Venticinque
AMBER
Agosto 1969
«Non vorrai portare in casa quella sudicia creatura!» La voce di Caroline rimbalza sulle pareti di mattoni dell’orto come una manciata di puntine e riverbera fino alla terrazza.
Io e Toby smettiamo di discutere e allunghiamo il collo. Ed eccola, vestita di rosso, tagliata in quattro come l’assistente di un mago dalle assicelle di legno della porta. Ha le mani sui fianchi e torreggia sopra Barney, che culla qualcosa tra le braccia.
«Che cosa sta dicendo quel vecchio luccio marcio?» Toby raddrizza le spalle, pronto a lottare.
«Lo sa Dio» dico io, secca, ancora arrabbiata con lui. Stiamo litigando per chi deve prendere l’ultimo asciugamano asciutto che non puzzi di cane bagnato, ma in verità litighiamo per il fatto che viene a nuotare con me. Lo so che vuole controllare che non mi veda con Lucian di nascosto da lui – cosa che mi irrita immensamente, soprattutto perché è proprio quello che speravo di fare – e preferirebbe di gran lunga restare da solo nella sua casa sull’albero a sparare agli scoiattoli.
La casa sull’albero ormai ha tre o quattro piani, anche se è difficile capirlo, e lui ha inchiodato un calendario a un’asse marcita per fare il conto alla rovescia dei giorni che mancano prima che un meteorite o qualcosa di altrettanto brutto si sfracelli sulla Cornovaglia, evento previsto al momento per l’ultima settimana di agosto, il nostro ultimo giorno a Black Rabbit Hall. Ha calcolato la probabilità statistica dell’evento – non così probabile, ma possibile – con grandissima cura e un entusiasmo che a scuola non pratica mai, e attende con immensa gioia la catastrofe imminente.
Io non credo che succederà nulla – è solo un’altra delle sue tragiche profezie – ma in qualche modo questa cosa accresce il sapore aspro e melodrammatico degli ultimi giorni di vacanza. Tutto è carico, come se ogni ora contasse.
I giorni di sole che si accorciano sono oscurati anche dalla consapevolezza che Lucian a settembre andrà a Oxford: il pensiero di essere separata da lui è quasi insopportabile. Possiamo solo aggrapparci ai nostri vaghi progetti di fuga, magari a New York da Zia Bay quando «sarà il momento», e ovviamente non lo sarà mai. Per quanto desideri andare – stamattina mi sono ritrovata a disegnare sul mappamondo un cerchietto attorno a New York con una biro verde – non sopporto l’idea di lasciare gli altri. Posso veramente spezzare il cuore a Toby per salvare il mio? Lasciare Kitty e Barney alla mercé di Caroline? Che cosa penserebbe la mamma se li abbandonassi? Mi perdonerebbe?
Siccome non so rispondere a queste domande, posso solo aspettare di rivedere Lucian qui a Natale, e pregare che non ci scoprano fino ad allora. Sarebbe già un piccolo miracolo. Anche stando qui sulla terrazza, in costume, con la pelle d’oca, sento che potrei dire o fare in qualunque momento qualcosa che mi tradisca.
«Eccola.»
Caroline attraversa la terrazza, ci getta ai piedi le parole: «Si cena alle sette» e si allontana col suo passo assertivo.
«Così almeno so quando levarmi di torno» ribatte Toby, facendosi sentire bene, mentre entriamo nell’orto.
Strana visione: Barney è seduto nell’aiuola delle fragole, chino su quello che assomiglia a un cuscino nero. Ci guarda con un sorriso di cui avevo dimenticato l’esistenza, puro, grande, rivelando il dente da latte storto che minaccia da giorni di cadere.
«Che cos’è?» chiede cauto Toby, anche se lo sappiamo. È che non ci crediamo. Trattengo Boris per il collare.
«Un coniglio.» Barney sorride. «Guardate.»
