Diciassette
Papà alza lo sguardo dalle sue carte, è accigliato. Si sfila gli occhiali e si stropiccia gli occhi. Gli resta un segno sul ponte del naso, brillante nella luce del mattino che filtra dalle alte finestre della biblioteca. «Cosa posso fare per te, tesoro?»
«Possiamo parlare, papà?»
«Parlare?» ripete, come se avessi proposto qualcosa di stravagante. «Oh, immagino che comunque una pausa da questa roba mi farà bene.» Spinge via la catasta di documenti e infila la stilografica d’argento nel taschino.
Guardo fuori dalla finestra e vedo una fetta dell’auto di Lucian, già carica, il manico della chitarra che sbuca dal bagagliaio aperto. Devo andare a salutarlo? Non so quando lo rivedrò. Oggi – il giorno che Lucian parte e tutto torna normale – sembra già più grigio, pieno dei vecchi problemi, un mondo che guarda indietro, non avanti.
«Peggy ha fatto un lavoro eccezionale mandando avanti la proprietà negli ultimi mesi, ma temo che un po’ di cose siano sfuggite.» Papà guarda torvo i documenti.
«Che genere di cose?»
«I conti, gli stramaledetti conti, Amber. Farei meglio a gettare i miei soldi in un fiume invece che buttarli in questa casa. Ma non fare quella faccia preoccupata. Gli Alton trovano sempre il modo.» Sbuffa, sollevando i capelli d’argento che si sono così sciupati. «Non perderemo la casa. Ci penso io.»
Questo discorso bellicoso mi fa sentire più in ansia.
«Ho tenuto la testa sotto la sabbia per troppo tempo.» Si allenta il colletto. «È ora che me ne occupi, Caroline ha ragione.» Che cosa crede di fare, quella, dargli consigli? Papà indica con impazienza l’altro lato della scrivania. «Siediti, tesoro.»
Avvicino lo sgabello, i gomiti puntati sul piano di pelle verde spugnosa della vasta scrivania – Toby dice che papà ci fa sedere dall’altra parte per rimpicciolirci, così siamo più maneggevoli – e cerco di ignorare Knight nella sua teca foderata di velluto nero. Tutto ciò che è successo quella notte ancora vortica silenzioso nel buco stellato nel suo cranio.
«Allora?» dice papà. Il suo sorriso non è più aperto come qualche attimo fa.
Mi agito sullo sgabello. «Ecco, si tratta di Toby.»
«Come temevo.» Papà sposta alcuni fogli che stavano bene dov’erano, li raddrizza a colpetti di dita. «Gli dà fastidio Lucian. È spaventosamente sgarbato. Mi aspettavo di più da lui.»
«Be’, non è proprio questo» dico, e mi chiedo chi gli ha suggerito questa versione degli eventi. Caroline, probabilmente. «Papà, ha costruito una casa sull’albero.»
«Una casa sull’albero? Sul serio? Dove?»
«In fondo al bosco. Lungo il fiume. Ci tiene del cibo, un coltello, un letto… una pistola. Papà, ha preso la pistola. Quella che c’era nel cassetto.»
«Non l’ho chiuso a chiave?» Si stropiccia stancamente il viso, soffoca uno sbadiglio. «No, credo che non dovrebbe tenerla, anche se io alla sua età ne avevo una collezione, capisco il fascino.»
«Ma papà…» A volte mio padre sembra venire da un’altra era geologica. «… è come se si stesse preparando alla fine del mondo» dico, sperando che colga la follia. «Continua a parlare di questa brutta cosa che succederà alla fine delle vacanze. Una catastrofe.»
«Come per esempio tornare a scuola? Suppongo che sarà uno shock… settembre lo è sempre dopo un’estate passata qui.» Fa un sorriso gentile, e io sento nascere un barlume di speranza: forse adesso mi ascolterà. «Almeno ha ancora un po’ di tempo.»
«Credo che sia più grave.»
«Grave? Amber, tesoro, avere a che fare con Toby da quando…» Un singhiozzo di silenzio dove dovrebbe esserci la morte della mamma. «… Questi ultimi mesi sono stati quasi insopportabili.» Spinge verso di me una grossa scatola di lokum di un rosa polveroso. «Sono buoni. Prendine uno. Li ha portati Caroline da Londra.»
Scuoto la testa. «È che c’è qualcosa che non va in lui, sul serio. È meno se stesso che mai. Meno che a Natale, insomma.»
Papà guarda fuori dalla finestra, malinconico, il lieto momento del dolcetto svanito. «Be’, ha cominciato una scuola nuova. Direi che gli ci vorrà un po’ ad abituarsi, soprattutto visto che è stato preceduto da una certa fama.»
