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«CHUNG FU», LA VERITÀ INTERIORE
Verso la fine del diciassettesimo secolo alcuni gesuiti, di ritorno da Pechino, introdussero in Europa un trattato di divinazione considerato il più antico testo scritto in Cina e il fondamento della sua saggezza. In questo libro l’intero universo viene ricondotto alla combinazione di due princìpi complementari, lo yin e lo yang, che possono essere di volta in volta identificati con l’ombra e la luce, la femmina e il maschio, il riposo e il movimento, la terra e il cielo, il freddo e il caldo, ecc. Una tecnica semplice, tipo testa o croce, permette di creare un esagramma che indica l’esatta proporzione in cui questi due princìpi sono presenti nello stato del mondo nel momento in cui si consulta l’oracolo, e quindi di adeguarvi il proprio comportamento. In sessantaquattro esagrammi, non uno di più, non uno di meno, trova espressione l’infinita varietà della vita e delle situazioni che il suo fluire trasforma in ogni istante. Per questo motivo l’I Ching si chiama Il Libro dei Mutamenti. Non descrive degli stati fissi, ma le tendenze che li animano. Sa che ogni momento è un passaggio, che l’apogeo è l’inizio del declino e la sconfitta preannuncia la vittoria futura. A chi brancola nelle tenebre insegna che presto tornerà la luce, a chi esulta sotto il sole di mezzogiorno che sta già cominciando il crepuscolo, al saggio l’abile arte di lasciarsi portare dal corso delle cose come una barca vuota si abbandona alla corrente del fiume.
Nei due secoli che seguirono furono proposte diverse traduzioni dei testi sibillini, attribuiti a Confucio e ad altri autorevoli pensatori, che commentano ogni singolo esagramma. Queste traduzioni tuttavia rimasero confinate nella cerchia degli orientalisti fino al 1924, quando Richard Wilhelm, un pastore protestante tedesco appassionato di cultura cinese, ne propose una di eccezionale qualità, che fece aumentare di colpo l’attenzione per l’I Ching. Fra i suoi più fervidi adepti c’era Carl Gustav Jung, e fu proprio una delle sue allieve, Cary F. Baynes, a pubblicarne nel 1951 la versione americana.4 Negli anni Cinquanta l’opera conobbe un successo sotterraneo e fecondo, che nei due decenni seguenti si trasformò in vera e propria popolarità: John Cage la usò per trarne progressioni di accordi, alcuni fisici se ne servirono per determinare il comportamento delle particelle subatomiche e, a un livello inferiore, diventò di moda tra gli hippy, che sempre più spesso, dopo aver fumato un paio di canne, prendevano tre monete e, hop, le lanciavano sei volte di seguito sul kilim, per poi tentare di dare un senso a sentenze come: «Propizia è perseveranza. La cura della vacca reca salute». Oppure: «Devi liberarti del tuo alluce. Allora il compagno si avvicina, e di lui ti puoi fidare».
Dick fece parte, per così dire, della coda dell’avanguardia. Incuriosito da un articolo di Jung, scoprì il libro nel 1960 e non se ne separò più. Anche Anne fu iniziata a questo sapere. Ben presto tutta la casa si assoggettò all’ambigua legge dell’oracolo, interrogandolo a ogni piè sospinto e affidando al suo arbitrio anche le decisioni più prosaiche.
Esistono due modi di leggere l’I Ching: come un libro di saggezza e come una tecnica di divinazione. Se ne possono trarre insegnamenti generali su come accogliere la vita in ogni circostanza o cercare di ottenere risposte precise a domande precise, del tipo: «Mi basterà la benzina per arrivare alla prossima stazione di servizio?». Il primo approccio sembra più serio e sensato del secondo, e in ogni caso espone meno al rischio di delusioni. Purtroppo per lui, però, se c’era una cosa a cui Dick non era particolarmente incline, questa era proprio la saggezza. Tutti gli insegnamenti del taoismo, di cui l’I Ching costituisce il quadro di riferimento, sui benefici della duttilità, della pazienza e dell’accettazione e, più in generale, qualsiasi conoscenza della vita fondata sull’esperienza e sull’ascesi restavano per lui lettera morta. In questo era profondamente vicino all’esoterismo: convinto dell’esistenza di un segreto nascosto dietro il visibile, non pensava che la vita potesse a poco a poco insegnarlo, ma che spettasse all’intelletto scoprirlo con un atto di forza. Dalla cultura, dalla religione, dalla psicoanalisi non si aspettava di ricevere una formazione, ma che gli svelassero la parola d’ordine con la quale evadere dalla caverna in cui, stando a Platone, ci è concesso di vedere solo l’ombra del mondo reale.
