Ventuno
La chiesa non è nemmeno lontanamente piena come per il funerale della mamma. Papà ha detto che voleva «una cerimonia intima». Però mancano delle facce. I vecchi amici di Londra dei miei. Certi cugini di papà, quelli che sanno di cavalli e cane bagnato e adoravano la mamma. Zia Bay, che ho sentito litigare con papà al telefono la settimana scorsa. Lui gridava: «E quand’è che non sarà troppo presto? Non smetterò mai di amare Nancy, quindi non sarà mai il momento giusto. Non capisci, Bay? Mai, mai». Dall’America non è venuto nessuno. Mi mancano quelle voci che sanno di posti lontani e di film, la prova che esistono altri mondi oltre al mio.
Le panche dal lato di Caroline sono più affollate: gente diversa, più rumorosa, più eccitata, per niente in imbarazzo per il fatto di essere tornata così presto nella chiesa in cui abbiamo celebrato il funerale della mamma. Gli uomini ridono e alzano le code dei tight per farle penzolare come lingue nere dalle aperture negli schienali dei banchi, e il sudore si addensa in bolle sui grossi colli arrossati. Le loro mogli sottili si inclinano l’una sull’altra, come steli di piante, scrutandosi vestiti e scarpe a vicenda. Ripiegano in due il foglietto con le preghiere e lo sventolano nel calore immobile e strano della chiesa. Una donna sfila addirittura i piedi dalle scarpe e li posa a terra, lasciando oltraggiose orme umide sull’antica pietra normanna.
«Cielo.» Nonna Esme alza un sopracciglio, osserva quei piedi con orrore divertito. «Non credo di aver mai visto tanto fondotinta a giugno. Vero, tesoro?» Mi stringe la mano. Gli anelli di smeraldi scavano nella carne delle mie dita. «Le amiche della sposa si scioglieranno, se non si spiccia.»
Papà è in fondo alla navata, la schiena diritta, i pugni stretti, più un soldato che affronta il plotone di esecuzione che uno sposo. L’unghia di Toby continua a grattare il bordo del banco, scratch scratch scratch, i suoi sentimenti scorrono lì dentro, tormentano la vernice scura come se fosse la crosta di una ferita. Barney tiene il braccio attorno alla sua gamba. A differenza di Kitty, lui si ricorda ancora bene il funerale della mamma, abbastanza perché questo momento gli appaia identico: gli abbracci invadenti degli estranei; i fiori; gli squittii dei cardini corrosi dalla salsedine quando il portone si apre.
A quel gemito tutti si voltano, si sporgono a guardare la sposa, sorridono, si fanno aria, sussurrano. L’organista comincia a pestare una musica. Papà s’irrigidisce nel vestito, si tira il lobo dell’orecchio sinistro. La parola «Bello!» vibra di banco in banco dietro le mani a coppa e sotto le tese dei cappelli.
Ed è così. È talmente bello che mi manca il fiato.
I capelli lucidi indietro, la mano della madre al braccio, Lucian risale lentamente la navata, gli occhi di giaietto freddo diritti davanti a sé, il volto immobile, indecifrabile. È più alto e grande di come lo ricordo a Pasqua. A ogni passo che lo avvicina a me il mio corpo s’irrigidisce. Non so come farò a sopportarlo quando passerà a pochi centimetri alla mia sinistra. L’impulso di protendermi a toccarlo è quasi irrefrenabile. Voglio che mi veda un’ultima volta, la ragazza che ha baciato, non una sorellastra che dovrà sopportare. Ma Lucian non guarda me, non guarda nessuno, esita solo un momento per incoraggiare Kitty che avanza timida strascicando i piedi dietro di loro, una minuscola piuma di tulle bianco e rosa, stringendo il bouquet da damigella al petto come una bambola, gli occhi che mi cercano tra la folla.
Un sorrisetto trionfante s’incide duro nel gesso pallido del volto della mia nuova matrigna. Il mento aguzzo punta in su e c’è qualcosa di studiato e regale nel suo incedere, come se l’avesse provato e riprovato. L’abito – lungo, color crema, disseminato di perline – ondeggia avanti e indietro mentre le gambe sforbiciano di sotto. Non guarda nessuno di noi. Forse non osa: è sicura che Toby probabilmente esploderà, anche se non sa quando o come. Meglio non sfidarlo.