«Non credo che la scuola gli piaccia granché, ma non è questo.»
Papà si tormenta un lobo, a disagio. I fogli cominciano a scivolare e si agitano nel vento che entra dalla finestra aperta.
«Papà, adesso sta peggio di quando era appena… successo.»
Ci riflette un istante, il mento tra le mani, poi raddrizza la schiena e allontana il pensiero. «Amber, tesoro, spero che tu capisca che apprezzo molto la disponibilità che hai dimostrato coi tuoi fratelli in quest’ultimo anno. L’ho notato, sai.»
Per qualche ragione questa lode mi fa stare anche peggio. Come se avessi avuto scelta.
«Credo che siamo tutti colpevoli di averti giudicato più grande dei tuoi anni, a volte. Ma ci sono tante cose che ancora non capisci, mia cara.»
Mi rendo conto che mentre papà ha la buccia dura – «ha la pelle più spessa del sedere di un cinghiale» dice Nonna Esme – Toby è praticamente privo di protezioni. Tutte le emozioni lo toccano in modo esagerato, e papà invece ne è a malapena sfiorato. E questo è parte del problema.
«Ma io capisco Toby, papà. Lo capisco meglio di chiunque altro.»
Un colpo di tosse. «Amber, non sei la prima persona che me lo fa notare.»
«La nonna ti ha detto qualcosa?»
«Alla scuola di prima avevano consigliato…» Si rannuvola. «… una specie di dottore. Un ciarlatano di Harley Street. Ma non farò questo a Toby, non lo farò diventare una creatura spenta, per quanti problemi possa dare.» Aggiunge, più solenne: «Nancy non me lo perdonerebbe mai».
Papà nomina la mamma così di rado che il suo nome risucchia tutta l’aria dalla stanza. Anche lui è spaventato. È così che ci manca adesso; è meno nuotare in un lago di tristezza e più provare picchi acuti di sensazioni che sbucano inaspettate come steli di digitale nel bosco.
«Voglio che sia felice, papà. Be’, senza esagerare» dico, perché capisco che la mia ambizione è eccessiva. «Ma almeno che sia più quello che era prima.»
Papà allora mi sorride, pieno di affetto, come sorrideva quando avevo l’età di Kitty. E io provo una fitta per quel tempo, quando non ambivo a sapere nulla di più di quello che sapeva papà, quando mi affidavo completamente al suo giudizio.
«Amber, ricordati che la forza di carattere si forgia attraverso le esperienze difficili, non i divertimenti. Solo aspirando al dovere e al duro lavoro, se siamo fortunati, e solo se lo siamo, può essere che la felicità arrivi.» Schiaffa un fermacarte sui documenti, li appiattisce. «Il piacere è un effetto collaterale, non un maledetto diritto, come credeva mio fratello Sebastian.»
Resto a bocca aperta. Avverto la presenza dello zio lestofante annegato. Quasi lo vedo scivolare sotto le acque gentili del Mediterraneo.
«Se Toby deve ereditare la proprietà, imparare a essere il custode di questa casa, deve rimettersi in riga, e subito.» Un muscolo pulsa nella sua mascella, ha la fronte imperlata di sudore. «Tutto qui.»
«E se Toby non riesce a rimettersi in riga?» balbetto.
«“Non riuscire” è un’espressione che non usiamo in questa famiglia.»
«No» dico, e guardo in basso, mi mordo il labbro. «Scusa.»
«Allora, cosa pensi che dovremmo fare?» chiede, un po’ più dolce.
«Non lo so.» Speravo che lo sapesse lui. «Suppongo che qualcosa debba cambiare. Ma, ehm, non so cosa.»
Mi fissa. La sua mente lavora dietro gli occhi, come le catene invisibili che trascinano il traghetto King Harry attraverso la superficie liscia del fiume. Poi si alza, batte i pugni sul piano di pelle della scrivania. «Grazie, Amber. Credo che senza volerlo tu abbia risposto a una domanda, una domanda enorme, a cui sto pensando da qualche giorno.» Contrae la mascella, come per costringersi a prendere in considerazione una cosa spiacevole. «Qualcosa deve cambiare. Hai ragione. È mio dovere di padre fare in modo che succeda.»
«Cosa?» chiedo, perplessa, sperando che non sia niente di troppo drastico.
«Direi che lo scoprirete tutti molto presto.» Recupera la penna d’argento dal taschino, toglie il tappo coi denti. «Ora, se non ti dispiace, ho dei conti da sistemare.»