«Un coniglio?» Ci avviciniamo per controllare che quella palla di pelo sia viva; il nasetto sbuca vibrante da sopra il braccio di Barney. «Selvatico?»
Barney scuote il capo. «Me l’ha regalato Lucian.»
Toby arriccia le labbra, disgustato. «Lucian?»
Barney china il capo per accarezzare la testolina. «Sì, in una scatola di cartone. L’ha preso al negozio di animali.»
«Ma pensavo che i conigli non ti piacessero più» dico. Adesso capisco dov’è corso stamattina Lucian così furtivo e misterioso. L’aveva detto, che sarebbe stata una sorpresa.
«Io non volevo toccarlo. Ma poi Lucian mi ha… Mi ha messo le dita sulle sue orecchie ed era strano e subito non mi piaceva ma poi me l’ha fatto fare tante volte finché è stato bello.» Mi guarda, gli occhi di miele brillanti. «Senti com’è morbido, Amber. Senti.»
Faccio il solletico al coniglietto dietro le orecchie che sembrano calze molli, e provo una tale ammirazione per Lucian; con una sola tenera mossa sensibile ha guarito Barney dall’irrazionale paura dei conigli che gli è venuta dopo l’incidente della mamma, è riuscito dove noi abbiamo fallito. Deve ammetterlo anche Toby.
«Volevo chiamarlo Lucian…»
«Oh, Dio» geme Toby, coprendosi il viso con le mani. Cerco di non ridere.
«Ma Lucian ha detto che non è una buona idea. Così invece lo chiamo Old Harry. Come il traghetto. Lucian ha detto che un giorno diventerà il nome giusto. Anche i conigli diventano vecchi.»
«Benvenuto a Black Rabbit Hall, Old Harry.» Le mie dita scavano un sentiero nel pelo lustro.
«Bartlett ti metterà in padella alla prima occasione» dice Toby, sollevando un buffo orecchio e scrutando dentro la sua morbida tasca rosa. «Squisito.»
«Smettila» dico, brusca.
Il sorriso di Barney già comincia a dubitare di sé. «Non ti piace?»
«Non sono sentimentale con gli animali.» Toby si stringe nelle spalle. Ed è vero. Li ama, ma non così. Mangerebbe qualunque cosa si muova.
«Io non volevo volergli bene, Toby» sbotta Barney per giustificarsi. «Pensavo che succedeva qualcosa di brutto se gli volevo bene.»
«Le cose brutte non vengono fuori dall’amore, Barney» dico, e lo stringo a me.
Toby mi guarda con rabbia. «Cosa ti rende così sicura?»
Mi sento arrossire, una cosa orribile, inevitabile, e divento ancora più rossa perché lo so, che cosa ci leggerà.
«Stai cercando di dirmi qualcosa?» La mattina si spezza: la rissa per l’asciugamano, il coniglio di Lucian, i pugni stretti di Toby. «Allora?»
«Non fare l’idiota, Toby.» Vado via, il mio segreto appeso a un filo insanguinato. Come il dente da latte di Barney, uno strappo e viene via.
Ho scoperto che la vita non si fonda sempre sulle cose ovvie – la gente che muore, i matrimoni, tutta quella roba che finisce incisa sulle lapidi – ma anche su piccole cose che passano inosservate. Baci. Conigli.
Nel giro di una settimana Old Harry non è più un coniglietto ma una piccola divinità dotata di miracolosi poteri curaBarney. Com’è degno di una tale creatura, dorme nel pollaio su un vecchio piumino di seta. Il corridoio grande è diventato la sua pista di giorno. Kitty lo porta in giro per l’ingresso ben coperto nella sua carrozzina, e lo chiama Baby Harriet quando Barney non sente. Anche Peggy, che dice che i conigli sono infestanti e ha ancora quel suo brutto virus che la fa vomitare tutte le mattine, gli dà da mangiare le carotine più dolci.
