Diciannove
LORNA
L’ufficio di Dill è una stanzetta con le pareti di mattoni, nel vano sotto le scale che portano alla cantina. Dill borbotta le sue scuse, è una sistemazione temporanea, dice, e non è l’ideale, era il posto dove appendevano i fagiani – ci sono ganci di metallo sui muri – e le dispiace se puzza un po’, e aggiunge che se il telefono fa strani rumori bisogna sbatacchiare con forza il ricevitore. Ma Lorna non la ascolta. Jon le vuole parlare, è urgente. È preoccupata. «Jon.»
Dill chiude piano la porta. Un’ape grossa come un topo compare dal nulla e comincia a scagliarsi contro la finestra a piccoli pannelli in speranzosi ispidi tonfi.
«Stavo per riagganciare.» La voce di Jon è soffocata, remota, come se chiamasse da un altro pianeta. «Sono qui per salvarti.»
«Non fare lo stupido.» Lei ride, prudente.
«Potevi chiamarmi.» Non riesce a nascondere il dolore nella voce. A Londra di solito si sentono due o tre volte al giorno. «Non sapevo se stavi bene.»
«Ho cercato di telefonarti. La linea è tremenda qui, lo sai. Ma sto bene. Perché non dovrei?»
Passa un istante. Lei se lo figura che si infila la manona tra i capelli dorati. «È solo che sto in pensiero per te.»
«Non sono una bambina» replica lei, un po’ irritata, seduta in punta sulla sedia girevole, cercando di trovare spazio per i gomiti tra le cianfrusaglie ammucchiate sulla scrivania: conti – non pagati, in rosso – che scivolano fuori da un raccoglitore; un vecchio PC beige; un numero di «Country Life» macchiato di tè. «Sarebbe questa l’emergenza?»
«No. Lorna, ascolta, ho fatto qualche indagine sulla tua Black Rabbit Hall.»
Non le piace la cosa. È quasi come se l’avesse fatta seguire. «Perché?»
«C’era qualcosa che non andava. Che non mi tornava.»
«Non capisco.» Lorna cerca di aprire la finestra per far uscire l’ape, ma è incastrata. Così tira la tenda per confinare l’insetto finché non finisce la telefonata. La stanza si fa più buia.
«Non c’è modo di addolcire la pillola, temo. Lorna, non hanno il permesso per i matrimoni.»
È come se la temperatura precipitasse di colpo. «Io… non capisco.»
«Non possiamo sposarci a Black Rabbit Hall. Il proprietario non ha l’autorizzazione per affittare la casa come sede di nozze. Niente assicurazione. Nulla di nulla.»
«Ma possono procurarsela, l’autorizzazione? Sarà solo una formalità.» Maledice l’attenzione ai dettagli di Jon, il suo rispetto per quelle regole che chiedono solo di essere infrante.
«Non credo. L’ispettorato d’igiene, la sicurezza, le norme antincendio… manca tutto, tesoro. E quindi che chiedano una caparra in contanti mi puzza.»
È come se lo sentisse, un odore metallico, di monete. Vagamente insanguinato. Si morde la punta del dito, si chiede che fare. Il suo sogno finisce qui?
«Mi dispiace. Lo so che ti eri innamorata della casa.»
Lei si raddrizza sulla sedia, ha deciso. No, non è la fine. «Comunque ci sposiamo qui.»
«Non dirai sul serio.» Jon ride, è incredulo.
«Perché no? Andiamo. Che problema c’è? Chi è che si deve fare del male? L’ultima volta che ho visto un poliziotto è stato alla stazione di Paddington. Non ci sono vicini che si lamentino per il rumore o per le macchine parcheggiate.»
«Ma potrebbero far chiudere la casa come se fosse un… rave illegale. Lascia perdere.»
«No. Non posso, Jon. Non posso proprio.»
«Che cos’è che hai?» chiede lui piano.
Lei esita, poi gli dice la verità. «Questa casa mi è entrata dentro. Ce l’ho sottopelle.»
Lorna avverte il suo dissenso. La sua confusione. La distanza che si allarga tra loro, veloce, come un treno che si allontana dalla stazione.
«Okay, ascolta. Devi venir via. Oggi. Quel posto ti dà alla testa, tesoro.»
«Non dire sciocchezze. Sono appena arrivata.» Avvoltola stretto il filo del telefono attorno al dito. «E poi qui sto benissimo.» Non vorrebbe suonare così euforica, come se da tutta quella bellezza lui fosse escluso, ma in un certo senso è così. Chiude gli occhi per un attimo, cerca di riprendere le misure, di sentirsi vicina a lui, di dire la cosa giusta. Ma è come se fossero separati da anni, non da giorni. «Io non vado da nessuna parte.»
Lui tace per un attimo. «C’è qualcuno lì, un uomo, o c’è qualcosa che non mi dici?» Scherza, ma solo in parte.
«Un uomo? Qui? Tipo un giardiniere? Un bel maggiordomo giovane? Jon, ti prego.»
«Non so cosa pensare.» È più freddo, adesso. «Sei così… strana.»
«Grazie.» Detesta sentirsi privata del suo affetto, così si mette sulla difensiva. «È perché sono venuta? Perché ho osato partire per il fine settimana senza di te? Se credi che mi trasformi in una casalinga anni Cinquanta solo perché stiamo per sposarci, be’… allora dobbiamo parlare sul serio.»
«Non volevo che partissi perché era un invito strano, okay? Ed è così lontano. Non c’è nessuno per miglia e miglia.» Esita, la voce ha un altro timbro, più difficile da ignorare. «Sei vulnerabile, Lorna. Sei ancora in lutto, scombussolata.»
Scombussolata? Certo che no. E non si sente vulnerabile. Non si sente nemmeno in lutto. No, si sente viva, carica di energia per la prima volta da mesi, in un posto del tutto diverso. Ma non sa come spiegarlo a Jon senza sembrare ancora più strana di quanto lui già non la creda.
