Quattordici
AMBER
Fitzroy Square, aprile 1969
«Su, sorridete!» Barney arretra sul marciapiede, strizza gli occhi, tiene la macchina fotografica tutta storta. «E smettetela di battere le palpebre, va bene?»
Io e Matilda ci stringiamo, a braccetto, le teste piegate. I suoi capelli castani lisci e diritti si mescolano ai miei, rossi e ribelli.
«Fatto.» Barney si sfila la macchina di Matilda dal collo e risale di corsa i gradini fin dentro casa, tutto contento di averle dato una mano.
A Barney piace Matilda. A tutte le persone speciali piace Matilda. Le ragazze carine a scuola la prendono in giro perché è troppo grossa, troppo alta e porta gli occhiali. Matilda dice che non cerca altre amiche. Detto da chiunque altro suonerebbe come una scusa, ma detto da Matilda no. Lei non soffre come tutte noi. Non è bombardata di continuo dai sentimenti. E non ha dubbi su se stessa. Non l’ho mai vista arrossire, nascondersi quando fa la doccia o scusarsi quando non ha colpa. Matilda è così e basta. Non cambia per nessuno. Non sopporto di dirle addio.
«Dovresti venire con me, Amber» dice, prende la borsa con le cose per la notte dal gradino di pietra e se la mette in spalla per nascondere i messaggi che ci siamo scritte ieri sera dentro la tracolla. Comincia a scendere i gradini, si ferma. «Puoi ancora cambiare idea. Sono sicura che la mamma riuscirebbe ancora a trovarti un posto sul volo.»
Mi mordo il labbro per impedirmi di dire Andiamo! e precipitarmi giù dai gradini con lei nel sole sfavillante di primavera, lontano dall’anniversario della morte della mamma.
In Grecia per le vacanze di Pasqua. Matilda dice che diventeremo marroni come le scarpe che portiamo a scuola e mangeremo olive nere salate e nuoteremo in un mare che non ti sbuccia dal freddo. Ci saranno anche Fred e Annabel, cosa particolarmente eccitante perché Annabel ha mollato la scuola di perfezionamento in Svizzera per lavorare in una boutique di Kensington e fare sesso: dice che il sesso è come fumare, terribile la prima volta, ma se insisti comincia a piacerti, e poi non riesci più a immaginare di vivere senza.
«Amber. Vieni. Ti prego.»
«Non posso… sul serio.» Non che papà me lo impedirebbe: di recente è diventato così distratto che si può convincerlo a lasciarti fare qualunque cosa. Ma non vedo Toby da un trimestre. Mi manca tanto, anche le cose di lui che mi fanno arrabbiare, soprattutto quelle: come sa rendere intenso ogni istante. È difficile spiegare queste cose a Matilda, convinta com’è che suo fratello Fred sia irritante e da tenere alla larga, quindi non ci provo nemmeno.
Qualche giorno dopo che l’avevo trovato seduto sul mio letto nel buio, incandescente di rabbia con me perché mi ero «intrufolata nella stanza di Lucian per giocare all’infermiera», Toby è stato espulso e confinato in una nuova scuola in un angolo sperduto dell’Hertfordshire. Per dirla tutta, ha picchiato un famigerato bullo, che però è il figlio di un ministro, e gli ha fatto saltare un dente. Papà si è arrabbiato tantissimo – il padre del ragazzo è un socio fondatore del suo club di Londra – soprattutto perché Toby crescendo è diventato così diverso da lui: Toby col suo cervello brillante, d’argento vivo – «come un furetto in un sacco» aveva scritto uno dei suoi tutor –, col suo scarso rispetto per la scuola e il disprezzo per il rubgy, con il suo essere schiettamente, ostinatamente impossibile. La mamma trovava affascinanti tutti questi tratti (ma c’è da dire che allora erano meno marcati): «Il mondo non ha bisogno di un altro damerino vecchio stile» diceva sempre, e suggeriva a Toby di essere fedele a se stesso e trovare «quella piccola cosa preziosa che ti rende felice», quasi che si potesse setacciare la vita come si fa con la spiaggia, ficcandosi in tasca i ciottoli più luccicanti. Lei non ha mai voluto che Toby fosse diverso da quello che era.
«Ultima chiamata» dice Matilda, scuotendomi dai miei pensieri.
Sento il peso morto di Black Rabbit Hall sulle spalle. «Non è che non voglia.»
L’autista degli Hollywell è arrivato. Matilda mi spedisce baci dal lunotto, poi sparisce, portando con sé tutto il divertimento e la leggerezza dei quindici anni.