Ma lei non sa che Toby mi ha promesso niente scenate, per amore di Kitty e Barney. Sono così fiera di lui per questo autocontrollo, sapendo quanto è contro la sua natura. Durante la cerimonia chiude gli occhi, li strizza, le mani serrate a pugno, e li dischiude solo nel silenzio teso che attanaglia la chiesa quando l’anello non entra. Ci scambiamo uno sguardo pieno di orrore e speranza – per favore, fa’ che non le vada bene! – e guardiamo esterrefatti papà che si china di nuovo, le orecchie rosse pulsanti. Spinge. Niente. Il sorriso di Caroline è gelato, gli occhi scattano terrorizzati, quel maledetto dito teso nel silenzio sudato.
«Oh, cielo» sussurra la nonna dietro il foglietto. «Dev’essersi gonfiato con questo caldo terribile.»
Ma papà dà all’anello un’ultima spinta più forte e disperata. L’anello scivola al suo posto, sigillando il nostro destino in una stretta fascia d’oro bianco.
Saluto Peggy dal finestrino mentre una colonna di auto si riversa lungo il viale dalla chiesa diretta a Black Rabbit Hall. Le campane suonano in lontananza. Ma la sua espressione non cambia. Non credo che mi abbia visto.
È sull’ultimo gradino, accanto ad Annie, le labbra strette in un sorriso fisso, con una nuova uniforme addosso: un abito nero che la fa grassa e un grembiulino bianco con le ruche, la cuffietta ancorata sopra una crocchia ispida di capelli scuri.
Abbasso il finestrino, di colpo desidero disperatamente essere connessa con lei, con tutto ciò che è buono, caldo, solido, che sa di pane. Allora lei mi vede. Il suo sorriso si fa sincero, pieno di denti, e guarda rapida in su, mi suggerisce di osservare il cielo.
Nubi scure avanzano verso Black Rabbit Hall, ombre sui boschi, sui prati, finché in un attimo sono sopra di noi e liberano il loro carico. La pioggia! Una pioggia selvaggia che schizza quando colpisce la ghiaia, schiaccia i fiori nelle aiuole, costringe gli ospiti a guaire e a sollevare le gonne; i loro piedi spruzzano acqua correndo dalle auto alla casa.
Io e Toby ci perdiamo nel caos. L’ingresso è una calca di gambe bagnate, cappelli gocciolanti e donne che si picchiettano agitate i ruscelletti scuri di trucco che colano dagli occhi. Boris – zuppo e puzzolente – ficca il naso nelle loro gonne. Big Bertie confonde tutti battendo l’ora sbagliata, forte, folle, e poi continua a suonare come se un ingranaggio si fosse incastrato, finché un uomo gonfio in tight non gli dà una botta.
Peggy e il suo esercito di cameriere – graziose figlie di pescatori, ripulite ma ancora vagamente odorose di sgombro, chiuse in uniformi bianche e nere della taglia sbagliata – guizzano tra la folla cercando disperatamente di non rovesciare i vassoi di champagne mentre vengono urtate e spinte sul pavimento scivoloso e gli amici maschi di Caroline fanno passar le mani sui loro sederi e sorridono con bocche affollate di denti gialli.
A me interessa una persona sola.
Lucian è accanto alla madre, come da protocollo, guarda la folla, guarda nella folla, fingendo di essere altrove: qualcosa mi dice che avverte il mio sguardo, ma non lo incrocia. Una donna in rosa è china sulla scarpa di seta bianca di Caroline, e gli preme il fondoschiena sulla coscia, impegnata a grattar via lo schizzo di fango con un fazzoletto, mentre la sposa sibila: «Perché accidenti piove? Le previsioni davano bel tempo…». E scruta con rabbia il cielo livido di Cornovaglia, come se lo stesse facendo apposta: e potrebbe anche essere.