«Da quando abbiamo messo piede in quella casa le cose tra noi vanno, non so… storte. Quando ne parli hai quella febbre negli occhi.»
«Oh, per l’amor di Dio, piantala!» Spaventata dalla durezza della propria voce, cerca di farsi perdonare. «Scusa. Non volevo…» Invece voleva, almeno un po’. E le parole scivolano in un silenzio punitivo, spezzato solo dall’inutile battaglia dell’ape per sfuggire alla tenda. Per un attimo è come se dietro la stoffa ci fosse lei, che spinge contro qualcosa di spesso ed estraneo, qualcosa che non capisce.
«Sai che ti dico, Lorna? Non la pianto, proprio no. Sarebbe ora che fossi sincera con me – e con te stessa – sulla ragione per cui riesci a pensare e a parlare solo di quel vecchio rudere in Cornovaglia.»
«Mi piace.»
«È più complicato di così, vero? C’entra tua madre.»
Dà un colpetto al vassoio della posta impolverato, cerca di mandar giù il groppo che le si è indurito in gola. «Voglio scoprire come mai ci sono delle foto di me e mia mamma sul viale. Mi tormenta, okay?» Decide di non dirgli che vuole anche disperatamente scoprire che cos’è successo ai bambini Alton alla fine dell’estate del ’69, soprattutto a quello che si chiamava Barney. «Lo so che sembra stupido.»
«Nient’affatto. È naturale cercare di rimettere insieme i pezzi di un puzzle dopo…» Tace, cerca le parole giuste. «Di dare un senso a una cosa insensata. Lo capisco, non pensare che non ne sia capace.»
«No invece» borbotta lei.
Lui la ignora. «Ma non è solo questo. Non c’entrano solo quelle foto, vero?» Il telefono è caldo e pesante nella sua mano, una pistola carica. «Non puoi continuare a correre, Lorna, a correre intorno al tuo passato invece di affrontarlo di petto, a fingere di cercare una cosa mentre in realtà stai tentando di disseppellirne un’altra.»
La sta trascinando in un posto in cui lei non vuole andare, la spinge nello spazio murato dentro la sua testa. È un po’ che cerca di portarcela: lei resiste, lui ci riprova. L’impulso di riappendere è quasi insopprimibile.
Jon sospira. «Lorna, mi sono sempre chiesto se dopo la morte di Sheila avresti deciso di cercare la tua madre naturale.»
L’ape in trappola sbuca da una fessura sotto la tenda e sale a spirale nell’aria, folle, come un aereo senza pilota. Lorna è rigida, le dita strette alla cornetta le fanno male, lotta contro la nausea crescente. «Non è questo» riesce a dire, un tremito nella voce. «Ce l’ho, il suo nome. Potrei trovarla, se volessi. Ma ho deciso di non farlo tanto tempo fa, lo sai.»
«No. Ha deciso Sheila. Ti ha fatto sentire in colpa anche solo per averci pensato, figuriamoci se ti lasciava fare delle domande. Era terrorizzata che un giorno tu decidessi di andare a cercare un’altra madre e respingessi lei. Per questo non riusciva a parlarne. Per questo non ti ha nemmeno mai detto che eri stata adottata prima che avessi nove anni. Non sopportava l’idea, vero?»
«È meglio se vado, Jon.» La sua voce è a stento un sussurro. Si sente inaspettatamente protettiva verso la madre, eppure riconosce la dolorosa verità nelle parole di lui.
«Lorna, ti prego. Possiamo cercare tua madre insieme. Sappiamo che era della Cornovaglia, che ti hanno adottata da Truro. Io voglio aiutarti. Per questo ho suggerito che facessimo un giro lì, quella volta, in macchina.»
«Me lo ricordo» riesce a dire lei.
«Per favore, facciamolo insieme. Ci saranno degli indizi. Magari è più facile di quanto non pensi.»
«Io non sto cercando quella donna. Io non voglio trovarla.» Non gli dice che non potrebbe mai rischiare di essere respinta una seconda volta: sa che pronunciare queste parole ad alta voce la farebbe piangere. Così dice, più enfatica: «Non ho mai voluto trovarla» e sente la propria decisione rafforzarsi.
«Non consapevolmente.»
Un respiro secco. Non ha la risposta pronta.
«Merda. Vorrei essere lì con te. Non sono cose che si dicono al telefono.»
Lorna sente dei passi fuori dalla porta, lievi, poi ancora più lievi quando si allontanano. Forse qualcuno ha ascoltato.
«Ma te lo devo dire… Dal giorno del funerale di tua madre, nel sonno hai chiamato il nome della tua madre naturale parecchie volte.»
Trasalisce, il gelo nello stomaco. «Perché… perché non me l’hai detto?»
«Aspettavo il momento giusto. Non è mai venuto. Mi dispiace.»
Le si riempiono gli occhi di lacrime. Batte le palpebre per ricacciarle indietro.
«Tu mi fai entrare ovunque ma non lì, vero?» A Jon si spezza la voce, e lei sta anche peggio, il suo passato affligge le persone che ama, scappa fuori nonostante i suoi tentativi di trattenerlo. «Sto sveglio tutta la notte a pensarci, a sentire la tua mancanza, a chiedermi perché ho lasciato che andasse avanti fino a questo punto. Tu ti porti dietro un sacco di divieti d’accesso, Lorna, lo sai? Non vuoi lasciarmi entrare. Ma io voglio una moglie che mi dica tutto.» La voce si incrina di nuovo. «Ti voglio tutta, o…»
«Niente?» Lei deglutisce.
«Non ho detto questo.»
Lorna ricorda all’improvviso un ex fidanzato – quello prima di Jon – che le diceva che lei metteva alla prova le relazioni fino a farle a pezzi per dimostrare che non valeva la pena di salvarle. Che si costruiva intorno delle pareti che rendevano impossibile una vera intimità. Quel legame è imploso poco dopo. E Jon qui sta cercando di dire la stessa cosa. Ma lei non può abbattere quelle barriere, nemmeno per lui. Non sa come si fa.