All’epoca dei suoi esordi letterari aveva apprezzato il racconto di un collega, l’arguto Fredric Brown: gli scienziati del mondo intero collaborano alla costruzione di un gigantesco computer in cui inseriscono tutti i dati di cui si compone il sapere umano, con un programma capace di collegarli. Arriva il momento solenne in cui la macchina viene messa in moto. Con un brivido di emozione viene digitata sulla tastiera la prima domanda: «Esiste Dio?». La risposta non si fa attendere: «Sì, adesso esiste».
In un certo senso l’I Ching assomigliava a quel computer, e l’insieme dei sessantaquattro esagrammi a un programma in grado di comprendere – nei due sensi della parola – l’universo. Con la sua consueta saccenteria Dick spiegò ad Anne che in quelle combinazioni di linee continue e spezzate Leibniz aveva riconosciuto una prefigurazione del suo sistema fondato sull’uso esclusivo dello 0 e dell’1, che a sua volta prefigurava la pulsazione binaria dell’informatica moderna. Per uno che amava le domande capitali e che era sempre in cerca di istanze superiori a cui porle, quella scoperta aveva tutta l’aria di un regalo degli dèi.
L’I Ching gli aveva consigliato di affittare il capanno dello sceriffo per scrivere un libro con tutti i crismi o crepare. (Questa alternativa drammatica naturalmente veniva da lui: l’I Ching non avrebbe mai detto una cosa del genere; in caso di fallimento avrebbe soltanto suggerito che i tempi non erano maturi, che aveva affrettato le cose in maniera sconsiderata). Dopo averci portato tutto il suo armamentario, Phil mise sul tavolo, accanto alla macchina da scrivere, i due volumi neri dell’edizione Baynes e le tre monete cinesi forate di cui si serviva per comporre gli esagrammi. Poi si sedette e aspettò. Era consigliabile scacciare via tutti i pensieri prima di consultare l’oracolo, ma per lui scacciare via tutti i pensieri era un’impresa quasi impossibile. Immagini, idee su cui rimuginava continuamente galleggiavano alla superficie della sua coscienza. Lui intuiva che alcuni di questi relitti sarebbero entrati nel libro, ma sapeva anche che non doveva essere precipitoso. Era meglio lasciarli andare alla deriva, in balìa della corrente.
Al centro c’era l’immagine del gioiello. Una spilla o forse un ciondolo: qualcosa di compatto, che stava nel palmo di una mano. Non era un gioiello prezioso, ma quando ci si soffermava a guardarlo, a esaminarlo con attenzione, si avvertiva un cambiamento dentro di sé. La burrasca si placava. I contrasti sparivano, o meglio c’erano ancora, ma così perfettamente in equilibrio da non essere più percepiti come tali. Calma, chiarezza. Bisognava che quel gioiello fosse nel libro. Che il libro assomigliasse a quel gioiello.
Ma come poteva assomigliare a un gioiello un romanzo incentrato sul nazismo? Da mesi, infatti, ragionava su questo tema; aveva letto pile di libri sull’argomento, fra cui di recente quello di Hannah Arendt sul processo Eichmann a Gerusalemme, e sapeva che il giorno in cui si fosse messo a scrivere seriamente non avrebbe potuto parlare d’altro. Il nazismo: tutti gli uomini vissuti nella seconda metà del ventesimo secolo hanno dovuto farci i conti, convivere con l’idea che è esistito, proprio come lui doveva convivere con la morte di sua sorella Jane. Certo, era sempre possibile non pensarci, ma non cambiava il fatto che ci fosse stato, e che ci sarebbe dovuto essere anche nel suo libro.
È difficile immaginare qualcosa di più lontano dal Tao del nazismo. Eppure i giapponesi, che venerano il Tao, si erano alleati con i nazisti. Se avessero avuto la meglio... Per un momento lasciò che quell’idea gli attraversasse la mente. Era già stato scritto qualche libro del genere, ne aveva letto uno in cui il Sud aveva vinto la guerra di Secessione. Si chiese come sarebbe stato un mondo nato, quindici anni prima, dalla vittoria dell’Asse. Chi avrebbe governato il Reich? Sempre Hitler o uno dei suoi luogotenenti? Sarebbe cambiato qualcosa se il prescelto fosse stato Bormann, Himmler, Göring o Baldur von Schirach? Sarebbe cambiato qualcosa per lui, abitante di Point Reyes, nella Marin County? E cosa?