Il treno dà uno scossone e punta a ovest, prima lentamente, attraverso i mattoni fuligginosi di Paddington, poi prende velocità e le case si fanno più piccole, più basse e più pulite e i giardini si allungano e infine spariscono in una rapida sequenza di campi, verde, giallo, verde, la vista sincronizzata a tratti coi gusti delle caramelle – lime, limone, lime – che faccio scivolare nel palmo della mano. C’è dell’altro. La spinta e il richiamo di Black Rabbit Hall.
Toby – che è già là da una settimana perché la sua nuova scuola è finita prima della nostra – mi attira come un magnete. Ma c’è anche la carica opposta, la consapevolezza che questa nuova vacanza di Pasqua – è passato un anno, come ho fatto a sopravvivere? – spingerà la mamma ancora più nel passato, allargherà il buco tra noi e l’ultimo istante in cui ho sentito lo schiocco del suo stivale da equitazione sul pavimento della cucina. Qualcuno farà una foto di tutti noi e lei non ci sarà. Peggio, la casa e i giardini saranno gonfi di vita – rampicanti, scille, rugiada fumante sui prati la mattina – e lei amava tanto tutto questo. Detesterebbe perderselo. Il gusto della mamma per la primavera era uno dei gusti della primavera. Chissà se tutti i bambini amano le cose che rendono felici le loro madri. Se alla fine è tutto qui.
Alla mamma piacevano anche i treni, soprattutto i vagoni letto. Ma la strada di più. Prima che nascessimo tutti, lei e papà avevano attraversato l’America da una costa all’altra su una Cadillac verde; per questo le piaceva tanto andare in Cornovaglia in macchina. L’anno scorso di questo periodo siamo arrivati con la Rolls, ignorando ciò che sarebbe successo, papà al volante, la mamma che cantava a squarciagola, i sedili abbassati dietro, Barney e Kitty che si rotolavano nei sacchi a pelo, io con la testa in grembo a Toby, il libro che dondolava sopra di me, i finestrini spalancati in attesa della prima ondata di odore di mare.
Un anno dopo, tutto questo è sparito, tutti i dettagli insignificanti che non pensi ti mancheranno ma invece sì. Papà dice che sono abbastanza grande da cavarmela in treno coi piccoli senza Toby – «Direi che sarà molto più facile senza tuo fratello, come capita sempre, ultimamente» – e che non possiamo più permetterci di sprecare soldi in lussi come le auto con l’autista perché gli investimenti non vanno come dovrebbero.
A me non sembra poi così facile.
Tutte le volte che appoggio la testa al finestrino Kitty mi tira per la manica ed esige che tagli via le croste ai panini con formaggio e sottaceti di Nette o le legga qualcosa (La storia di Peter Coniglio, e poi daccapo), oppure Barney deve andare in bagno. Siccome non voglio lasciare Kitty da sola nel caso succeda qualcosa di terribile – Tata Meg lascia sempre il giornale nella nursery ed è pieno di cose terribili che succedono ai bambini per mano di estranei che sono tali e quali ai passeggeri fuori dal nostro scompartimento – dobbiamo metterci tutti in fila nel corridoio stretto, con Kitty che si lamenta, Barney che si strizza l’inguine, Boris che scodinzola. Praticamente in un attimo svuotiamo lo scompartimento.
Quando arriviamo in stazione, Barney, Kitty e Boris sono tutti addormentati. Io non ho dormito. Uliveti, ragazzi greci e bollenti vicoli bianchi, intrisi del profumo di gelsomino, mi hanno tenuta sveglia e all’erta sul rivestimento ruvido della poltrona. Mi hanno distratto dal terrore irrazionale che Toby possa morire prima del nostro arrivo.
«Sveglia! Ci siamo!» Li scuoto per le spalle.
Barney si mette seduto, si stropiccia gli occhi, ma non riesco a svegliare Kitty. Scendiamo con fatica dal treno sul marciapiede vuoto, lei abbandonata tra le mie braccia, la guancia umida appiccicata al mio collo, Barney che perde pezzi di bagaglio, Boris che abbaia. Il treno si allontana rombando e ci lascia soli sul binario. Solo una corsa in taxi e il fiume Fal ci separano da Toby.
«Amber.» Barney mi guarda strizzando gli occhi.
«Non ora, Barns.» Sudo per il peso morto di Kitty, non riesco a vedere il taxi, spero che Peggy non si sia dimenticata di prenotarlo.