«Tesoro, ci sei?»
Lo perderà per questo. Nel profondo ne è certa: è quello che ha sempre temuto, di perdere il solo uomo che la fa sentire ancorata, al sicuro, amata. E se si teme qualcosa lo si immagina, e lo si riesce a riconoscere quando comincia a succedere. E comincia così.
«Di’ qualcosa.»
L’ape si posa sul suo ginocchio nudo, quasi priva di peso, un minuscolo solletico di vita. Lorna la guarda, quella bella creatura spaventata, e capisce che il momento è cruciale. Che è la cosa più importante. Che forse può ancora salvare il loro legame. Ma c’è qualcosa che le blocca la gola. Non escono le parole. E l’ape vola verso la finestra, si ricaccia in trappola da sola dietro la tenda.
Immersa nell’acqua torbida – la vasca è simile a uno stagno – Lorna trattiene il fiato fino a sentire male al torace. La aiuta a smettere di pensare a quell’orribile scambio con Jon, alla mancanza di contatto tra loro, come se qualcuno avesse tagliato i cavi. Una volta ricomposta, quando le mani avevano smesso di tremare, aveva cercato di richiamarlo invano. Dal telefono di Dill la chiamata andava direttamente alla segreteria telefonica. E si era sentita enormemente sollevata, che vergogna. Dopo l’insalata di granchio, a cena con Dill sulla terrazza – Mrs Alton non aveva appetito –, non aveva riprovato.
Una vocetta dentro la sua testa non può evitare di chiedersi se non sarebbe più facile tirarsi indietro adesso, far saltare tutto, che guardarsi dentro, col rischio di cercare le risposte a quelle domande dolorose che Jon sembra pretendere da lei. Se è l’inizio della fine, perché non chiudere subito?
Lorna schizza fuori dall’acqua, boccheggiando.
Preoccupata da pensieri sempre più oscuri, è davanti alla finestra della camera da letto, in pigiama, i capelli avvolti stretti in un asciugamano. Il buio privo di stelle preme contro il vetro irregolare. Non c’è il conforto della luna stanotte, nemmeno un puntino brillante di aereo, niente che possa dimostrare che non sia rinchiusa nella suite degli sposi di Black Rabbit Hall con la definitività di una sagoma sigillata in una di quelle bocce di neve che collezionava da piccola. Sente un vago sfrigolio di pioggia sul vetro. In uno sferragliare di anelli di tenda chiude fuori la notte e se stessa dentro col broccato pesante.
Le quattro colonne del letto incombono come tronchi anneriti. Si arrampica sulla coperta, cerca di sistemarsi contro la pila di cuscini che sanno di un detersivo non familiare, le vecchie lenzuola asciugate all’aria aperta dal vento salmastro. Chissà chi altri ha dormito in quel letto antico, chi è stato concepito sul materasso bitorzoluto, chi ha esalato l’ultimo respiro su quelle molle incerte prima che un lenzuolo bianco gli venisse posato sul viso. Lo vede con chiarezza. Il lenzuolo. Il volto. Dio, è così stanca.
Deve dormire. Se dorme, tutto sarà di nuovo affrontabile, tutti i pezzetti galleggianti del giorno trascorso torneranno insieme, come un film in slow-motion di una tazza che si fracassa a terra fatto scorrere all’indietro. Scosta la frangia di seta della lampada, la spegne e aspetta che il sonno la assalga. Non succede.
Invece il giorno le vola addosso come quell’ape agitata nell’ufficio di Dill: i nomi incisi nella corteccia; i volti spettrali dei bambini nell’album di famiglia; il cavo attorcigliato del telefono; la voce di Jon curiosamente estranea; quella conversazione così sbagliata, loro che non sembrano affatto loro, quelli che erano prima di venire a Black Rabbit Hall.
È allora che si chiede se Black Rabbit Hall, i preparativi del matrimonio, siano una prova segreta della compatibilità tra lei e Jon, che reca in sé il rischio del fallimento. Come quelle coppie che vanno insieme dallo psicologo nella speranza che aggiusti il loro legame solo per sentirsi confermare che non c’è più nulla da salvare.
E se Jon fosse troppo semplice per lei? Troppo carino? Troppo spensierato? Quando si sono conosciuti la preoccupava l’idea che la sua giovinezza allegra e priva di dubbi, la sua grande famiglia tranquilla lo allontanassero da lei. Che ben presto si sarebbe accorto di aver commesso un errore. Che fosse impossibile aggiustare un difetto emotivo imposto dal passato, e celarlo sarebbe stata solo insostenibile finzione. Aveva confidato i propri timori a Louise, che si era limitata a dire: «Non fare la deficiente». In effetti aveva ragione. Lei e Jon si amavano. Eppure. E se quel pensiero iniziale era intuizione, non paranoia? E se aveva avuto ragione lei fin da subito?
Lorna cerca di tranquillizzarsi con profondi respiri yoga. Ma a quanto pare non fanno che spingere ossigeno nel fuoco del cervello. È disorientata, priva di equilibrio. È così buio nella stanza che è come se tenesse gli occhi chiusi. Ci sono così tante sfumature di nero, dall’olio del kohl a qualcosa che è al di là del colore, un abisso nelle ombre sotto il buco della tenda. Il buio non è nemmeno immobile. Si agita, si gonfia, si contrae, è vivo. Mentre lei lo fissa, col cuore che le pulsa nelle orecchie, contempla i filmati tremolanti della propria infanzia: un cuore di pennarello disegnato sul dorso della mano delicata di Louise coi loro nomi dentro; la stessa mano, più grande, che regge con fare protettivo Alf appena nato, bello, appiccicoso di olio per neonati, lo shock della diagnosi della sua sindrome ancora a venire, fino al prossimo giro del medico; il certificato di adozione alla luce della torcia sotto il piumino di Barbie, le lettere che zampettano come formiche, il rumore di sua madre che riordina con forza l’armadio delle lenzuola in corridoio, aspettando che Lorna abbia finito con quel foglio per ricacciarlo nello scatolone in solaio e ricominciare a fingere che non esista.
