Undici
Il taxi svanisce tra gli alberi, lasciando Lorna sola sulla spiaggia di ciottoli che è il viale di Pencraw Hall, la borsa posata tra i piedi. È tutto tranquillo, di una tranquillità inquietante, a parte il vento e la risata dei gabbiani che sente ma non vede. I falchi gemelli all’ingresso hanno l’aria vigile in modo preoccupante, ma la villa sembra assonnata e vuota nel calore di fine estate, un edificio che siede paziente sul proprio processo di decadenza. Per la prima volta, Lorna prova una stretta di apprensione. Non è solo il fatto che la casa è isolata e che lei non ha la macchina – non le andava di affrontare quelle stradine tortuose da sola, quindi ha preso il treno da Paddington – e non potrebbe andarsene facilmente. È anche perché ha lasciato Londra su una nota così stonata, una nota che vibra tra lei e Jon da quando sono tornati da Black Rabbit Hall quasi tre settimane fa e che si è intensificata via via che si avvicinava il fine settimana del suo ritorno.
Jon è stato così taciturno e teso negli ultimi giorni, come se dentro di sé litigasse con qualcosa che riguarda la casa e che non ha ancora rivelato o non riesce a esprimere. Lei si è sentita fraintesa, giudicata con troppa durezza per essersi persa la festa dei ventisette anni della «sorellina» questo weekend. Non riesce a non chiedersi se Jon sia solo seccato perché è venuta senza di lui. Gli piace tenersela vicina. Lei lo ama per questo – la tendenza territoriale del maschio – ma questa stessa cosa le fa venir voglia di allontanarlo. Amare troppo qualcuno – ed essere riamata – la spaventa. La fa sentire allo scoperto. Così inizia a scalciare, giura di restare più indipendente possibile, con o senza la fede al dito. Di non essere mai una donna definita dal suo legame con un uomo.
Comunque non è una brutta cosa essere qui da sola, si dice con decisione. Sarà più facile esplorare la casa, indagare un po’, vedere se può trovare una spiegazione per quelle strane foto di lei e sua madre sul viale, foto che ha infilato con cautela tra le pagine del libro che ha con sé. Da sola può immergersi in Black Rabbit Hall. Ed è consapevole di farlo quando chiude gli occhi per un istante e si gode l’aria calda che le agita il vestito portando profumi deliziosi – alghe, caprifoglio, lanolina –, aromi capaci di accendere la memoria delle sue estati dell’infanzia, le passeggiate in campagna quando raccoglieva ciuffi sudici di lana di pecora dalle barriere di filo spinato e li nascondeva alla madre ficcandoli nella tasca dell’anorak.
L’urlo acuto di un gabbiano la spaventa. Si affretta a salire i gradini e suona il campanello. Ancora una volta. Usa il batacchio a forma di zampa di leone. Niente. Curioso. Ha chiamato un paio di giorni fa, ha parlato con Dill e confermato l’ora del suo arrivo. Che se ne sia dimenticata? Guarda l’orologio. Le due. Possibile che Dill e Mrs Alton siano ancora a pranzo da qualche parte? Sì, potrebbe essere. Saranno lì che punzecchiano il salmone affumicato adagiato su un piatto di inestimabile porcellana del servizio di famiglia, sorde al di là degli spessi muri di pietra. Lorna decide che la cosa migliore da fare è lasciare lì la borsa e fare un giro nel parco, e riprovare tra venti minuti, quando avranno finito di sicuro.
Il cancello di ferro battuto arricciato al limitare del bosco lascia una ruggine color sangue secco sulle sue dita, come se volesse imprimere la propria traccia su chiunque lo attraversi. Non è chiuso a chiave ma non si apre con agio; i rovi s’impigliano nei cardini. Lorna è ancora più decisa a varcarlo. Scosta i rami più ostinati senza graffiarsi troppo, poi calcia via il resto, maledicendosi per aver scelto un paio di ballerine con la suola sottile. Spinge più forte la spalla contro il metallo, si sente un crepitio un po’ preoccupante – non sa se sia il cancello o le sue ossa – e finalmente quello si apre. È passata.
Il sentiero stretto che taglia il bosco piega più volte allontanandosi dalla casa, così quando Lorna si gira, qualche minuto dopo, si accorge che la strada del ritorno non è più visibile. Gli alberi s’infittiscono, le infinite linee verticali dei tronchi complicano la prospettiva e lei non sa più bene quanto gli alberi siano distanti l’uno dall’altro. Da vicino sono enormi, contorti, curiosamente umani. Quel genere di alberi che Lorna sognava di scalare da bambina quando riusciva a sfuggire alle immacolate bordure di crisantemi della madre, dove era proibitissimo giocare a palla.
Acqua? Lorna si ferma. È certo il sussurro dell’acqua. Ricorda che Dill ha detto che dai boschi si arriva al fiume. Ma ha perso il senso dell’orientamento, a dire il vero non ne ha mai avuto granché. Le sue pupille si dilatano, si adattano alle ombre. Mentre segue il rumore le ortiche le frustano le gambe. Carcasse di alberi morti attraversano il sentiero, bruciate dai fulmini. Santo cielo. Si è persa, quasi, tipo. Ora rischia di essere l’ospite che è arrivata, si è messa a vagare nei boschi e ha bisogno di una squadra di ricerche che la recuperi entro l’ora di cena. Quando decide di tornare – un vago camminare a ritroso sembra una scelta ragionevole – scorge un brivido metallico tra i rami, come il baluginio di una stella filante. Il fiume! Dev’essere lui. Si avvicina saltellando, supera rami a balzi, con rinnovata energia, e arriva, senza fiato e spettinata, alla riva morbida e paludosa.