«È che Kitty si sta facendo la pipì addosso.» Indica il dietro della gonna di Kitty, le gocce che colano sul marciapiede.
Il tassista si chiama Tel ed è grasso, così grasso che la macchina sta tutta inclinata a destra, però è simpatico. I tassisti della Cornovaglia sono tutti simpatici, ho scoperto, e a quanto pare hanno tutti un cugino secondo che ha lavorato a Black Rabbit Hall o conosce la famiglia di Peggy che è disseminata lungo la costa. «Questa Pasqua farà caldissimo.» Mi sorride nello specchietto, spenzolando il gomito fuori dal finestrino come un pezzo di carne. «Spero che abbiate portato i costumi.»
«Sì, grazie» rispondo educata, e intanto guardo fuori, sperando che non voglia parlare per tutta la strada fino a Black Rabbit Hall, o che non si lamenti dell’odore di pipì, che è forte, anche se sono riuscita a infilare delle mutande pulite a Kitty e a ficcare quelle bagnate in un sacchetto vuoto dei sandwich.
Ma Tel non dice niente, o perché sa della mamma e gli facciamo pena o perché l’odore è coperto da altri, come quello di Boris. Però abbassa il finestrino, che si blocca a metà. L’aria di mare entra a fiotti e ci sgombra la testa da Londra riempiendola di Black Rabbit Hall. Lentamente ci sentiamo più noi. Segnali familiari sfilano di corsa: sale da tè, case di riposo, pompe funebri, il traghetto King Harry che macina il fiume verde vetro su catene sferraglianti. Altre stradine contorte. Poi, finalmente, il cartello all’inizio del viale. Il cuore comincia a battermi più forte. Boris drizza le orecchie.
Black Rabbit Hall compare sulla collina, sfidandoci ancora una volta a dubitare della sua esistenza. Toby è seduto sui gradini, in attesa.
«Toby!» Balzo giù dal taxi, corro sulla ghiaia.
Ci stringiamo forte ed è come se tutti i pezzi sparpagliati – le parti di me che non si placano mai senza lui vicino – riprendessero il loro posto giusto. Ma noto subito la differenza. Non è solo che è più alto, più magro, il corpo indurito e affilato, come se avesse passato gli ultimi mesi a lottare a mani nude in una fossa. C’è anche dell’altro: un che di guardingo nei modi, come se si fosse dimenticato di come si fa a stare con qualcuno di cui si fida. Ci sono cose che scorrono dietro i suoi occhi punteggiati d’oro, cose che non riesco a leggere. Sto per chiedergli di che si tratta, che cos’ha fatto in questi giorni qui senza di noi, quando l’ultimo dei bagagli piomba sulla ghiaia, sbuffando polvere bionda.
«Ecco tutto» grida Tel, poi gira l’auto sul viale. Fa l’occhiolino a Toby. «Bella macchina.»
Seguo il lampo degli occhi di Toby fino allo scintillio blu libellula sotto i cespugli, il muso d’argento più da pallottola che da macchina.
«Wow. Di chi è, Toby?»
Il cipiglio contorto sul suo viso è la mia risposta. Elettrizzante.
Lucian fuma al limitare del bosco, come un morto che è tornato in vita come nulla fosse. Lo stomaco mi dà uno strappo. Non mi aspettavo di rivederlo, ecco perché per tutti questi mesi ero tranquilla ripensando a lui nel buio carico della mia stanza, un cuscino stretto fra le cosce, rivivendo la sensazione del suo stomaco liscio e duro sotto le punte delle mie dita, il tepore appiccicoso del suo sangue, il modo in cui quella notte d’inverno e neve nella sua stanza pulsava di calore e di stelle.
E poi eccolo qui. La sua macchina sportiva sul viale. Lui che fuma in giardino. È così improbabile, così inaspettato che riesco solo a fissarlo come una stupida. La sigaretta torna con rapidità stringente alla bocca nel momento in cui sbuffa il fumo. Si scosta la frangia – più lunga di come la ricordo, calata su un occhio –, calpesta il mozzicone, ne accende un’altra.
«Fumerà fino a diventar scemo.» Peggy compare alle mie spalle, facendomi trasalire. «Vai tu a dirgli che è l’ora del tè?»
Annuisco, ma non riesco a staccarmi dalla finestra della cucina. L’idea di avvicinarmi a Lucian – di parlargli – mi getta nel terrore. E se gli basta un’occhiata per capire?