La pioggia continua a calare come un lenzuolo, creando, come osserva Nonna Esme con un minuscolo sorriso, «un gran scompiglio nei piani minuziosi della povera Caroline». Niente ricevimento sul prato, niente foto dinastica di nozze incorniciata negli infiniti acri della proprietà, niente invidiabile spettacolo di ortensie. Gli ospiti invece sono in trappola dietro le finestre tremanti di Black Rabbit Hall, e guardano esterrefatti il vento che strappa via le tende bianche e rosa, che stacca i picchetti dal suolo, le bandierine dagli alberi, e sbuffa una torre di tovaglioli bianchi sui rami alti, dove restano ad agitarsi come barriere di resa.
«Una totale devastazione!» Toby arriva da dietro, gli occhi lustri. «Massacro, carneficina!»
«Forse esiste un Dio dopotutto» sussurro, e sbuffiamo tutti e due di un riso senza gioia, e per la prima volta nell’intera giornata non siamo proprio del tutto depressi.
Peggy ci passa accanto affaccendata – sudata, viola, come se stesse per esplodere. La nonna la prende da parte e le sussurra all’orecchio qualcosa che la costringe a mettersi la mano sulla bocca e a diventare ancora più paonazza. Subito la sua truppa di ragazze locali compare armata di secchi che ficcano sotto i nastri d’acqua che piovono dal soffitto (il soffitto che papà aveva promesso di far riparare prima delle nozze, ma ovviamente non è successo). Gli amici di Caroline stanno a guardare orripilati e affascinati, borbottando che Caroline ha «una bella impresa da affrontare», come se fosse lei quella che regge i secchi invece di dare ordini a Peggy con un sorriso rigido prima di sparire di sopra per cambiarsi.
Le infiltrazioni sono terribili nella sala da ballo: Caroline era stata avvertita, ma si è rifiutata di accettare l’idea che potesse addirittura piovere il giorno delle sue nozze. Il pavimento non ha ancora ceduto sotto il peso di tutta la gente, ma Peggy è convinta che potrebbe succedere, e la prospettiva ha risollevato il nostro umore. Per il momento dobbiamo accontentarci di guardare una goccia rimbalzare sul coperchio nero del pianoforte a coda e un pezzo di fregio sbriciolarsi, portando con sé la speranza che frammenti più grossi di intonaco cadano giù ad abbattere questi squallidi ospiti.
Nonna Esme si annoia così tanto che potrebbe anche essere addormentata: ha gli occhi semichiusi sopra la terrina intatta di carne rosea del viso. Kitty le si arrampica sulle ginocchia, sopraffatta e sfinita, e affonda nel suo petto floreale e morbido come il suo divano a Chelsea. Se potessi stendermici sopra anch’io lo farei di corsa.
Lucian continua a rifiutarsi di guardare di qua, cosa che me lo fa desiderare e odiare al tempo stesso, ma lo sguardo di Toby è fisso su di me – e me sola – per quasi tutto il pranzo, come se fossi l’unica cosa che gli impedisce di strappare la tovaglia o di correre sul tavolo scaraventando salmone in faccia alla gente.
Se solo lo facesse. Mi dispiace di avergli chiesto di comportarsi bene.
Dopo un’eternità il pranzo è finito e gli ospiti, incerti, ridenti, rovesciando vino dai bicchieri, passano in salotto, dove le candele strinano sciarpe fluttuanti e accendono dal basso i volti troppo dipinti delle donne. Si alzano voci, a contrastare la jazz-band che sembra più rumorosa e stonata a ogni brano.
Estranei toccano i busti di pietra e i dipinti, lasciando impronte unte sul volto del bisbisnonno. Tirano le corde dei campanelli per chiamare la servitù, soffiano nel corno da caccia, fanno girare troppo forte il mappamondo, ciondolano sui mobili spinti ai margini della stanza, si dondolano in preda a risa sguaiate. La musica cambia, diventa più alta, più veloce, più confusa: è come se fossimo stati invasi da una carica di cavalli da giostra ubriachi.
Io sto in punta di piedi nelle mie scarpe di seta, mi sporgo sopra i riccioli oscillanti, le calvizie sudate e le orecchie fuori misura cercando di individuare i miei fratelli, mia sorella o Lucian, un volto familiare qualunque. Ma non ci riesco. Gli amici di Caroline cominciano a ballare, si danno un gran daffare, fanno cose ridicole con le mani, rendendo impossibile la fuga verso la porta. Mi prendono per le braccia, cercano di far ballare anche me. Pance gonfie, indurite dallo champagne e dai gas, mi premono contro quando cerco di passare.