Caroline ovviamente si è arrogata il successo: Old Harry è la prova vivente della gentilezza di Lucian (in contrasto con la perfidia di Toby) e di conseguenza delle sue virtù di madre. Ha trasformato Old Harry in qualcosa che mette Lucian contro Toby, Toby contro papà e il passato contro il futuro. (Non c’è da stupirsi se Toby detesta il coniglio, che scappa via spaventato tutte le volte che arriva lui.) Un paio di giorni fa ho sentito Caroline mormorare con dolcezza: «Hugo, tesoro, Lucian mi ricorda tanto te. Non è straordinario che tu e lui siate così simili, sia nell’aspetto che nel carattere, e tu e Toby così diversi?». Poi un silenzio forse punteggiato da una sorsata di whisky di papà o da un suo sorriso confuso. «Dobbiamo essere contenti che ci sia un giovane così simile a te in famiglia, una persona in grado di occuparsi di Pencraw… se dovesse succedere qualcosa.»
Quel che è peggio, papà invita Lucian in biblioteca ad ascoltare musica jazz. Toby non viene mai invitato in biblioteca ad ascoltare musica jazz. Mi fa impazzire l’idea che papà si sforzi di conoscere Lucian ma non cerchi mai di conoscere Toby. Forse ha paura di quello che troverebbe. Forse crede di conoscerlo già. Be’, no. Papà non conosce Toby più di quanto ora conosca me. Non sa che siamo tutti e due diversi da quelli che eravamo anche solo all’inizio delle vacanze, che è tutto cambiato.
Ho l’impressione che gli adulti nel tempo si consumino, come gli scogli che affiorano in mare: restano dove sono, solo più lenti e più grigi, con quelle buffe rughe verticali davanti alle orecchie. Ma i giovani continuano a cambiare forma da una settimana all’altra. Conoscerci significa correre al nostro fianco, come qualcuno che cerca di urlare da dietro il finestrino di un treno in movimento.
Caroline non bussa. «Non siete ancora pronte, ragazze?»
Mi copro la nuca con la mano nel punto in cui la bocca di Lucian ha lasciato un segno rosa. Kitty, che è stesa sul mio cuscino, la guarda mite, poi continua a fare il suo tepee di forcine.
Caroline osserva accigliata le pile di libri e scarpe gettate sul tappeto, le mutande appese allo schienale della poltrona di velluto. «Questa stanza è spaventosa. Metti in ordine, Amber. Subito. Peggy si deve occupare delle zone comuni della casa. Non voglio che perda tempo a farvi da chioccia, soprattutto da quando i suoi problemi di stomaco sono diventati così fastidiosi.»
Comincio a fare una pila dei libri sparsi. Povera Peggy. Non è colpa sua se sta male.
«Ti ho portato dei vestiti nuovi.» Caroline depone sul mio letto una bracciata di abiti che sanno di negozio.
«Io non ho mai cose nuove» sospira Kitty, e aggiunge un’altra molletta alla sua tenda. Cadono tutte, sparpagliandosi come fiammiferi.
Prendo esitante un abito color fango lungo al polpaccio, abbottonato fino al collo: è il vestito più brutto che abbia mai visto.
«Che schifo» sentenzia Kitty, complice.
L’altro è anche peggio, giallo scuro, di una stoffa ruvida, a trama larga.
«Un bel grazie sarebbe educato, Amber» dice Caroline, secca.
«A Kitty non piacerebbe mettersi quelli» osserva Kitty in tono ragionevole. «Nemmeno a Pezza.»
«Taci, Kitty.» Caroline stringe le labbra. La luce del mattino che filtra dall’edera la fa quasi grigia di irritazione.
«Sei… veramente gentile, Caroline…»
«Voglio che tu vesta in modo appropriato. Che sia più elegante. Ho prenotato la parrucchiera, viene domani.»