«Avrà fame. È arrivato da Londra stamattina per vedere sua madre, che non era qui, ovviamente.» Peggy scuote la testa, fa un verso di disapprovazione, sottovoce. «Credo che non abbia nemmeno pranzato.»
«Quando arriva?» Sento già il tiptap raggelante dei tacchi di Caroline nel nostro ingresso.
«Stasera. Con tuo padre, credo. Da brava, Kitty. Usa la forchettina, non le dita. Non sei una selvaggia.» Tira su col naso, infastidita. «L’ho saputo solo ieri. Ho dovuto preparare tutto di corsa. E ovviamente, mai che ne vada una diritta, c’è un problema con le tubature nel bagno del primo piano.» Reprime un sorrisetto. «Adesso siediti, Amber» dice, e grazie al cielo si dimentica che dovevo andare a chiamare Lucian.
Mi incastro tra Barney e Kitty, col calore della stufa nella schiena.
«Sei tutta agitata oggi.» Peggy mi osserva con curiosità. «Una fetta di torta di frutta?» La porta si chiude con un tonfo. Alza lo sguardo. «Oh, Toby, eccoti. Mi stavo chiedendo dov’eri finito. Ma guardati. Tutto pelle e ossa. La mensa della nuova scuola è così tremenda? Non preoccuparti, ti do una bella fetta grande. No, non a te, Kitty. Non vorrai diventare un maialetto.»
Toby s’inserisce tra noi, fa danzare il piede sul pavimento, borbotta che domani dobbiamo andare in spiaggia, fare il primo bagno dell’anno. Peggy ci mette la torta nei piatti e chiacchiera rivolta a chi la ascolta. «Quella macchina: un regalo di compleanno!» Abbassa la voce, uno scintillio di pioggia negli occhi grigi. «Ma ci pensate? Non farti venire strane idee, Toby.»
«Improbabile» dice, e per la prima volta dal nostro ritorno ridiamo.
Sappiamo che è già tanto se riceviamo una bicicletta per il compleanno. In genere ci regalano cose che non desideriamo granché, una spilla d’oro passata da una prozia che non ricordiamo, le biglie di marmo scheggiato del nonno in una scatola d’avorio. Solo Zia Bay è nota per i suoi regali speciali, cose deliziosamente plasticose, che sanno di America, che spesso si possono anche mangiare.
«Possiamo fare un giro in macchina? Nella macchina di Lucian?» chiede Barney: è in punta di piedi e cerca di sbirciarla dalla finestra.
«Certo che no. Siediti.» Peggy si china su Kitty da dietro, avvolgendole le dita con fermezza attorno alla forchetta nel modo giusto. «Sembra una trappola mortale. Io non ci salirei nemmeno se mi pagassero.» Si asciuga la fronte col dorso della mano e mi guarda irritata, ricordandosi di quello che mi aveva chiesto qualche minuto fa. «Amber, vuoi per favore andare a chiamare Lucian per il tè? Ora sul serio. Subito.»
«Il tè» dico in tono piatto. Ho paura di incrociare il suo sguardo. Ma lo capisco che mi guarda da dietro le ciocche della frangia, timido. La timidezza è sorprendente.
«Mi spiace di essere arrivato così.» Fruga nella tasca del blazer nero – è tutto vestito di nero, come un brigante – prende un’altra sigaretta e la accende con uno di quegli accendini argentati dell’esercito; Toby ucciderebbe per averne uno così. «Tra un paio di giorni c’è la festa di compleanno della mia ragazza nel Devon. La mamma ha insistito che passassi prima a trovarla a Pencraw.» Fa un tiro. «Però non c’è.»
«Nel Devon?» La parola «ragazza» echeggia beffarda nella mia testa. È in questo orribile istante che mi rendo conto di non essermi cambiata: ho ancora addosso i vestiti del treno e probabilmente so di pipì di Kitty.
«Bigbury Grange.» La voce si abbassa e lui guarda a terra, come se desiderasse di non averlo detto.
«Oh.» Bigbury Grange è una delle dimore più belle del West Country, un edificio molto grande, di un bianco pasta di zucchero, di cui si è parlato molto qualche anno fa quando i Bracewell – «Miliardari freschi grazie ai surgelati» ha sbuffato papà – l’hanno comprata da certi vecchi amici dei miei, Lord e Lady Fraser, che navigavano in cattive acque e ormai potevano permettersi di scaldare solo il cottage portineria e di mangiare fagiani e miele grezzo preso dalle arnie. «Be’, il tè è pronto se vuoi» dico, cercando di nascondere la delusione, quindi mi volto per andare verso casa.
