Ventisette

AMBER
Una settimana prima della fine delle vacanze, agosto 1969

«È tutto finito» sussurra Toby, strappandosi un’unghia coi denti. «È cominciato.»

Non è cominciato niente. Non è finito niente, gli dico. Le cose vanno male, bisogna ammetterlo, ma siamo già stati in luoghi oscuri e malridotti, e poi all’improvviso succedono delle belle cose e la luce brilla dalle crepe. Penso a Lucian nel dirlo, così mi correggo in fretta: la vita è strana e imprevedibile e può succedere qualunque cosa e un giorno Toby governerà Black Rabbit Hall come gli piace, servirà sandwich di striscioline di carne a cena e riappenderà il ritratto della mamma nell’ingresso.

Lui mi fissa senza capire, lo sguardo spiritato come quello del cugino di papà, Rupert, quando gli chiedevi della guerra.

Non va bene. Da quando il ritratto della mamma è stato rimosso, l’umore di Toby è precipitato di colpo, a sorpresa, come una spiaggia infida. Qualcosa in lui – forse l’ultimo residuo di rabbia e speranza – è svanito. La sua espressione mi mette paura, quasi sapessi che forse questa volta non potrò aggiustarlo.

Alla fine è stato papà a deludere Toby, non Caroline. Lui diceva che se lo aspettava – dopotutto mi aveva avvertito – ma quando la lama del tradimento di papà si è manifestata, è andata troppo in profondità.

Non appena è tornato da Londra sono corsa in biblioteca per scoprire che Caroline era arrivata prima di me. Ho premuto l’orecchio contro la porta e ho sentito il calore delle loro voci, papà che gridava che era maledettamente insensibile da parte sua, che doveva far togliere quel dannato ritratto subito, il giorno dopo. Poi quei rumori sono diventati altri rumori, borbottii, i tonfi rivelatori di mobili contro la parete, un lungo gemito acuto. Il ritratto di Caroline è rimasto.

Quella notte Toby ha dormito nella casa sull’albero, e anche quella dopo, tornando nella casa grande per mettersi disteso inerte con la testa in grembo a Peggy e i piedi impigliati nel suo lavoro a maglia. Peggy gli ha sfilato i legnetti e le forbicine dai capelli, ha cercato di dargli della torta allo zenzero spezzandola e facendogliela cadere in bocca un po’ alla volta: una strana visione, quel ragazzo forte che apriva la bocca davanti ai ditini di Peggy. Credo che non abbia mangiato altro. Dalla camicia si vedono le creste della spina dorsale.

Caroline dice che la «sceneggiata» di Toby è «fiacca e noiosa»; l’ha ammonito dicendo che deve smetterla, «se non vuoi ottenere il mirabile risultato di perdere ancora un po’ dell’affetto di tuo padre». Non credo che voglia che lui la smetta, però. È chiaro che gode moltissimo del dolore di Toby, e il suo umore migliora via via che quello di lui peggiora. Papà, d’altra parte, ha cercato di parlargli con gentilezza – «da uomo a uomo» – ma le parole gentili sono rapidamente diventate urla. Porte sbattute. Imprecazioni. L’agenda londinese di papà si è rapidamente riempita di impegni. È tornato in città già stamattina.

Noialtri cerchiamo di fare qualcosa. Lucian – mortificato dal comportamento di sua madre – si è scusato per lei: Toby non ha dato segno di sentirlo, l’ha guardato come se fosse trasparente. Io sto con Toby sulla cengia o nella casa sull’albero, quasi sempre in silenzio, perché non gli va molto di parlare. Boris aspetta fedele, sdraiato sul suo letto, che torni dal bosco, lo annusa quando guarda fuori dalla finestra con le guance coperte di lacrime. Kitty gli ruba i bambini di gelatina e gli avvolge le braccia molli della Bambola Pezza attorno al collo. Barney arriva a offrirgli Old Harry per due coccole – «Ha le orecchie morbide che fanno sembrare tutto più bello, Toby» – ma viene sempre respinto con forza. A volte penso che Toby dia la colpa di tutto a quel coniglio.