dissipare un’emicrania incipiente. Sentì la pelle untuosa e calda della fronte e abbassò il braccio con un sospiro disgustato. Si asciugò distrattamente la mano sui pantaloni, fissò senza vederlo uno scarabocchio a matita sul muro, Minnie accoccolata in un angolo con un orecchio alzato.
E mentre si guardava intorno i suoi occhi si chiusero a poco a poco, il mento accostato al petto. Dormì rannicchiata come un uccellino, fluttuando sulla marea dei sogni, i piedi che si agitavano per toccare il fondale di un lago freddo e buio.
Si svegliò dopo quelli che le parvero pochi secondi al clangore delle stoviglie, udì lo sciabordio del mocio in cucina e, per un brevissimo istante di debolezza, si chiese perché sua madre stesse facendo le pulizie a quell’ora e come avesse fatto a non svegliare i bambini. La sua mente, che brancolava in cerca di chiarezza, fu investita dai ricordi.
I bambini.
Le sue creature.
Aprì gli occhi gonfi sull’orrore della stanza silenziosa.
Tremava, come per una febbre alta, la pelle in fiamme e il petto dolorante. Si alzò a sedere, si cinse la vita con le braccia cercando di non pensare al suo corpo perché avrebbe significato pensare ai bambini che aveva concepito, partorito, nutrito, consolato, curato, abbracciato, punito, accarezzato, coccolato e amato. Avrebbe significato pensare a dove poteva essere Frankie e a qualcos’altro che trascendeva il presente e lo sforzo di respirare, e non ne era capace.
Poi la porta si aprì e apparve sua madre, i dolci versi erano spariti. Tra di loro era tornata quella voce aspra e secca, il becco che insistente conficcava sale nelle ferite aperte che erano adesso la sua mente e la sua pelle sottile.
E mentre parlava, sua madre beccava e pungeva, volteggiava frullando le ali: i cuscini sprimacciati e ordinati, le riviste allineate con il bordo del tavolo, le scarpe perfettamente appaiate. Due a due, rosa per la piccola e blu per il grande. Quindi ruotò su se stessa, gli occhi acuti che non perdevano niente. Una ravviata ai capelli grigi, uno svolazzo del grembiule e di quelle rispettabili calze color visone, e infine un mascherone di Max Factor n° 23 per nascondere qualsiasi traccia di lacrime imbarazzanti.
Finì, e la stanza era in ordine, pulita e rassettata. Sua madre era in ordine, pulita e rassettata. E al centro di tutto sedeva Ruth. Accasciata sul divano come un mucchio di panni sporchi. I capelli arruffati, la pelle umida, la camicetta stazzonata.
Sua madre taceva, ma i suoi occhi, quelle lastre grigie, puntavano su e dentro di lei, le trapassavano la mente dove la sua voce stridula continuava a beccare, a sostenere che fosse tutta colpa sua. La sporcizia in casa era sua, suo il sudore, suo l’odore, sua la negligenza, suo un corpo pieno di falle che l’aveva tradita. Era colpa sua se qualcuno aveva preso i bambini, colpa sua se Frankie era scomparso, se Cindy era... morta.
La voce seguì Ruth fino in bagno dove si lavò e truccò, guardando a malapena il proprio riflesso, cercando di non pensare a Frankie, di trattenere le ondate di panico, di concentrarsi sulla temperatura dell’acqua, sul sapone, sulla schiuma tra le mani, sulla giusta quantità di cipria sul pennello.
La voce la seguì in cucina dove preparò il tè. Dove le strisciate del mocio erano ancora visibili sul pavimento, lo sporco confinato negli angoli scuri. Sua madre aveva allineato i vasetti e i barattoli in fondo al bancone e Ruth notò che il vaso della marmellata su cui Cindy aveva incollato conchiglie e brillantini era sparito, nascosto alla vista o gettato nella spazzatura.
La voce la seguì in camera dove si cambiò lentamente come se il suo corpo fosse pieno di lividi. Si pettinò davanti allo specchio, sempre evitando di guardarsi negli occhi, si spruzzò un vortice di lacca intorno alla testa, tornò in cucina passando davanti alla porta chiusa dell’altra camera, davanti a Minnie che grattava e guaiva per entrare, in ansia perché non riusciva a trovare i bambini. Ruth le si rivoltò contro e la vide schiacciarsi a terra.
In cucina si versò il tè, prese il mocio, il secchio e la candeggina e li portò in bagno. Mentre strofinava per cancellare le macchie, la voce si acquietò. Il cielo assunse i toni azzurro pallido di un’alba afosa mentre Ruth lucidava il lavello, sfregava la vasca, lavava il pavimento. Riempì il secchio più e più volte, inspirò i vapori della candeggina, concentrata sulle mani arrossate e sul dolore alla schiena, sapendo che se si fosse fermata la voce avrebbe ricominciato.
“Casa” era un monolocale nel quartiere più hippy che Pete poteva permettersi. L’aveva preso sapendo che a viali alberati e passeggini preferiva locali e vicini bohémien. Se si fosse trasferito in un quartiere come quelli che piacevano a sua madre, sarebbe stato come trovarsi in una qualsiasi cittadina di media grandezza. Da lì invece sentiva la musica e le risate da St. Mark’s Place e vedeva le luci della città, e sapeva quindi che era arrivato a New York.
Rientrando quella sera, appese la giacca allo schienale di una sedia e si allentò la cravatta, accese la lampada, sciacquò una tazza e la riempì d’acqua fresca. Bevve a garganella, storcendo il naso al vago retrogusto di caffè. Il caffè doveva piacergli a ogni costo: i colleghi del giornale lo bevevano a secchi. Tutti lo bevevano.