«La parrucchiera?» A Lucian i miei capelli piacciono così come sono. Mi ha fatto promettere di non tagliarli mai.
Mi ignora, spalanca il mio armadio e passa in rassegna con disprezzo i miei abiti preferiti appesi. «Questa roba vecchia la butto via.»
«Oh, no! Quelli no.» Non posso dirle che quest’estate ho portato dalla città tutti i miei abiti preferiti – senza rischiare il solito guardaroba cencioso da Black Rabbit Hall – perché sapevo che sarebbe venuto Lucian. «Vanno benissimo.»
«Benissimo?» Sbuffa e se li appende al braccio. «Solo tuo padre non vede che sono troppo stretti e ridicolmente corti, Amber. Non sono più adatti a una ragazza della tua età. Sei troppo…» Il suo sguardo si fissa sui miei seni. Mortificata, incrocio le braccia sulla camicia da notte. Mi fissa per un’eternità, tormentando le perle, quasi come se si fosse scordata di sé, poi si volta e sbotta: «Vestitevi, ragazze, e scendete per colazione prima che diventi pranzo».
Non sopporto l’idea che Lucian mi veda con qualcosa di così brutto addosso, così getto da parte il vestito marrone, me ne infilo uno che ho comprato con Matilda a Chelsea – color pesca, al ginocchio, bottoni bianchi grandi come piattini – e scendo a colazione con aria di sfida.
Gli occhi di Caroline lo tagliano come forbici. Ma non dice nulla. Invece posa tranquillamente il coltello sulla neve della tovaglia e si rivolge freddamente a Lucian. «Tesoro, pensavo che potremmo invitare Belinda questo sabato. Prima che tu vada a Oxford. Ormai restano pochi fine settimana.»
Un frammento di pane tostato mi s’incastra in gola. Tossisco e sputo, prendo il bicchiere d’acqua troppo bruscamente; me la verso sul petto.
«Non è un posto adatto a Belinda, mamma» dice lui, sforzandosi di suonare noncurante.
«Sciocchezze. A Belinda piacerà tantissimo Pencraw.» Caroline riprende il coltello, spalma un sottile strato di burro sul pane. «Jibby Somerville-Rourke, sua zia… te la ricordi? Alle nozze. Quell’infelice difetto di pronuncia.»
Lucian annuisce, mi scocca uno sguardo preoccupato. All’improvviso sono molto contenta che Toby non si sia dato la pena di scendere per colazione. Riconoscerebbe subito il nostro disagio.
«Be’, quella poveretta ha scritto di nuovo, e mi tormenta perché inviti Belinda, e ovviamente lei come accompagnatrice. Dice che Belinda ha sperato per tutta l’estate che l’invito arrivasse, ma inspiegabilmente non è successo.» Si protende verso Lucian, che si fa indietro. «Credo che sia pazza di te, mio caro.»
Io giocherello con un bottone, le guance in fiamme, la gola chiusa. Belinda. La bella, ricca Belinda.
«Veramente pensavo di dare una mano a Toby questo fine settimana.» Lucian è senza fiato. «Vuole costruire non so bene cosa sul fiume, vero, Barns?»
«Un ponte di corde.» Barney succhia la marmellata di susine dal dorso di un cucchiaio. Sorride. «Pauroso. Senza i fianchi.»
«Il migliore» dice Lucian, cercando invano di essere leggero.
«Ma Toby non vorrà che tu lo aiuti, Lucian» osserva Kitty allegramente. «A lui non piace se vieni anche tu, ti ricordi?»
Caroline sorride tra sé, felice di avere un’altra prova dell’ostilità di Toby. So che più tardi lo riferirà a papà.
«Voglio proprio conoscere Belinda. Mi piace il nome Belinda» continua Kitty, esasperante. Pezza ciondola sulle sue ginocchia. «C’è una bambina che si chiama Belinda a scuola. Ha la treccia più lunga della classe. La sua tata ci mette un fiocco rosa il venerdì.»
