Venti

AMBER
Giugno 1969

Una goccia di sudore mi scivola lungo il naso. La asciugo con una sciarpa di seta, sbircio Peggy dalla porta socchiusa dell’armadio, mi godo la sua maniera affettuosa di spolverare le cose della mamma sul tavolo da toeletta, ma vorrei che se ne andasse. Peggy è così lenta oggi, si passa il dorso del polso sulla fronte, barcolla un poco, come se ogni gesto le desse la nausea. Spero che non vomiti qui. Come ieri mattina nell’orto. Un virus, ha detto. Spero di non prenderlo.

Finalmente chiude la porta e se ne va. Scivolo fuori, i piedi che formicolano, felice di essere libera dalle pellicce bollenti e da sensazioni ancora più bollenti, e mi siedo sul panchetto del tavolo. Respiro. L’armadio è caldissimo, ma è il solo posto in cui posso pensare a Lucian senza preoccuparmi che Toby veda le immagini che ho in testa.

Toby sospetta, ne sono certa, ma non ha prove. Altrimenti mi avrebbe affrontato. E la verità è che non è successo proprio niente dal bacio di Pasqua. L’annuncio di papà, l’ultimo giorno di quelle vacanze di Pasqua, ci ha travolto come una palla i birilli, vuol dire che non potrà mai succedere nulla: «Avrete una nuova madre, bambini. Spero che accoglierete con affetto Caroline come tale, e Lucian come vostro nuovo fratello maggiore».

Un fratello. Come fa a essere un fratello?

Matilda dice che si può, basta che io non mi ostini a fare la romantica. Dice che devo abituarmi a smetterla di pensare a Lucian, come ci si può abituare ad apprezzare il sapore amaro delle olive che ha mangiato in Grecia. Devo innamorarmi di qualcun altro. Ho sedici anni, l’età perfetta. E suo fratello Fred? Non potrei innamorarmi di lui? È sempre stato carino con me, e balla bene. Non posso dirle che Fred adesso mi sembra troppo noioso e troppo innocente.

Matilda dice che se voglio vedere Lucian solo come un fratello, devo ricordarmi che fa le puzze, si mette le dita nel naso e fa la pipì sull’asse del water. Basta provare, e il fascino svanirà. L’ho fatto. Non è svanito un bel niente. È un caso disperato.

Peggio, non riesco a non replicare il bacio mille volte, aggiungendo pezzi, facendolo durare di più, spostandolo su sfondi diversi: la spiaggia, la cengia sulla scogliera, l’erba alta vicino al fiume. Tutto mi ricorda lui: vedo qualcuno coi capelli scuri che cammina a grandi passi per la strada e il cuore fa le capriole; mi siedo su una panchina in Fitzroy Square e penso alla coppia che io e la mamma avevamo visto baciarsi dalla finestra, così persa nel bacio che non gl’importava se qualcuno li vedeva, e penso che in quell’unico miracoloso pomeriggio di primavera io ho baciato qualcuno proprio così.

Non posso fare a meno di ricordare la dolcezza di Lucian verso Barney e Kitty, e come ha perdonato Toby nel suo modo discreto, l’affetto tranquillo che prova per Black Rabbit Hall. A volte giuro che riesco a sentire il suono debole della sua chitarra attraverso il pavimento, anche se non ci sono chitarre in casa.

«Amber.» La porta si spalanca. Toby entra nella stanza rosa con un’energia rabbiosa e indurita, a stento compressa sotto la canottiera e i pantaloni corti. «Cosa ci fai qui?»

«Mi piace stare vicino alle cose della mamma.»

Mi raggiunge alle spalle e i nostri occhi si scontrano nello specchio. «Ho trovato un dolce nella dispensa.»

«Un dolce?» Passo le dita sul crine di cinghiale della spazzola della mamma. Tutti i capelli rossi ondulati sono spariti, raccolti e nascosti nei nostri cassetti segreti. Mi fa pensare a una cosa che dice Matilda: che se la mamma fosse vissuta più a lungo sarebbe diventata irritante perché tutte le madri lo diventano alla fine. Sfiorando la sua spazzola mi sembra impossibile. «Che dolce?»

«Cinque torte. Di misure diverse.»

«E allora?»

«Non essere ottusa. Una torta nuziale, Amber. La schifosa torta nuziale di Peggy.»

«Bleah.»

Ride forte. «Ho scatenato Boris.»

«È così… una cosa così idiota, Toby.» Scuoto la testa e cerco di non ridere anch’io. È tutto terribile, eppure lui riesce ancora a farmi ridere come nessun altro. «Peggy darà in pasto te al cane.»

Lui mi toglie un lungo pelo bianco dal braccio e lo regge perplesso tra le dita, mi guarda, poi guarda l’armadio, e oltre. Respiro di nuovo. Ho bisogno almeno di un posto dove non mi segua.

«Peggy ne farà un’altra.»

«Be’, se fossi in lei inzupperei il pan di spagna nel veleno per topi. Se la passerà molto peggio quando saranno sposati. Ce la passeremo peggio tutti noi.» Si rannicchia vicino al mio panchetto, rimbalzando come se avesse le molle. «Non appena avrà l’anello al dito diventerà ancora più mostruosa, credimi.»

Mi volto, cerco di vedermi nello specchio come può avermi visto Lucian, di profilo, sul sedile del passeggero. «Ma avrà quello che vuole.»

«Non è così che funziona Caroline.»

Sgrano gli occhi.

«Che c’è?»

«Non peggiorare le cose, Toby. È già abbastanza brutto.» Mi osservo allo specchio, la mente lavora. Passa un istante. «Caroline ci ha fatti venir via tutti da scuola prima per potersi sposare a giugno. Deve avere l’ansia che papà cambi idea, Toby. Forse…»

«No, Caroline farà in modo che quel matrimonio ci sia.» Toby si strappa un pezzetto d’unghia con i denti. «E poi rovinerà Black Rabbit Hall. Distruggerà tutti i nostri posti.»

«Il bosco no. La spiaggia no.» Sono ancora capaci di incantare Toby, le fortezze di vecchie assi e rete metallica, la sabbia fredda e bagnata, la volta del cielo. Sono i posti in cui è più felice. Felice dentro, nel sangue. Mi dico che in un modo curioso Toby è Black Rabbit Hall più di chiunque altro. «Quelli non può distruggerli.»

«Allora la casa. I pezzi con la gente dentro.»

«Grazie.»

«Lo sai che non intendo dire te.»

Mi alzo, schiacciata dal peso di essere la sua metà più razionale, e sbircio tra l’edera che si allunga sulla finestra. «Basta catastrofismi. La mamma ci diceva sempre che il mondo è un bel posto, ti ricordi?»

«È perché non sapeva che cosa le sarebbe successo.»

Fuori, il giardino è in fiore, disordinato, un groviglio vivo. «Meno male.»

«Perché? Se l’avesse saputo non sarebbe andata a cercare Barney. Sarebbe ancora viva.»

Mi volto a fronteggiarlo, esasperata. «Ma lei non lo sapeva. Nessuno di noi sa niente. Mai. Non finché non succede!»

«Il problema è che io lo so, Amber.» Si copre il naso con le mani, respira forte, come nel tentativo di controllare il panico. «Non voglio. Ma lo so. E ho un grafico che dice esattamente quando.»