Alla fine rinuncio e mi appiattisco contro la parete, aspettando che il pezzo finisca. Un uomo coi baffi schiumosi di champagne si avvicina tutto storto e alcolico e mi chiede se mi piace la mia nuova «vecchia matrigna orrendamente ricca» e poi ride della propria battuta. Una donna in miniabito bianco gli dà uno spintone – «Lascia stare le bimbe in culla, bestione di un Bradley!» – poi si presenta come Jibby e strascicando tremendamente le parole mi dice che quel «bel bocconscino del tuo nuovo fratellino Lushian» ha spezzato il cuore alla sua povera nipote Belinda: magari posso parlarci io, e dirgli di andare a trovare quella povera ragazza?
La spilla con il pavone! Il sollievo di ritrovare Nonna Esme è enorme, quasi quanto sentire che Lucian ha spezzato il cuore a Belinda. Scoppio quasi a piangere. Quella Jibby si scusa e si allontana barcollando nella folla coi suoi stivali d’argento al ginocchio.
«Oh, tesoro. Sei sfinita» dice la nonna, prendendomi le mani. Nemmeno lei ha l’aria di stare granché bene, sembra più vecchia di come la vedo io nella mia testa.
«Dove sono gli altri, nonna? Li ho persi.»
«L’ultima volta che li ho visti, Kitty e Barney stavano spazzolando una ciotola di nocciole zuccherate nell’ingresso. Non so che cos’abbia in mente Toby. Ma tutto sommato si è comportato benissimo, non trovi? Lasciamolo stare per ora, poverino.»
Quasi chiedo anche di Lucian, ma poi ci ripenso: non vorrei che la mia espressione mi tradisse.
«Perché non scappi, tesoro?» mi sussurra. «Sono tutti troppo alticci per accorgersene.»
Ma in quel momento papà torna nella sala, braccato da Caroline e dal suo tozzo amico, che gli passa il braccio attorno al collo e gli urla all’orecchio, facendolo indietreggiare. Chissà se la nonna ci vede abbastanza da accorgersi del suo disagio, eccessivo per un uomo in casa propria, chissà se nota come si ritrae sia dall’uomo che da Caroline, la quale reagisce avvicinandosi ancora di più, tesa e ansiosa, e si sfiora le gemme che le scintillano tra i capelli. «A papà non dispiacerà? Non dobbiamo restare tutti qui per salutarli quando partono per la luna di miele?»
«Lascialo a me, tuo papà.» La nonna mi stringe le mani. «Direi che se non fosse per te ci sarebbe stata una scena molto più vivace a un certo punto di questa lunghissima giornata. Hai fatto abbastanza.»
«Non ho fatto niente» dico, e lo penso davvero.
«Hai fatto tutto. Prendono esempio da te, Amber. Sei stata stoica, e così loro. Tu li rendi forti.» La nonna sorride tra le lacrime. «Nancy sarebbe così fiera di te.»
«Grazie, nonna.» È la prima volta oggi che qualcuno nomina la mamma.
«Ma guardati…» Tira su col naso, mi sistema il fiocco in vita. «Ti comporti in modo così dignitoso, a differenza di tante donne qui. E sei proprio bella con questo vestito.»
Sorrido e non so se crederle. È stata la segretaria di papà a comprarmi il vestito rosa madreperla da Harrods. Io non l’avrei scelto. Avrei preferito qualcosa di corto e asciutto, a righe bianche e nere, con una bella fibbia e la cintura, di Biba o Mary Quant o come quelli che porta la sorella di Matilda, ma questo ha il corpino stretto e la gonna ampia sorretta da due strati di sottogonne, e mi ricorda le foto della mamma a New York negli anni Cinquanta. «È un po’ fuori moda.»
«Ma è lì che sta il suo fascino. Su di te è perfetto. Non mi stupisco che tu attiri l’attenzione di questi bruti maleducati. Sei la bella del ballo, tesoro.» Alza un sopracciglio, guarda Caroline. «Francamente mi stupisco che Caroline non ti abbia fatto vestire di tela di sacco.»