«Quella sudicia bambola è dentro la marmellata, Kitty. Per favore, spostala.» Caroline si rivolge a Lucian, più dura, ora. «Sono settimane che non vedi nessuno dei tuoi amici, Lucian. Credo che ti farebbe bene ricordarti com’è la società civile prima di tornarci. E hai tutto il diritto di invitarla. Questa è anche casa tua, adesso.» Guarda il posto vuoto di Toby. «Non permettere a nessuno di convincerti del contrario.»
«Allora esercito il mio diritto di non invitarli» scatta Lucian. «Belinda. E gli altri.»
Una pausa terribile. Le pareti della sala da pranzo diventano più rosse.
«Capisco» dice Caroline, asciutta. La vena sulla fronte pulsa. «Be’, non parliamone più, per adesso. Non posso tollerare tutta questa agitazione prima delle nove. Non ci riesco proprio.»
La parrucchiera – una donna grossa e arrabbiata con una frangia pesante che sembra un coperchio – sale goffa gli scalini con una voluminosa borsa di pelle marrone e un’espressione cupa e decisa. Come un medico che arriva per un’amputazione, Toby scherza tetro, poi fila nel bosco a pensare alle sue tempeste di meteoriti.
La parrucchiera – Betty, si presenta in tono rapido, come se preferisse restare anonima – prende posto in cucina, lontano dagli operai che sono comparsi sulla soglia la mattina e che ora martellano di sopra, impegnati in chissà cosa. Allinea sul tavolo di legno i suoi utensili – pettine, forbici, barattolo di vetro blu contenente una crema viscida – con grosse dita da macellaio. Bartlett le offre tè e torta, e lei mastica spostandola da una parte all’altra della bocca mentre taglia.
Io insisto per essere l’ultima e mi siedo sullo sgabello a guardare, a preoccuparmi.
Non è il bruto che sembra. Lucian è ancora più bello con i capelli corti dietro e sui lati. (Raccolgo una lucida ciocca scura dal pavimento e me la infilo in tasca.) I teneri ricci di Kitty non vengono massacrati. Barney non deve più strizzare gli occhi sotto la frangia. Scappa via, il coniglio sulla spalla, e mi saluta con la mano dietro la schiena, le dita come una codina.
«Adesso tocca a te, cara.» La parrucchiera indica la sedia, allontana col piede i capelli tagliati a terra.
Mi siedo molto diritta, le mani allacciate sulle ginocchia, e dico decisa che voglio che tagli non più di qualche centimetro. Un odore di cuoio capelluto si leva dalle sue dita che si muovono mentre lavora con pettine e fredde forbici di metallo. Ci vuole un secolo. «Fatto» dice infine, e ficca rapida le sue cose nella borsa.
La mia testa è priva di peso, come se potesse staccarsi e volar via alla maniera di un palloncino. Ci sono lunghe lingue rosse sul pavimento. Mi tocco la testa dietro, dove dovrebbero esserci i capelli, ma non ci sono: mi sfiorano appena il collo.
Corro, spaventata, in cerca di uno specchio. Lucian è la prima persona che incontro: è vicino alla stanza degli stivali, come se mi stesse aspettando.
«Non guardarmi!» Mi tengo la testa con le mani, sento le lacrime bruciare negli occhi. «Non guardare!»
Mi spinge nella stanza, chiude la porta e mi bacia il collo, dice che adesso può morderlo come un vampiro, e mi fa sorridere nonostante tutto. Poi sentiamo dei passi sulle scale e ci scostiamo.
Mi sento un po’ meno come se il mondo fosse finito finché non entro nella stanza di Toby. È steso sul pavimento – i piedi nudi sulla parete – e sbuccia una dura mela tardiva reggendo il coltellino sopra la testa. «Guarda» dico, e spero che mi risponda che va tutto bene. Ho ancora bisogno della sua approvazione. «Guarda che cos’ha fatto la parrucchiera!»