Lui getta la sigaretta ancora accesa e la calpesta. «Vengo con te.»
Risaliamo il pendio del prato, la sua mano che oscilla vicinissima alla mia. Lo guardo di sbieco e arrossisco furiosamente quando vedo che mi sta fissando.
Siamo alla terrazza quando dice, rapido, confuso, le parole affastellate: «Vuoivenireafareungirodomanimattina?».
«Io…» Guardo la casa, vedo Toby che ci osserva dalla finestra della cucina, un pallido punto di carne dove la fronte è premuta contro il vetro.
«È una Lotus Elan.» Gli brillano gli occhi. «Tettuccio apribile e tutto.»
«Ho detto che andavo in spiaggia con Toby» rispondo, forzando le parole controvoglia, come quando Matilda mi ha invitato in Grecia.
«Certo» dice lui in fretta, come se comunque non importasse, ed entriamo in un silenzio carico d’imbarazzo.
Domani arriva, piatto come una festa cancellata. Dalla finestra della mia stanza vedo Caroline, che è arrivata ieri sera tardi ma è già in piedi a passare in rassegna i fiori nelle bordure, una sciarpa lilla annodata sotto il mento, enormi occhiali da sole bianchi. Peggio, dopo colazione annuncia un «pranzo di Pasqua di famiglia», il mento alzato, gli occhi che mostrano troppo bianco, col tono di una dichiarazione di guerra. «All’una in punto in sala da pranzo» aggiunge, scoccando un sorriso trepidante a papà dall’altra parte della stanza, come se si aspettasse una lode per aver preso il controllo di una casa dove da che se ne ha memoria niente succede mai «in punto». «I ritardatari avranno meno uova di Pasqua.» Una risata acutissima.
Barney e Kitty non vogliono rischiare di scoprire che non scherza – non dopo il disastro della scorsa Pasqua – e così non fanno che correre tra Big Bertie e gli altri orologi della casa, cercando di capire l’ora giusta. Poi decidono con molto buonsenso che non c’è da fidarsi di nessuno e girano attorno alla meridiana sulla terrazza, aspettando impazienti che l’ombra strisci sulla sua faccia bronzea come un cipiglio, e lasciano che io e Toby andiamo in spiaggia da soli.
«Be’, io a pranzo non ci vengo se non ci sei tu» dico, mentre torniamo lungo il sentiero della scogliera, le borse pesanti di asciugamani insabbiati e costumi bagnati, attenti alle vipere che si annidano nell’erba alta, ridestate dal caldo sorprendente di primavera.
Camminando comincio a risentire le dita delle mani e dei piedi. Il mare – oggi di uno scintillante azzurro iceberg – è stato sopportabile solo per qualche secondo. Toby è rimasto dentro molto più di me, la pelle di un rosso bollente, il fiato mozzo per il freddo, come se si stesse godendo il dolore. Alla fine ho dovuto insistere perché uscisse, preoccupata che si irrigidisse e venisse portato via nell’oceano come un pezzo di legno alla deriva.
«Un pranzo di famiglia!» sbuffa Toby. «Da quando quella donna ridicola e il suo figlio viziato sono la nostra famiglia?»
Getto la pesante borsa da spiaggia di paglia sulla spalla, pensando che Lucian dovrebbe essere viziato ma in qualche modo non lo è. La sua gioia per l’auto sportiva sembrava sincera. «È tutto un po’ strano, vero?» dico in tono mite, sperando di placarlo.
«No che non è strano! E non è nemmeno un caso o una coincidenza, Amber. È questo il maledettissimo punto! L’invasione degli Shawcross sta andando esattamente secondo i piani. Caroline l’ha portata a compimento come una missione militare. Perché sarebbero qui un’altra volta, sennò?»
«Lo sai perché. Quello che ha detto papà.» Gli Shawcross dovevano andare con certi amici in Gloucestershire per Pasqua ma gli amici hanno cancellato all’ultimo, lasciando i loro ospiti a piedi. Così papà ha fatto «la cosa giusta» e li ha invitati qui, «visto che siamo andati così d’accordo a Natale.»
«Sono tutte balle, e lo sai.» Toby calcia una pietra oltre il bordo della scogliera, facendola rotolare nel nulla. Mi scocca uno sguardo sbieco. «In questi giorni ho lavorato a un piano alternativo. Da quando ho scoperto che venivano.»