«Non si è accorta di me. Credo che non abbia nemmeno notato che ci sono.»
«Sì che ti ha notato, tesoro mio. Stanne certa.»
«Non la sopporto, nonna» dico, e lo sento con forza. «Non ce la faccio.»
In quel momento Caroline ci guarda, forse capisce che stiamo parlando di lei, e le s’induriscono gli occhi.
La nonna la saluta allegramente e mi parla con un angolo della bocca. «Sospetto che la nuova Mrs Alton sia una di quelle donne che hanno bisogno di essere adorate prima di diventare adorabili, mia cara Amber. Sta a noi innescare il processo, anche se ci costa fatica.»
«Be’, non ci riesco. E secondo me nemmeno papà la ama.»
«In situazioni come questa, tesoro mio, dobbiamo tutti trovare il modo di andare d’accordo, anche se vuol dire soffocare le nostre opinioni in nome di un bene superiore.» Porta il bicchiere alle labbra, borbotta: «Santo cielo, temo che Caroline voglia onorarci della sua compagnia. Se vuoi filartela ti suggerisco di farlo subito e fingere di non esserti accorta delle sue intenzioni».
Scivolo lungo la parete e sguscio via dalla stanza. Trovo Barney e Kitty nell’ingresso, i pugni colmi di mandorle zuccherate. Devo spingerli su per le scale con le mani sui loro culetti. Dal pianerottolo guardo il mare ribollente di persone e mi riprometto di non scendere finché anche l’ultimo degli ospiti non se ne sarà andato.
Nella nursery, Kitty scoppia a piangere perché ha strappato il vestito da damigella e perché la cuffietta che porta Peggy non la fa sembrare Peggy. Barney confessa di aver bevuto mezzo bicchiere di champagne e di sentirsi un po’ strano e per favore posso portarlo a letto in braccio? Gli faccio bere tre bicchieri d’acqua e poi li sistemo tutti e due per la notte.
Mentre chiudo le tende, un applauso fervoroso si leva dal viale, poi si sente un tintinnio di lattine sulla ghiaia e un’auto che si allontana. Be’, almeno se n’è andata. E domani anche gli ospiti se ne saranno andati e la casa sarà di nuovo nostra, penso, cercando di rialzarmi. Devo dirlo a Toby. Devo trovarlo, accertarmi che stia bene.
Toby non è nella sua stanza. La finestra è spalancata e c’è una pozza nera in mezzo al pavimento – la luna scintilla al centro come un occhio di vetro – dove è entrata la pioggia. Mi sporgo per controllare che non si stia calando sulla parete d’edera. Lo fa sempre quando vuole evitare qualcuno.
«Amber.»
Non riesco a muovermi. Il mio stomaco fa un salto.
«Tutto bene?»
Lentamente mi volto a fronteggiare Lucian. La stanza all’improvviso è fastidiosamente piccola e carica di tensione, piena di cose che non possiamo dire, il reciproco imbarazzo è come elettricità. Non so dove guardare.
«Sto… cercando di trovare Toby» balbetto. Ho la bocca secca, il cuore mi batte così veloce che probabilmente lui lo vede pulsare sotto la seta dell’abito. «È sparito.»
«Non posso biasimarlo se ha tagliato la corda.» Lucian attraversa la stanza, chiude la finestra. Si è tolto la giacca del tight e vedo la linea delle scapole sotto la camicia. «Gli amici di mia madre sono noiosi da sobri e bestiali dopo che hanno bevuto, temo.»
«Non me n’ero accorta.»
Ride, e tra noi si accende una scintilla di intesa. La musica arriva fin qui, insieme agli alti e ai bassi delle voci. Sembra un mondo separato, una distanza invalicabile. La sua mano fa per scostare la frangia che non c’è, perché i capelli sono pettinati indietro e rendono il suo bel viso più aperto e stranamente vulnerabile. «Posso aiutarti a cercare Toby?»
Non so perché ma ho la sensazione che stia chiedendo qualcos’altro, quindi annuisco; so solo che potrebbe chiedermi qualunque cosa e riuscirei solo a rispondere di sì.