«Sì, ti ha tagliato via di dosso la mamma, sorella» dice in tono mite, e torna a concentrarsi sulla mela. «Io lo sapevo.»
«Be’, allora potevi avvertirmi» grido, ed esco sbattendo la porta.
Lo sento urlare: «Ma l’ho fatto».
«Toby, è successa una cosa» grido senza fiato, spalancando la sua porta pochi minuti dopo. È esattamente dove l’ho lasciato, sul pavimento, la buccia di mela una lunga spirale ininterrotta, la polpa verdina del frutto snudata.
«Me li hai già fatti vedere, i capelli.» Un’ultima mossa esperta e la buccia cade a terra. «Ricresceranno.»
«No, non sono i capelli. Lascia stare i capelli. È molto, molto peggio.»
Allora mi fissa perplesso. «Ma non doveva succedere niente fino all’ultimo giorno delle vacanze.»
«Non è una delle tue stupide fantasie di catastrofi planetarie. È una cosa veramente orribile. Nell’ingresso. Vieni. Vieni a vedere.»
Il ritratto al posto di quello della mamma è molto più grande. Non solo di misura. La presenza di Caroline sembra sbucare dall’enorme cornice d’oro lavorato, irradiando il suo gelo peculiare nell’ingresso. L’immagine non coglie solo la somiglianza – anche se sembra molto più giovane, più giovane di anni – ma pure le dimensioni della sua ambizione.
«Quella stronza» sibila Toby, senza quasi muovere le labbra. «Stupida stronza.» Lascia cadere sulle piastrelle la mela sbucciata e prende il coltellino dalla tasca. «Adesso la sventro come un pesce.»
Gli afferro il braccio, facendo tremare il coltellino nell’aria. «No. Quando torna papà lo farà togliere lui.»
«Papà! Perché ti fidi ancora di lui?» Si libera dalla mia presa. «Non capisci cosa sta succedendo?»
«Lui adora il ritratto della mamma. Non permetterebbe a nessuno di toglierlo dall’ingresso.»
«Davvero? Ma non capisci, Amber? L’amore adesso non c’entra, c’entra il potere. Il denaro.»
«Cosa?»
«Caroline è ricca. Noi siamo poveri.»
«Non essere ridicolo.»
«Papà ha bruciato tutto, Amber. Ha bruciato tutto da quando è morta la mamma, e comunque non c’era poi granché, comunque non abbastanza da mantenere questa casa. Sul serio, io li ho visti, tutti i conti non pagati, quelli che nasconde nei cassetti della sua scrivania.»
«Black Rabbit Hall non è mai stata una casa elegante. Non importa a nessuno.»
«A Caroline sì. E continuerà a spendere per questa casa finché non l’avrà fatta diventare sua.»
«È ancora di papà. Nostra. Tua.»
Il volto di Toby diventa freddo, impassibile. «La persona che pensi sia papà non è più papà. È qualcun altro.»
«No» rispondo, mi rifiuto di crederci. «Non dire così.»
«Nessuno di noi è quello che era prima, vero?» dice lui senza mezzi termini. «Ed è tutto per via di Caroline e Lucian.»
«Lucian non c’entra niente» sbotto prima di pensare; l’impulso di difenderlo è istintivo.
«Lucian non c’entra niente» mi imita facendo la voce da femmina. «Lucian l’amico dei coniglietti. Lucian il figlio perfetto. Quand’è che ti svegli, Amber?»
Tremo. Non sono sicura che non dirò la cosa sbagliata. Faccio per andarmene, ma Toby non mi lascia.