Scatta a sedere. Ha fatto proprie le ansie di sua madre per l’adozione? Non ci aveva mai pensato. Ha imparato a vedere il proprio passato preLorna Dunaway – tra il primo battito del cuoricino e il momento in cui i suoi genitori adottivi l’hanno presa in braccio – come uno strato di ghiaccio sottile che scricchiola sulla superficie di acque pericolosamente profonde? Cammina piano, molto piano, meglio se stai ferma. La sua mente corre nel buio, i pensieri scattano alla cieca, come creature liberate da una gabbia, finché non le si chiudono gli occhi e sprofonda nel nero più fondo.
Alcune ore dopo una luce di un giallo malato riga il pavimento sotto le pieghe delle tende. Lorna è zuppa di sudore, l’anello di fidanzamento si è rigirato, il brillante preme contro il palmo. Si alza e va in bagno, poi torna a letto. Che cosa succede? Ha mangiato qualcosa di andato a male? Il granchio a cena? Quel vecchio sherry viscoso?
Trema sotto le coperte, caldo, freddo, caldo. Qualcuno picchia contro l’interno del suo cranio, cerca di uscire. O qualcosa. Dev’essere così, l’emicrania. Solo che a lei non viene mai. A lei non viene il mal di testa. È forte come un mulo – ottimi geni, ahah – e si ammala di rado, anzi, quasi mai.
La sola cosa da fare è chiudere gli occhi. Chiudere gli occhi e pregare di dormire.
Bussano alla porta. Lei la guarda strizzando gli occhi. L’alba gialla è svanita. La stanza è soffocante e una luce tagliente si riversa dalle fessure delle tende.
Una voce nuota verso di lei: «Tutto bene?».
Lorna cerca di non gemere. Un gemito – e una supplica di autocommiserazione, tè e qualcosa per il dolore, per favore – è il rumore che farebbe normalmente in una mattina così, solo che non può perché è ospite in casa d’altri e sua madre le ha insegnato che è maleducazione ammalarsi quando si è ospiti. Così dice debolmente: «Avanti». Il rumore della sua stessa voce s’infrange contro i timpani, nauseante.
«Oh, ma cosa succede?»
Lorna riesce a stento a mettere a fuoco quanto basta per distinguere il globo gigante di capelli crespi, un fiore d’aglio con la faccia.
«Ha un aspetto terribile.»
«La testa…» La sfiora con la mano. Si aspetta quasi di trovarla in qualche modo cambiata, allungata, schiacciata o fatta a pezzi. È umida e calda.
«È pallida, in effetti. No, non si alzi.»
Lorna non potrebbe nemmeno se ci provasse. «Sarà un virus. Preso in treno.»
«Oh, cielo. Cosa posso portarle?»
«Del paracetamolo, se ce l’ha.»
«Vediamo cosa trovo.»
Lorna si rimette distesa, ha la sensazione che non riuscirà ad alzarsi mai più, che il virus la mangerà viva. Le pulsazioni alla testa si intensificano. Sono come parole. Le parole di Jon. Domande a cui non ha intenzione di rispondere. Hanno anche un ritmo, un fruscio nauseante, un rumore di sangue arterioso, un fiume che rompe gli argini.
Dill finalmente ricompare. «Niente paracetamolo.»
Gli occhi di Lorna si riempiono di lacrime.
«Però Mrs Alton mi ha dato questi.» Dill mostra un’innocua scatoletta di cartone bianco. «Antidolorifici. Lei soffre di emicrania. Dice che sono miracolosi.»
Lorna farebbe qualunque cosa per fermare il maglio che le spacca la testa. Scuote piano la scatola: due pillole in un blister argentato cadono sul piumino. Cerca di leggere il retro della scatola – vede l’adesivo, sono medicinali preparati in farmacia, una prescrizione – ma le lettere si confondono. Non dovrebbe prenderle. È una follia prendere gli antidolorifici di un’altra persona, il genere di cosa che ti diffidano dal fare sul lato della scatola, se solo riuscisse a leggere.
«Le porto un bicchier d’acqua?» chiede Dill, gentile.
Lorna annuisce. Non chiede nulla della dose.
Che giorno è? Dove si trova? Lorna si aggrappa a una colonna del letto e si mette a sedere. Ha la testa annebbiata, la vista sfumata ai bordi, lo stomaco debole. Ci vuole qualche istante perché il giorno e la sera prima tornino a lei in un impasto incerto, i momenti si dissolvono quando li raggiunge, il magico sollievo dal dolore, dal sentire, dal senso del tempo. Però… no… non sarà stata così stupida da prendere le pillole prescritte a un’altra persona. Ma la scatola bianca vuota è a terra. Il letto è nel caos, come se avesse cercato di far trecce con le lenzuola. E la stanza ha un cattivo odore. Si alza barcollando dal groviglio di stoffa sudata, spalanca la finestra e inspira. L’edera umida di rugiada le sfiora il volto. Alghe. Lana. Bacon.
Bacon? Oh, no, è in ritardo per la colazione. Un giorno di ritardo. Cerca di scrivere un messaggio a Jon – «Non inviato» – e dopo qualche brutale schizzo gelido dalla doccia a telefono si veste in fretta, saltellando sul tappeto, un piede incastrato in una scarpa, e si passa le dita tra i capelli. Scende di corsa la scala stretta finché non arriva alla porta che conduce direttamente a un piano sul quale non vuole stare. Un’altra rampa in discesa. Due. Un altro passaggio. Sconcertante. Tre secchi di latta che accolgono il tintinnio delle gocce. In fondo alle scale si guarda intorno. Un cervo impagliato la scruta, vagamente sorpreso.