Si sedette sul letto e finalmente la giornata giunse al termine. Sciolse i lacci delle scarpe, si tolse i pantaloni, i calzini e la camicia e li piegò sulla sedia, poi si distese chiedendosi se in frigo ci fosse qualcosa per la colazione dell’indomani mattina. Se chiamare la ragazza dagli occhi verdi che aveva conosciuto in un locale nei pressi di Union Square. Come iniziare a scrivere sul caso Malone. E questo lo portò a pensare alla donna e lì si fermò, la mente che si abbandonava al meritato riposo sull’immagine della sua esile figura. La mano alzata. La bocca aperta.
Ripensò alla fotografia e ai suoi occhi vigili. Si chiese di che colore fossero da vicino. Che suono avesse la sua voce.
E anche se non ricordava mai cosa sognava, si chiese se gli sarebbe apparsa in sogno.
L’indomani mattina si presentò Frank e le suggerì di andare in chiesa. Ruth si limitò ad annuire; era più facile che mettersi a discutere e comunque aveva bisogno di uscire di casa. Ripensò alla frescura all’interno della chiesa, alle scene familiari sui vetri istoriati, al profumo dell’incenso.
La messa era quasi finita quando arrivarono. Ruth prese posto su una delle panche mentre Frank marciava a passo pesante verso il confessionale. Lei chinò la testa e chiuse gli occhi, ma senza pregare. Desiderava il conforto che la preghiera dava agli altri, il sollievo della confessione e dell’assoluzione, ma aveva perso la fede alla morte di suo padre.
Ricordava le preghiere di sua madre al capezzale, il rantolo di suo padre, la propria rabbia. Ricordava di essere sgattaiolata fuori di casa una sera, di aver bevuto rum sul sedile posteriore dell’auto di qualcuno mentre viaggiavano in direzione di North Point, di aver provato un disperato bisogno di dimenticare l’atmosfera di casa, di aver riso quando Charlie Houston l’aveva baciata sul collo, di aver riso quando le aveva versato del liquore sul braccio e di aver riso di nuovo quando l’aveva leccato, il cuore che batteva all’impazzata mentre quello di suo padre si fermava, Charlie che le infilava una mano sotto la gonna mentre suo padre esalava l’ultimo respiro.
Ricordava di essere tornata a casa all’alba, di aver suscitato l’ira di sua madre. Di aver respinto la vergogna. Di aver respinto qualsiasi emozione. Ricordava di aver represso il proprio dolore al funerale, di essersi vista bianca e immobile mentre sua madre, paonazza e sudata, delirava e quella sua voce sbraitava accuse: «Sei stata tu a ucciderlo! Sempre in giro a bere come fai tu... sei stata tu a ucciderlo!».
A quel tempo non c’era stato spazio per il suo dolore. Nessuno aveva voluto vederne la follia o la bruttura. Nessuno l’aveva voluto, proprio come nessuno lo voleva adesso. Ruth ricordava di aver affondato le unghie nel palmo per tenerlo imbrigliato, e poi di aver visto la figura crocifissa con i chiodi nelle mani, di aver riso, tremato, ansimato, e poi di essersene andata senza sapere se rideva o piangeva.
E quella era stata l’ultima volta che era andata in chiesa, tranne per il suo matrimonio. Cinque mesi dopo la morte di suo padre, la madre paonazza e inquieta per quella scelta frettolosa, per quello che avrebbe pensato la gente. La settimana prima del matrimonio quasi distrattamente Ruth le aveva detto: «Pensino ciò che vogliono. Sapranno la verità quando vedranno che non ci sono bambini» e lo schiaffo di sua madre l’aveva colta alla sprovvista, la voce aspra che le intimava di non essere così volgare.
Ricordava di essere corsa in camera sua e di aver affondato la testa nel cuscino, determinata a non dare a sua madre la soddisfazione di sentirla piangere. E ancor più determinata a sposarsi e fuggire da quella casa.
L’idea di confessarsi a un prete le incuteva paura. Il pensiero di confinare la propria vulnerabilità in una scatolina minuscola, di essere incapace di respirare o di pensare, invisibile all’uomo seduto davanti a lei – la voce calma, la faccia scomposta dalla griglia, l’autocontrollo assoluto, la fiducia in Dio, la forza – tutto questo le era insopportabile. Se si fosse aperta, avrebbe sfondato la diga che aveva costruito negli anni. E una volta scatenata, sapeva che non sarebbe stata in grado di arginare la valanga di emozioni. Molto meglio tenerla sotto controllo, tenerla nascosta e al sicuro.
E così, quando Frank uscì dal confessionale, Ruth si alzò e si incamminò verso la luce del giorno in fondo alla chiesa, sapendo che lui l’avrebbe seguita.
In auto si lisciò la camicetta bianca e gli disse: «Devo fermarmi al negozio».
Frank si voltò verso di lei, poi tornò a guardare la strada. «Dovremmo tornare a casa, tesoro. Il sergente Devlin ha detto che sarebbe passato più tardi. Ha altre domande da farci.»
Ruth fissò davanti a sé e pensò al sedile posteriore della volante su cui aveva viaggiato il giorno prima. Al parabrezza sporco, al collo dell’autista, al profilo marcato di Devlin mentre la portava a vedere il cadavere di sua figlia.
«Devo andare al negozio, Frank. Ho bisogno di un vestito nuovo.»