Faceva uno strano effetto immaginare non un futuro ipotetico, ma un altro passato. Più ci pensava, più quel passato e il presente che ne sarebbe derivato prendevano consistenza; avrebbero potuto esistere; anzi, in un certo senso esistevano: si servivano del suo cervello per esistere. Ma potevano esistere in migliaia di forme diverse, a seconda delle sue scelte. In ogni istante accadono o non accadono milioni di avvenimenti; in ogni istante numerose variabili si trasformano in dati di fatto, il virtuale diventa reale, e per questo in ogni istante il mondo presenta uno stato diverso. In scala ridotta, uno scrittore, qualunque cosa scriva, fa necessariamente un’operazione dello stesso tipo: visto che tutto può succedere, sta a lui decidere di far succedere una cosa piuttosto che un’altra.
Sentì che era arrivato il momento di chiedere consiglio all’I Ching. Ottenne l’esagramma 60: Chieh, la Delimitazione.
«Al di sopra del lago vi è l’acqua: l’immagine della delimitazione. Così il nobile istituisce numero e misura e indaga che cosa siano virtù e retto cammino».
Commento: «Il lago è qualcosa di finito; l’acqua è inesauribile. Il lago può contenere solo una certa misura dell’infinita quantità di acqua. In ciò consiste la sua peculiarità. Nella sfera umana separazioni e barriere contribuiscono a dare all’individuo il suo significato».
Sorprendente, si disse, come l’oracolo colga quasi sempre nel segno. I suoi detrattori obiettano che si tratta solo e sempre di consigli di buonsenso, abbastanza generali da potersi adattare a qualsiasi circostanza – pazienza, perseveranza, moderazione –, e in una certa misura è vero. È vero che di solito non ho bisogno del suo responso per sapere che un romanzo esige una cornice precisa; ma visto che me l’ha detto, e visto che mi stavo ponendo precisamente questo problema, ora l’importanza della cornice mi appare di colpo molto più chiara. Capisco, per esempio, che la prima cosa da fare è stabilire dei confini.
Dopo la schiacciante vittoria del 1947 – decise – le potenze dell’Asse si sono spartite il mondo. L’Europa, l’Africa e l’America orientale, fino alle Montagne Rocciose, sono toccate al Reich. Il cancelliere Martin Bormann continua la politica del suo predecessore, trasformando un’ampia percentuale della popolazione in saponette e il continente africano in... non si sa cosa, e in genere la gente preferisce evitare di pensarci. All’Asia, al Pacifico e all’America occidentale il Giappone ha imposto un giogo più umano. Niente campi di concentramento, meno terrore poliziesco. Gli americani hanno interiorizzato alla perfezione il codice sociale degli occupanti: come loro, temono più di ogni altra cosa di infrangere l’etichetta e di perdere la faccia; come loro, non prendono nessuna decisione senza aver prima interpellato l’I Ching. In ogni circostanza il californiano medio lancia le monete e osserva affascinato il formarsi dell’esagramma che, pur essendo frutto del caso, affonda comunque le radici nella struttura del mondo. L’alternanza delle linee continue e spezzate dà a ogni singolo individuo una chiave al tempo stesso particolare e universale per capire l’attuale stato delle cose: il posto che gli è riservato può essere stabilito solo insieme a quelli di tutti gli altri esseri viventi e vissuti, in relazione al cosmo intero.
Per illustrare tale interdipendenza, Phil decise di moltiplicare il numero dei protagonisti e dei punti di vista. All’inizio aveva solo dei nomi: Frank e Juliana Frink, Nobusuke Tagomi, Robert Childan, i coniugi Kasoura... Ma a lui bastava scrivere i loro nomi e, a loro nome, consultare l’I Ching perché quei fantasmi si animassero. Fra di loro emergevano dei collegamenti, a volte senza neanche bisogno che si conoscessero. Il signor Tagomi, alto funzionario giapponese in California, cerca un oggetto prezioso da regalare a un visitatore in arrivo dal Reich. A questo scopo si rivolge a Robert Childan, un americano DOC, proprietario di un negozio in cui si vendono antichità indigene: fumetti dell’anteguerra, orologi di Topolino, dischi di Glenn Miller, Colt 44 del periodo della Guerra Civile – tutte cianfrusaglie per cui le élite occupanti vanno pazze e di cui Childan garantisce l’autenticità. A torto: questi oggetti si rivelano per la maggior parte dei falsi fabbricati nell’officina clandestina in cui lavora Frank Frink. Licenziato a seguito di uno screzio con il suo principale, Frank tenta la fortuna nel campo della gioielleria. In precedenza è stato sposato con una certa Juliana, che all’inizio del romanzo insegna judo in una palestra del Colorado. Di quest’ultima Dick non sapeva bene cosa farne, ma non se ne preoccupava. Dalla periferia in cui si trovava, sarebbe sicuramente riuscita ad aprirsi un varco fino al cuore del libro: era convinto che sarebbe diventata una protagonista perfetta, e per il momento doveva solo lasciare che esistesse, che camminasse per strada o facesse la doccia. «Attendere fuori le mura» confermava l’esagramma 5. «Propizio è rimanere nel durevole. Nessuna macchia». Senza tanti giri di parole confessò a se stesso di aver inventato Juliana soprattutto per innamorarsi di lei.