Dov’è la sala da pranzo? Non fa niente per palesarsi. Svolta in un lungo, squallido corridoio che non conosce, si precipita in una stanza piena di scope e spazzoloni tutti impettiti, in un’altra con i mobili coperti di teli bianchi e grumi di pallido intonaco del soffitto sparsi sul pavimento come sacchetti spaccati di zucchero a velo. Torna indietro, confusa, imprecando tra sé finché non vede le parole «Sala da Pranzo» brillare in sbiadite lettere dorate su una porta grigio scuro. Il sollievo ha vita breve. Sente il tintinnio delle posate. Accidenti. Hanno cominciato.
«Mi spiace, sono in ritardo…» La sua voce si perde. Non si aspettava che la sala da pranzo fosse così fastosa o così rossa o che il tavolo fosse così enorme. Mrs Alton riesce comunque a dominarlo, seduta diritta a un capo con il suo portamento perfetto, una forchettata di uova strapazzate immobile a mezz’aria. Petal, il terrier bisbetico, è seduto sulle sue ginocchia, una zampa infangata sulla tovaglia con l’orlo di pizzo, e occhieggia avido la forchetta. Le labbra di Mrs Alton vibrano, ma non dice nulla.
«Non è suonata la sveglia» mormora Lorna, ammesso che avesse potuto sentirla.
«Oh, certo che no. Non in questa casa.» Mrs Alton avvicina la forchetta alla bocca. «Sono contenta che stia meglio e che la suite degli sposi si sia dimostrata così adatta a un bel sonno profondo, Lorna» aggiunge, senza accennare al suo regalino, le pillole potentissime, i tranquillanti da cavalli, quello che erano. «Si sieda.»
Lorna prende posto in una selva di posateria complicata. Nel farlo le torna vivido il ricordo di qualcuno in piedi sulla soglia della camera. Doveva essere proprio agitata.
«Immagino che sia affamata.» Mrs Alton dà al cane un triangolo di pane tostato imburrato, ma intanto osserva con attenzione Lorna, lo sguardo è preciso, come se qualcosa da ieri avesse aguzzato il suo interesse.
«Be’, sì» dice lei, anche se non lo sa per certo. È come se ancora il suo corpo non le appartenesse. Vorrebbe poter non sentire quell’odore di cane.
C’è tantissimo pane tostato, in varie sfumature di cottura, in un portapane d’argento. Una ciotola piena di fragole e, se non sono le allucinazioni, formichine nere che ci si arrampicano sopra. Quattro vasetti di marmellate, alcuni qualche decennio più vecchi degli altri. Funghi che nuotano nel burro. Un orrido lembo di pudding nero. Le sue mani esitano sul tavolo mentre si chiede quando dichiarare di essere vegetariana, se l’etichetta le impone di servirsi e basta o se deve aspettare di essere autorizzata. Quasi si figura che una domestica in bianco e nero le si avvicini da dietro con una pinza d’argento.
Invece compare Dill, con una vecchia tuta blu e un’espressione di gioiosa sorpresa. «È qui!» trilla, come se si fosse aspettata una fuga notturna. «Come si sente?»
«Molto meglio» dice Lorna imbarazzata, sperando che Dill non l’abbia vista quando era al massimo dello smarrimento.
«Le verso il tè?» Dill lo fa colare attraverso un filtro d’argento in una bellissima tazza di porcellana col bordo dorato. «Bacon e uova? Sono di Betty. Le galline sono quasi tutte in menopausa, ma la nostra Betty Grable resiste, vero, Mrs Alton?»
«Già. La cara vecchia Betty.»
«Delizioso.» Lorna non sa bene se è in grado di affrontare un uovo ma non può fare a meno di pensare che sarebbe uno smacco personale rifiutarlo, visto che la gallina possiede un nome. «Ma niente bacon, prego.»
«Niente bacon?» Dill è sconcertata.
«Sono vegetariana. Be’, il pesce lo mangio.»
«Grazie al cielo.» Mrs Alton si preme il tovagliolo sulla bocca.
«Avrei dovuto dirlo prima. Scusate.»
«Nessun problema. Arrivano le uova» risponde Dill.
«Devo avvertirla, sarà tutto freddo, soprattutto le uova strapazzate» dice Mrs Alton ricomponendosi, e intanto copre la colazione di sale. «A meno che Endellion non arrivi di corsa dalla cucina, una forma di ginnastica alla quale non è incline.»
Dill sorride, non abbocca. «La cucina non è molto comoda, Lorna; è troppo lontana dalla sala da pranzo, ed è per questo che di solito stiamo nella cucina della torre est. Ma questa è una sala speciale e lei è un’ospite speciale. Abbiamo pensato che le sarebbe piaciuta.»
«È una stanza magnifica. Mi piacciono le pareti rosse.»
«All’inizio, quando sono arrivata, Lorna, ho cercato di usare questa sala da pranzo per tutti i pasti, ma alla fine mi ha sconfitto. Tutto quel cibo che arrivava tiepido.»
Lorna trova difficile immaginare Mrs Alton sconfitta da qualcosa.
«Pencraw è un cavallo selvaggio, Lorna.» Mrs Alton sospira. «Indomabile. Mi ci sono voluti anni per prenderne atto. Ero una nuova moglie così determinata.»
Un cavallo selvaggio? Espressione infelice, considerate le circostanze della morte della prima moglie. Lorna si chiede se è passato così tanto tempo che Mrs Alton non collega le due cose oppure, ipotesi più raggelante, se le collega eccome e le viene da dirlo comunque.
«Spero che la tappezzeria sbucciata non le tolga l’appetito.» Mrs Alton sorride. «È peggio di come la ricordavo.»
«Per me è come un palazzo.» Lorna prende una fetta di pane, imbarazzata sotto lo sguardo dell’anziana signora, che non la perde d’occhio. «Nel nostro appartamento non ci sta nemmeno un vero tavolo da pranzo.»
Mrs Alton tossisce addosso a un fungo. «Prego?»