Mi tiene aperta la porta della stanza. «Dopo di te.»
Le sottogonne frusciano contro la sua gamba come lenzuoli. Sento quello strappo nel profondo. Lo stesso strappo disperato che ho provato quando mi ha baciato in fondo al viale. Come posso provare una cosa del genere per un fratellastro? Come è possibile che sia giusto?
Potrà anche non essere giusto. Però lo è. Ed è così che resterà, mi dico con decisione, un bocciolo, un fiore mai schiuso.
«Di sopra?» chiede, scoccandomi un’occhiata.
Arrossisco e annuisco invece di suggerire di cominciare da fuori, dov’è più probabile che si trovi Toby: non m’importa più di cosa sta facendo mio fratello.
Sul pianerottolo più in alto cancello un disco di vapore dal vetro della finestra e guardo nella notte.
«Vedi qualcosa?» mi chiede.
«Non molto.» La pioggia è cessata. La festa si sta spostando all’aperto, una frotta di lanterne sfreccia come lucciole sui prati. Ma è troppo buio per vedere al di là del limitare del bosco, nero e gocciolante, dove senza dubbio Toby è rannicchiato nella sua casa sull’albero – questa settimana ci ha già dormito due volte, per poi tornare all’alba a sonnecchiare in fondo al mio letto come un cane, sporco, umido, con dei rametti nei capelli e strane luci negli occhi al risveglio.
Lucian fa scivolare la pesante chiusura e apre la finestra, alzando il pannello. C’è un odore metallico di pioggia sopra piombo. «Senti qualcosa?» chiede.
«Voci nel giardino, credo. Rimbalzano sul tetto. Le cose arrivano distorte quassù.»
«Sul serio? Siamo sul tetto?» Sporge la testa nella notte, curioso. «Si può uscire?»
«Tipo» dico, esitante. Non mi è mai piaciuta questa parte del tetto. Papà qualche volta ci viene per cercare di riparare le cose, per controllare i camini, che non ci siano nidi, ma la mamma ci ha proibito anche solo di avvicinarci. Ha sempre avuto il terrore che Barney trovi la strada fin quassù e cada.
«Oh, andiamo. Non sono mai stato su un tetto.» Mi porge una mano, sorride. «Prometto che non salto se non salti tu.»
Prendo la sua mano, i palmi si trasmettono una scossa sfiorandosi.
La fioca luce del pianerottolo oltrepassa i vetri piombati solo di poco, abbastanza perché riusciamo a vedere i bassi, tozzi parapetti. Avanziamo cauti. Il vento mi risucchia il vestito contro le gambe. Il cielo è limpido, trapunto di stelle. E mi sento viva, più viva che mai, come se stessi per esplodere dalla mia stessa pelle.
La gamba di Lucian è a tanto così dalla mia.
«Ho fatto quello che potevo per convincere la mamma a non sposarsi» dice piano.
Lo osservo attraverso i capelli che mi svolazzano aggrovigliati davanti agli occhi. Siamo più vicini, ora, anche se non mi sono accorta che ci siamo mossi. L’imbarazzo tra noi nella stanza di Toby è diventato qualcos’altro.
«Purtroppo la mia opinione non le interessa mai granché.»
Mi dispiace un po’ per lui. La mamma mi faceva sempre sentire importante, ascoltata.
«Non si scelgono i genitori, no?»
«No. No.» Ho avuto una fortuna eccezionale ad avere mia madre tra tutti i milioni di potenziali madri del mondo, me ne rendo conto con stupore. L’ho persa. Però l’ho anche avuta. Non ci avevo mai pensato.
«La mamma vuole che io sia il re del mondo, e sciocchezze del genere.»
«Papà voleva che Toby fosse il re del mondo, una volta. Ora non sono certa che osi sperarlo.»
«Ah, Toby, il Sire del Caos» dice Lucian, non senza gentilezza. Lo fa suonare come un complimento.
«E tuo padre?» chiedo, resa audace dall’ora tarda, dalla stranezza di essere sul tetto in una notte così tesa. Quassù pare che possiamo farci qualunque domanda, chiederci quello che vogliamo, ma quando saremo di nuovo dentro e di sotto, tutte le vecchie regole torneranno prepotenti e riprenderemo a parlare del tempo e a chiederci per favore mi passi la gelatina di more e a fingere di essere fratello e sorella. E poi mi pare che a Lucian piacciano le domande brutali.