«Senti.» Mi afferra il braccio, agita il coltellino verso il ritratto. «Questo è niente. Non è nemmeno l’inizio. È solo per scaldarsi. Tutte le tracce della nostra famiglia presto spariranno, cancellate da questo posto proprio come quel quadro. E siccome noi siamo parte della mamma, anche noi verremo cancellati, alla fine. Tu in particolare. Sì, tu, Amber. Ai suoi occhi tu sei la mamma. Le assomigli ogni giorno di più. È per quello che ti ha fatto tagliare i capelli. È per quello che ti fa mettere quei vestiti schifosi! Non capisci?» grida, come se fosse colpa mia. «Il solo modo per liberarsi delle ultime tracce della mamma è liberarsi di te!»
Non oso dire che penso che Caroline mi stia rendendo più brutta possibile perché sospetta di me e Lucian. Non posso rischiare di scatenare lo stesso sospetto nella testa di Toby, il seme scuro che sta aspettando il momento di spingersi verso la luce, come un rovo spinoso attraverso il pavimento.
«Black Rabbit Hall non avrà più niente a che fare con gli Alton nell’arco di una generazione.» Toby fissa il ritratto, annichilito. «Non ci sarà nemmeno più, probabilmente. La venderà. La divideranno in appartamenti, o diventerà una casa di riposo.»
«Sciocchezze» dico, e mi trema la voce. «Tu sei il figlio maggiore, l’erede.»
Toby scoppia in una strana risata vuota. «Caroline farà in modo che il posto tocchi a Lucian, e tu lo sai.»
«Lucian non accetterebbe mai…»
Si volta di scatto. «E come fai a saperlo? Come diamine fai a sapere quello che farebbe o non farebbe?» Il suo alito è dolce, nauseante.
«Perché…» Mi mancano le parole.
«Perché cosa, Amber?» Strizza gli occhi, una luce fredda scintilla tra le spine rosse delle ciglia.
«Lui è dalla nostra.»
«È questo che ti dice? Sei così credulona?»
«Non è colpa sua.» Lo so che dovrei tacere. Ma non posso. Se solo riuscissi a fargli capire.
«Non… non difenderlo.» Parla piano, un ringhio basso. Ha gli occhi da folle, le pupille dilatate. «Non quando ho un coltello in mano.»
«Che cosa pensi di fare? Di pugnalarmi?» Tendo il braccio nudo, lo premo contro la lama, sfidandolo a spingerla contro la mia pelle pallida. Qualcosa dentro di me – rabbia, frustrazione, amore – si libera. «Mi avresti per sempre così, vero? Saremo solo noi. Puoi chiudermi nella tua stanza» urlo, «mettermi seduta sulla poltrona e… lasciarmi lì finché non marcisco e allora potrai lucidare le mie ossa con il tuo straccio speciale e mettermi nella tua collezione di ossa!»
Toby è ferito. Sposta la lama. «Cosa? Cosa diavolo stai dicendo?»
«Tu non vuoi lasciarmi andare» singhiozzo. Le lacrime mi escono tutte insieme.
«Non potrei mai farti del male. Non potrei mai, mai farti del male.» Getta il coltellino sul pavimento. Un urto sonoro. Mi prende per le spalle e mi scrolla, cerca di farmi uscire qualcosa. Io continuo a piangere, Toby a dire: «Basta, basta, basta» finché non smetto.
«Ti ricordi la promessa che ci siamo fatti quando è morta la mamma?» Chiudo gli occhi per escluderlo. Ma lui è anche dentro di me, quindi non ci riesco. «Ti ricordi?»
Vorrei dire di sì. Ma il senso di colpa coagula le parole. «Guardami.» Cerca qualcosa nei miei occhi. Non voglio che lo trovi, così guardo altrove, ma lui mi solleva la mascella con decisione, mi costringe a incontrare il suo sguardo. «Tu. Io. Noi. Sempre noi. È questo che ci siamo promessi. Te lo ricordi? Dimmi che ti ricordi. Dillo. Dillo forte.»
«Noi» sussurro, e questa sola parola mi gonfia gli occhi di lacrime.