«È troppo piccolo» spiega Lorna, che vorrebbe rimangiarsi tutto. «Ma speriamo di trasferirci presto in una casa più grande.»
«Per una giovane coppia direi che l’ideale è una casa di sei stanze, non di più» dice Mrs Alton, intenta a imburrare con generosità un altro triangolo di pane per il terrier. «Se è più grande rischia di diventare una fatica immane, a meno di non avere del personale. Endellion, Petal ha ancora fame.» Mrs Alton fa il solletico al cane sotto il mento. Un filo di bava cola dalla bocca di Petal fino al tavolo. «Uno dei suoi biscottini, per favore.»
«Arrivo.» Le espadrillas di Dill cigolano. Quando la porta si chiude sembra che l’ultima scheggia di normalità sia svanita. Lorna si sente in trappola nonostante la vastità della stanza. Una sensazione non dissimile da quella provata nella torre dopo aver chiuso le pesanti tende di broccato. Lo sguardo di Mrs Alton continua a penetrarla in diversi punti: le unghie, la base del collo. Non si è mai sentita così palesemente sotto osservazione e vorrebbe essersi pettinata.
Sbircia la finestra oltre la spalla di Mrs Alton. «Il prato è così verde e folto stamattina» dice.
«È sempre così dopo una notte di pioggia. Ovviamente il giorno delle sue nozze non pioverà.» Una smorfia. «Non come il mio.»
A questa menzione il cuore di Lorna accelera: la conversazione al telefono nello studio di Dill è qualcosa di duro sul suo stomaco, qualcosa di indigesto. Deve parlare adesso dei permessi che non ci sono? O non è di quello che si deve preoccupare?
«Il tempo in autunno di solito è buono. Il sole torna nel fine settimana in cui partono i turisti. La Natura ha un perfido senso dell’umorismo.» Mrs Alton la osserva freddamente sopra il bordo dorato della tazza. «Immagino che sia ancora decisa a trovare una data in autunno.»
Deve dirlo adesso. Per quello che ne sa, forse Mrs Alton non ha nemmeno capito che servono dei permessi. «Be’, prima ci sono un po’ di cose da sistemare. La licenza, sa. Jon non ne ha trovato traccia in Comune.»
Un silenzio minatorio. Un rossore rabbioso invade il collo magro di Mrs Alton.
«Le uova!» annuncia Dill, ignara; spinge la porta col sedere e le due uova bollite dondolano nei portauova. Posa il piatto, guarda Lorna, Mrs Alton e ritorno. «Tutto bene?»
«Lorna è convinta che non siamo in regola» dice Mrs Alton asciutta.
«Mi stavo solo chiedendo se la… licenza è a posto» balbetta Lorna. Meglio se avesse spedito una mail dopo essere tornata a Londra invece di cercare di risolvere la questione qui, proprio ora che si sente così fragile.
«Ah, sì.» Dill si schiarisce la voce, arrossisce. «Presto. Arriverà presto.»
«È un’altra delle cose che siamo riuscite a non fare, Endellion?»
«Mrs Alton, gliel’avevo spiegato che era un problema avere il via libera prima di fare le riparazioni e le modifiche necessarie…» comincia Dill, infilando le dita nella cintura di stoffa della tuta.
«Endellion, come devo dirlo? Non possiamo permetterci le riparazioni senza un’entrata. Prima il denaro. Come al solito, prendi la cosa per il verso sbagliato.»
«Ma non funziona così, Mrs Alton» risponde Dill con un tono che fa capire a Lorna che questa conversazione è già avvenuta molte volte.
«Sta a te farlo funzionare così.» Mrs Alton si alza, spingendo sui bulbi delle nocche artritiche. «Non so, regala a quell’ispettorucolo così difficile un po’ di legna, qualcosa. Un posto barca gratis per un anno. Almeno così chiuderà un occhio. Come si faceva una volta.»
«Le cose sono cambiate, Mrs Alton» protesta Dill.
Lorna fissa il rosso d’uovo più rosso che abbia mai visto, un sole dentro un guscio.
«Be’, pensa a qualcosa, Endellion!» abbaia Mrs Alton. «Il tempo sta per scadere. Io sto per scadere. E anche la mia pazienza.» Getta sul tavolo il tovagliolo, prende il bastone e comincia a ticchettare verso la porta; la percussione a due tempi del bastone e dei passi si allontana lungo il corridoio.
«Mi dispiace, Dill» mormora Lorna. «Non volevo creare problemi.»
«Sciocchezze. Non è niente.» La donna accarezza il cane, che la osserva afflitto.
«Non è vero che non è niente. Le ho complicato le cose.»
«Mrs Alton è solo molto stanca. Sul serio, ci sono abituata.»
«È la mia presenza qui, vero?»
Una brevissima pausa, poi Dill dice: «Certo che no. Oggi è molto agitata, tutto qui».
Lorna abbassa lo sguardo sul piatto. Non può restare. Ha ingarbugliato le cose a casa e adesso ha fatto lo stesso a Black Rabbit Hall. Non sa da che parte correre, sa solo che non può restare ferma. «Dill, prendo il treno del pomeriggio.»
«Ma poverina, ha passato tutto ieri a letto! Non ha nemmeno visto la baia. Deve restare un’altra notte.»
«Mi piacerebbe» risponde Lorna, ed è sincera. «Ma… non posso proprio. Non ora.»
«Non vada via.» Dill è affranta. «È così bello avere un po’ di compagnia una volta tanto.» Si abbandona sulla sedia accanto a Lorna, le riempie la tazza, si versa del tè. Bevono e le cose tornano normali. È come se l’esplosione di Mrs Alton avesse ripulito l’aria. O forse è che finalmente Lorna ha smaltito l’effetto delle pillole.
«Non se ne vada per via di quello che ha detto Mrs Alton, la prego, Lorna. Lei è fatta così. Ha avuto una vita difficile. Lo so che non sembra.»