«Papà? Era una brava persona.» Tace per un attimo, e quando parla ha la voce incrinata. «Mi manca ancora. Sono passati anni. È sciocco, no?»
Scuoto la testa, temo che se parlo anche a me si spezzerà la voce, o peggio, mi metterò a piangere. E detesto quando la gente piange per me, come se quello che è successo a me fosse successo anche agli altri, cosa che non è vera.
«Aveva settantatré anni» dice, come se cercasse di ricordarlo a se stesso. «Quindi gli è andata bene.» Tace per un attimo. «A tua mamma no.»
«Quarant’anni sono tanti.»
«Non sono abbastanza.»
«No. Però è stata felice, veramente felice. Tutte le volte che penso a mia madre la penso che sorride. Aveva una fessura tra i denti. Ci passava un fiammifero.» Parlare di lei non è una fatica come al solito. Torna stranamente in vita mentre la racconto a Lucian. «Non so se è meglio morire felici, o se è peggio perché si perde di più.»
Ci riflette. «Credo che sia meglio.»
«Era anche bella» dico, senza riuscire a reprimere l’orgoglio.
«Lo so. Ho visto il suo ritratto nell’ingresso.»
Comincio a sorridere per questa notte folle. Sento il bordo della sua scarpa contro la mia.
«Tu le assomigli tanto» sussurra, così piano che non sono sicura che l’abbia detto.
Restiamo lì, sferzati dal vento e dai sentimenti, mentre i pipistrelli volteggiano attorno alla balaustra.
La band attacca una nuova canzone. Il vento porta in alto qualche nota, ne inghiotte altre. Anche dentro il mio corpo succedono cose, suona una strana musica tutta sua.
«Senti, mi spiace per quel bacio. Se avessi saputo che si sposavano…» Le sue parole si smarriscono in un vapore d’imbarazzo. «Ma non dobbiamo lasciare che… rovini questa… nostra amicizia.»
Un colpo forte, come di pistola, spacca il cielo. Sussulto, stringo i denti. Un altro. Più forte. Lo sento in tutte le cellule del corpo. Lo avverto. Lo vedo. Sangue schizzato sul pavimento della stalla. Materia cerebrale. Un teschio squarciato in una scatola di velluto nero. Chiudo gli occhi, li serro, ho la nausea, mi sento debole, quella sera terribile che mi si lancia addosso.
«Amber, che cos’hai?»
«Niente» mormoro, e cerco di non fare una scenata, mi preparo al prossimo colpo, che è forte, più forte. Vedo le dita che rimbalzano per il rinculo. Chiudo gli occhi ancora di più.
«Non c’è niente da aver paura. Sono i fuochi d’artificio. Fidati. Guarda.»
Così mi fido e guardo.
Corde di lucine come quelle per saltare che si contorcono nel cielo, ancora e ancora, prima di sciogliersi in un ruscello argenteo. Bang. Bang. Bang. Ho un sussulto tutte le volte ma il braccio di Lucian mi stringe le spalle e lo rende sopportabile. Mi avvicino a lui, il mio corpo ricorda con esattezza la forma del suo, il suo odore, e tutte queste percezioni rendono insignificanti quel terribile senso di sbagliato e le ragioni, le regole per cui non devo amarlo. Non c’è nessun altro con cui preferirei essere qui sul tetto. Nessun altro con cui mi sento così me stessa. Sottovoce, parlandoci all’orecchio, ci meravigliamo dei pipistrelli, che un uomo possa presto mettere piede su quella luna bianca tutta a bolle, di essere in cima a un tetto, alti sul mondo. Dopo un po’ i fuochi si attenuano, più applausi che colpi di fucile, e lo spazio tra noi si chiude – gli ultimi pollici – e sono baci e baci come se potessimo entrare uno nella pelle dell’altra mentre il cielo si frantuma d’oro nelle fessure tra le mie ciglia. Le sue labbra scivolano sul mio collo. Sussurrano il mio nome, ancora e ancora.