«Un cosa?» chiedo. Non mi piace.
«È una sorpresa. Nel bosco.»
Mi piace ancora meno.
«Però non è ancora pronta.»
«Oh, Toby. Vieni a pranzo, oggi» provo, temendo un altro scontro tra lui e papà. Ora so che la mamma era il ponte tra le loro due personalità contrastanti. I lunghi trimestri di scuola non aiutano: papà a volte lo guarda come se non lo riconoscesse. «Per favore.»
«Smettila di voler mettere pace a tutti i costi. È incredibilmente noioso.»
Guardo altrove, arrabbiatissima perché non lo si può convincere a far nulla, nemmeno per il suo bene. È quasi come se vedesse le cose troppo chiare, troppo a fuoco, precise in modo spietato, come uno che guarda la pelle attraverso una lente d’ingrandimento e vede solo i suoi brutti bozzi e i peli. «Papà si arrabbierà molto se non vieni.»
«Be’, io sono molto arrabbiato perché ha invitato l’Anticristo per l’anniversario della morte della mamma. Tu no?» Scarta verso il limitare della scogliera e con mio orrore si rannicchia e balza giù appoggiandosi su un solo braccio: resta visibile solo la fiamma dei capelli rossi, più due pugni stretti all’erba alta abitata dai serpenti. Mi sporgo in avanti, cerco le sue mani. «To…»
Allenta la presa. Uno spaventoso franare di pietre, il rumore di qualcosa di pesante che cade. Una risata folle.
Sbircio incerta oltre il limitare. È su una cengia, appena sotto, una stretta striscia di roccia piatta come un letto da campo che sporge dalla scogliera. L’ho vista centinaia di volte dalla spiaggia senza mai pensare di calarmi. Ma le parti della proprietà che sembravano pericolose quando la mamma era viva ora lo sembrano di meno. Dopotutto, se si può morire anche solo cadendo da cavallo, allora ci si può anche arrampicare in cima a un albero.
«Prima le gambe, sorella! Non guardare giù!»
Esito, mi chiedo se posso giocarla a mio vantaggio. «Solo se vieni a pranzo.»
«Noiosa» dice lui, che vuol dire sì.
Allora devo farlo. Striscio all’indietro a quattro zampe, un piede penzola a mezz’aria.
«C’è un appiglio per il piede a sinistra. No, no, a sinistra, non a destra, scema! Ti tengo. Sul serio, ti tengo. Molla. Amber, devi lasciar andare l’erba. Spenzolarsi è la cosa più difficile. Credimi, l’ho fatto tante volte. Non puoi restare lì appesa. Fidati di me. Fidati e salta.»
«Argh.» Mi aggrappo a lui mentre atterro – il salto è di pochi piedi che sembrano molti di più – e barcolliamo tutti e due, pericolosamente. Mi accovaccio, mi pianto sulla lastra di pietra: mi pare la posizione più sicura. «A volte mi metti paura, Toby.»
«Perché? Ti prenderò sempre» dice semplicemente. E so che lo farà.
«Dev’essere così che si sentono i gabbiani.» La vista stordisce, è quasi troppo bella. Mi fa lacrimare gli occhi. «Come se fossimo seduti in cielo.»
«È così.» Sorride – uno dei suoi affascinanti sorrisi pazzi – e si toglie la camicia, scoprendo un petto di un abbacinante biancore invernale. Poi la fa roteare sopra la testa e la lancia giù con un ululato. Si protende temerario, la guarda calare volteggiando sulle rocce di sotto.
«Sei diventato matto, a star qui da solo» dico, sgrano gli occhi, e mi chiedo che cosa penseranno papà e Caroline quando entrerà in casa mezzo nudo.
Si ritrae, si stende, allunga le gambe, la testa greve sulle mie ginocchia, come se non dovesse chiedere nulla, perché io appartengo di nuovo a lui. La distanza che provavo prima si sta riducendo. Eppure mi sento ancora a disagio.
Restiamo così in silenzio per un po’. Un gabbiano grigio ci osserva guardingo dal suo nido di alghe in una fenditura non distante. Il vento prende forza. Mi si addormentano le gambe. Toby chiude gli occhi, le palpebre vibrano. Lo guardo respirare in fretta, respiri brevi, intensi, come se dentro stesse ancora correndo, e penso ai lividi ingialliti sulle braccia, alla sorpresa che mi aspetta nel bosco e a come quello schizzo di lentiggini feroci sui suoi zigomi è una sorta di avvertimento per i giorni a venire.