«Be’, credo proprio che non mi piacerebbe stare in una casa così grande alla sua età.» O a qualunque età, pensa Lorna, e si chiede come mai Dill sia ancora lì. Beve un altro sorso di tè, si gode la sensazione del liquido caldo che scivola nella gola asciutta. «Non potrebbe traslocare in un posto… più semplice da riscaldare, magari?»
«L’ultima volta che gliel’ho suggerito mi ha tirato addosso uno stivale.» Dill mostra una piccola mezzaluna rosa sotto la mascella. «Non andrà mai via da Pencraw.»
Lorna si mette più diritta, sente che Dill si sta aprendo. È la sua occasione per ottenere qualche risposta. «Ma perché? Che cosa la trattiene qui, Dill?»
«Be’, è una lunga storia.»
«A me piacciono le lunghe storie.» Sorride, culla la tazza tra le mani. «Scommetto che lei è brava a raccontarle.»
L’adulazione fa il suo effetto. Dill, che non vedeva l’ora, s’illumina. «Mr e Mrs Alton si sono innamorati molto tempo fa, quando erano giovani» dice sottovoce, scrutando la porta. «Ma dopo che lui l’ha lasciata per Nancy…»
«No! L’ha lasciata per la sua prima moglie?»
A Dill brillano gli occhi. «Anni fa. Quando erano giovani. Le ha spezzato il cuore, sì, sì.»
«Un momento… ma Mrs Alton ha sposato un altro, vero?»
«Due settimane dopo. Mr Alfred Shawcross.»
«Due settimane?» Fa urtare la tazza sul piattino per la sorpresa. «Wow. Che capacità di ripresa.»
Dill guarda di nuovo la porta, più nervosa, e abbassa ancora la voce. «Mr Shawcross era ricco, molto ricco.»
«Ah. Una dolce vendetta.» Proprio come nei romanzetti storici che leggeva sua madre. Ottimo. Prende un pezzo di pane freddo, lo cosparge di marmellata di arance e addenta. Come mai il pane con la marmellata di arance è sempre più buono freddo?
«E qualche anno dopo, quando Mr Shawcross è morto – era vecchio, molto più vecchio di lei – è rimasta vedova e ricca.» Dill fa una pausa teatrale, lascia che Lorna riempia i vuoti.
«E quando è uscita di scena anche Nancy, ha potuto sposare il suo primo vero amore.»
«Portando con sé una piccola fortuna. È stato quel denaro a salvare Pencraw dalla vendita.»
«Quindi lui l’ha sposata per il denaro? Oh. Che triste.»
«Non credo che sia stato solo per quello.» Dill giocherella col tovagliolo, esita. Lorna ha l’impressione che muoia dalla voglia di parlare, che stia per esplodere, ma che le sia stato proibito. «Si dice che Mr Alton volesse una madre per i suoi figli. A quanto pare stavano diventando incontrollabili, dei selvaggi, dopo che è morta la sua Nancy, soprattutto il figlio maggiore che aveva preso molto male la cosa. Credo che abbia pensato che una nuova moglie avrebbe raddrizzato la rotta.»
«Ed è stato così?» chiede Lorna, dubbiosa. I volti nelle foto che ha visto suggeriscono tutt’altro.
Dill scuote la testa. «Credo che i bambini non l’abbiano mai accettata. Ma ha portato una certa sicurezza economica, e non è certo una cosa disprezzabile, no? Almeno sono riusciti a tenersi la casa.»
Lorna si guarda intorno, assorbe i soffitti alti, i fregi che si sbriciolano, gli olii scuri alle pareti. Tutto ha un prezzo.
«Dopo la morte di Nancy nessuno si era occupato della proprietà, e si dice che Mr Alton avesse fatto dei pessimi investimenti a Londra.» Si picchietta la tempia. «Non so se era del tutto in sé, comunque. Beveva troppo. È stata Mrs Alton a rimettere tutto in riga. Ma Mr Alton ormai è morto più di vent’anni fa. Tutto questo tempo qui in solitudine – non si è mai interessata ad altri uomini – a sborsare soldi su soldi. Non c’è da stupirsi se non resta nulla della sua fortuna.» Guarda ancora la porta, sussurra: «Anche se a volte mi chiedo se ne avesse meno di quanti non abbia lasciato credere».
Lorna si china in avanti, sente che la storia sta per essere riversata sul tavolo. «È ora che se ne occupino le nuove generazioni.»
«Petal!» Dill balza in piedi, come se venisse espulsa meccanicamente dalla sua sedia. «Petal, bruttissimo cane!»
Petal guarda imbarazzato la pozzanghera gialla sul pavimento.
«Tu e la tua vescica. Via.» Caccia il cane, arrabbiata, e le unghiette ticchettano sul pavimento. «Vai dalla mamma.»
«E il figlio maggiore di Nancy e di Mr Alton?» Lorna ritenta, maledicendo il cane per aver distratto Dill in un momento così delicato. «Sa, il gemello, l’erede…»
«Toby?» sussurra la donna, come se anche solo il nome fosse così fragile da rischiare di frantumarsi a pronunciarlo. «Toby non si vede da anni e anni.»
«Quindi è vivo? Da come ne parlava Mrs Alton avevo capito…»
Dill guarda altrove, si morde l’interno della guancia. «Non dovrei chiacchierare così. Mi scusi. Non so cosa mi è preso. È meglio se vado. Devo pulire la pipì del cane.»
«La aiuto io.» Lorna si alza e si guarda intorno. Qualunque cosa per prolungare la conversazione. Perché Toby non è qui? Dov’è Lucian?
«Non posso permetterglielo!»
«Che cosa posso usare?»
Dill le passa un tovagliolo, stordita, come se non riuscisse a credere alla domanda perché nessuno si è mai offerto di darle una mano.
Lorna asciuga in fretta, cercando di non respirare.
«È così gentile.»