Si ferma lì, un sorriso strambo rivolto all’acqua increspata, poi si scosta i capelli dal collo e a bocca aperta risucchia tutto, l’odore fangoso salato, l’acqua luminescente intrecciata dalla marea, l’emozione di essere sola, presto sposa, ospite nientemeno che a Black Rabbit Hall. È come una droga che entra in circolo, e la invade la certezza di doversi trovate proprio lì su quella riva in quel particolare pomeriggio d’agosto: se anche la cosa ha provocato qualche screzio, ne è valsa la pena. Tutta agitata, si appoggia all’albero più vicino. La corteccia è ruvida e calda attraverso il cotone sottile dell’abito. Il suo sguardo percorre il tronco spesso fino alla chioma – un reticolo di foglie bagnate di sole – e poi giù. I segni sul legno catturano il suo sguardo. Solchi. Cicatrici. Lettere.
Il graffito è stato intagliato nella carne dell’albero con uno strumento affilato, stabilisce quando guarda più da vicino. Alcuni segni sono difficili da decifrare, i bordi confusi dalla crescita dell’albero, riempiti da fiocchi di licheni. Sono vecchi, impossibile dire quanto. Lorna si protende, passa le punte delle dita sopra le tracce. È sciocco, ovvio, ma non può fare a meno di pensare che quell’albero abbia aspettato a lungo la sua visita.
Strani simboli, croci, triangoli, onde… gli scarabocchi di una punta di lama sulla corteccia? Sì, certo, una lama, un coltellino. Oh, un coniglio! Un coniglio da fumetti con le orecchie lunghe e i dentoni buffi. Le sfugge un sorriso. E qui? T-O-B-Y. Toby? Sì, è chiaramente Toby. Chi è Toby? Riconosce la mano dietro il graffito, non un bambino, decide, pensando agli scarabocchi dei suoi alunni delle elementari, ma qualcuno più grande, un ragazzino, magari, che ha fatto delle buone scuole. Qualcosa in quelle lettere – l’evidente energia, la decisione del gesto che le ha incise – le fa battere il cuore. È come scoprire i resti di una tribù estinta.
Lorna ben presto decifra un altro gruppo di lettere. A-M… No, non riesce a vedere altro, il resto della parola è marcito nel legno. Ma guarda qui. Un’altra. Giù in basso, alla base di un ramo. K-I-T. Kit? Quindi c’era più di un bambino che viveva qui a un certo punto. L’erede e la riserva. Ha già sentito questa espressione. Ha una sua logica brutale.
Lorna si toglie una molletta dalla tasca, fissa i capelli nelle fauci del fermaglio, lontano dalle guance accaldate. Ed è allora che le lettere cominciano a balzare, ad agitarsi, a saltare, a correrle addosso come bambini piccoli. «Fratellino Barney» legge, con la punta del dito che affonda nella crepa più profonda. «R.I.P. 1963-1969.» Il nome di Toby è scarabocchiato appena sotto con la stessa mano. Quando le date acquistano un senso si porta la mano alla bocca. Oh, no. Quel povero piccolo aveva solo sei anni. Gli stessi dei bambini della sua classe, la I B. Gli stessi del suo nipotino Alf. Sensazioni che scorrono in rapida successione: tristezza perché conosce così bene i bambini di sei anni, i loro piedi irrequieti, i buchi rosa dei denti da latte, l’energia irrefrenabile; una comprensione dolorosa per la povera Mrs Alton, perché questo dev’essere certo suo figlio; e poi, a sorpresa, un senso di responsabilità per questo povero piccolo dimenticato, uno strappo simile a quello che prova quando scopre che un bambino della sua classe è vulnerabile o ha bisogno di essere salvato in qualche modo. Non è una di quelle maestre che fanno finta di non accorgersene, o che quando vanno a casa riescono a staccare la spina. Lei sta sveglia di notte a pensare a quei bambini. E penserà anche a questi.
Deglutisce. Questo graffito – sul punto di andare perduto, inghiottito dal tempo e dal muschio – è l’epitaffio di una vita penosamente breve, e quel «fratellino» lo rende ancora più toccante, più intenso di una scritta su una pomposa lapide di marmo.
È adesso che avverte il pulsare di un legame. Un’accelerazione. Perché trovare proprio questo albero – ce ne devono essere migliaia, quante probabilità aveva? E invece è successo. Qualcosa l’ha portata da questo bambino – e dal fratello grande che ha inciso con tanta dolcezza il suo nome – per invitarla a saperne di più sulla sua breve esistenza. Ne è certa. Può sposarsi allegramente a Black Rabbit Hall, ora, senza sapere che cosa gli è accaduto? No che non può. Deve colmare questo vuoto, dare un senso a tutto ciò come alle vecchie foto di lei e di sua madre lungo il viale. Le due cose non sono collegate, ma mentre è lì – le dita sulla corteccia ruvida, la luce maculata tra le foglie – cominciano ad agitarsi nello stesso spazio oscuro dentro la testa, a rincorrersi come fantasmi che hanno voglia di giocare.