Lorna lascia il tovagliolo zuppo sul pavimento. Basta così. «Dill, lei ha tanto da fare. Perché resta qui?» chiede, commossa dalla dedizione e dalla lealtà della donna. C’è qualcosa di così dolcemente antico in questo.
«Io? Oh, non saprei, sul serio. Non riuscirei a immaginarmi niente di diverso. Non ci sono tanti posti dove si può guadagnare bene qui attorno. Non con vitto e alloggio compresi.» Arrossisce, distoglie lo sguardo. «A dirla tutta, Lorna, non ho mai lavorato altrove.»
«No! Davvero? Si sognerà…»
«I doppi vetri.» Solleva lo sguardo con un sorriso timido, affettuoso. «Sogno i doppi vetri.»
Lorna ride. Sta per riportare la conversazione verso i bambini Alton quando Dill diventa solenne.
«Lorna, Mrs Alton è malata. È questione di settimane, temo.»
La risata si spegne in un silenzio stupefatto. «No…» È così sorpresa che non sa cos’altro dire. Pensa al pallore estremo della padrona di casa, al senso di declino che le aleggia intorno, come un aroma di fiori recisi che avvizziscono. Il suo mal di testa è una sciocchezza, adesso. «Mi dispiace tanto.»
«Il tumore. Lei lo chiama Nancy.»
Sembrava impossibile, ma il mondo è arrivato fin lì, i messaggi di testo viaggiano veloci come proiettili sul dodicesimo gradino della scalinata. Lorna li fissa con crescente timore; la libertà di non essere reperibile è svanita.
Louise: Jon sta diventando matto! Cs succede?
Papà: Solo x sapere. Tutto bene? #; Come si stira non vapore?
Jon: Mi richiami?
Jon: Preoccupato.
Jon: Ti ha chiuso in cantina? Chiamo la polizia?
Lorna compone in fretta un messaggio per lui, gli scrive che ha appena letto i suoi e che non è stata bene ma di non preoccuparsi, che prende il treno del pomeriggio. Per qualche ragione però suona come una scusa, una cosa che potrebbe averle mandato uno degli ex tossici della sua vita preJon capaci di diffondere quel genere di insicurezza che la attirava come una falena verso la fiamma. Preme invio. Appena in tempo. Le tacche svaniscono, la finestra di comunicazione si chiude.
Mancano due ore alla partenza, si dice Lorna con una fitta al cuore. Con tutta la sua stravaganza e il sentore di tragedia sa che Black Rabbit Hall le mancherà, come ti mancano i luoghi che ti fanno riscrivere la tua mappa interiore, anche solo un po’, i luoghi che si prendono un pezzo di te e ti restituiscono in cambio qualcosa del loro spirito. La sensazione è resa più acuta dal fatto che il matrimonio a Black Rabbit Hall è improbabile. Anche il matrimonio in generale non è del tutto certo. È come se la porta del futuro fosse bloccata dal passato.
Lascia cadere il telefono nella borsa, sente una vaga sequenza di colpi, il rumore di un tappeto polveroso battuto con una scopa. Chissà se è Dill. Era così depressa quando Lorna le ha detto che avrebbe cercato di prendere il treno delle cinque, e da allora ha mantenuto un’educata distanza, chiudendo il flusso di storie e candore come si chiude un rubinetto. Anche Mrs Alton sembra offesa, è sparita nel ventre buio della torre est, lasciando Lorna a bere una tazza di caffè istantaneo nella veranda da sola col cane che fa la pipì contro il battiscopa. Questa volta lei non asciuga.
Come passare le ultime preziose ore? Quando scenderà dal treno a Paddington è certa che le sarà impossibile rievocare Black Rabbit Hall, anche solo credere alla sua esistenza. La vita di tutti i giorni avrà il sopravvento troppo in fretta.
La baia, certo. Non deve perdersela. Dill ha ragione.
Lorna si toglie le scarpe – una cosa infantile: vuole sentire Black Rabbit Hall tra le dita – e attraversa il prato fino al bosco, contenta di essere all’aperto nella calda aria estiva. Supera decisa l’albero con la corteccia incisa (si bacia la punta delle dita e le preme contro il nome di Barney), poi attraversa le lunghe erbe sfiorite sulle rive del fiume finché non trova un bel posticino all’ombra maculata di un albero. Getta nell’acqua un legnetto, lo osserva pensierosa oscillare sulla superficie verde luminosa, e ricorda che quando erano bambine Louise confondeva apposta i loro bastoncini quando gareggiavano sulla corrente, per farla vincere. Se l’era dimenticato. Si è dimenticata così tante cose preziose della sua infanzia. Il modo in cui l’erba alta s’incastra fra le dita dei piedi nudi e tira. Come Louise le stringeva la mano e la faceva dondolare dicendo che erano fate sorelle. Lorna non sapeva spiegare questa cosa allora e non sa farlo adesso, ma qui sembra acquisire un suo buffo senso. Getta un altro legnetto. Poi si rimette le scarpe e taglia per i campi lustrati dal sole, verso la scogliera.
Trova una traballante panchina bianca, un po’ troppo vicina al limitare sfaldato del dirupo. Preme i piedi nudi sulle lame sottili d’erba e si ripara gli occhi con la mano, ammirando la baia di sotto. È come un’illustrazione di un libro per bambini degli anni Cinquanta, a forma di lecca-lecca, annidata tra aguzze rocce grigie, intatta e selvaggia; lo stretto sentiero sassoso oppone resistenza a ogni facile accesso. Riesce a immaginare barche di contrabbandieri che scivolano sulla sabbia. Riesce a immaginare ogni genere di cose. Ha un’aria speciale, un sentore di cose successe. E anche, vagamente inquietante, il sentore di cose che forse stanno per succedere. Un po’ per questo, un po’ perché teme di perdere l’ultimo treno per Londra della giornata, non si attarda, si rimette le scarpe e si allontana in fretta. Ma l’impronta dei suoi piedi nudi sull’erba rimane sull’erba, un pezzetto di lei in attesa del suo ritorno.