Lavorava febbrilmente, nove o dieci ore al giorno. Aveva l’impressione che il libro esistesse già da qualche parte e che il suo lavoro consistesse semplicemente nel seguire le indicazioni dell’oracolo per portarlo alla luce. Quando un personaggio otteneva un esagramma che suggeriva una decisione opposta ai vaghi piani che aveva già formulato, Phil resisteva alla tentazione di riprovare fino a ottenere il verdetto che gli faceva più comodo: non interveniva, lasciava che le cose seguissero il loro corso; la storia si sviluppava da sé. La sera gli era sempre più difficile staccarsi dalla macchina da scrivere. Percorreva assorto nei suoi pensieri il sentiero che dal capanno, attraverso le recinzioni, portava alla grande casa bianca. Dall’interno arrivavano voci, musica e rumori di stoviglie. Strofinava a lungo gli scarponi militari infangati sul tappetino davanti alla porta. Ogni volta provava una sensazione di incredulità nel ritrovare quella donna a cui aveva promesso di dedicare il suo primo libro serio e che non riusciva a inserire nella storia: era come se il libro fosse disposto ad accogliere solo personaggi reali e lei non lo fosse abbastanza. Juliana aveva i capelli corvini; come gli era venuto in mente di sposare una bionda, così sgradevole per giunta! Anne non faceva altro che lagnarsi e imprecare tutto il giorno – come il pellegrino russo del racconto, che ripete incessantemente il nome di Gesù fino a incorporarlo nel suo stesso respiro, solo che nel suo caso le parole erano shit, fuck – e a lui sembrava di vederle uscire dei rospi dalla bocca. Dal canto suo, si mostrava conciliante, aiutava ad apparecchiare, giocava con le bambine e con l’ultima nata. Poi si chiudeva in bagno e prendeva le pillole necessarie al suo equilibrio mentale. A volte la sera, quando era sicuro di non trovarci nessuno, andava nel laboratorio di bigiotteria. Si sedeva al banco da lavoro. Le sue dita scorrevano sulle spille, le pinze, le cesoie, le levigatrici, quegli utensili minuscoli e precisi che avrebbe tanto voluto saper usare. Ma non s’intristiva: quella parte della sua vita era salva. Aveva trovato posto nel mondo del libro, dove Frank Frink aveva messo su un laboratorio dello stesso tipo. Lui però non fabbricava graziosi ninnoli come quelli che Phil aveva sotto gli occhi in quel momento. Senza che nessuno l’avesse coscientemente programmato, gli oggetti privi di valore storico, e forse anche estetico, che uscivano dal suo forno possedevano un valore immateriale molto più alto: erano in equilibrio, in pace, in perfetta armonia con il Tao; bastava contemplarli per entrare in contatto con il mondo reale, quello che si cela dietro le apparenze. Nel laboratorio di Anne non c’erano oggetti del genere, ma nel suo libro sì, ed era anche possibile che, in un certo senso, il libro stesso fosse uno di quegli oggetti: un’opera del tutto secondaria sul piano letterario, ma che, per qualche misteriosa ragione, dava accesso alla verità. Aveva, sempre di più, la sensazione che nel suo mondo, nel mondo di Anne, ci fosse qualcosa che non andava. Il libro sarebbe stato come un buco, uno strappo in questo fondale di cartapesta, che avrebbe permesso a chi fosse stato in grado di interpretarlo di passare dall’altra parte. Ma in pochi ci sarebbero riusciti. E di sicuro non Anne.
Per una di quelle coincidenze complicate e naturali favorite dalla struttura della storia, uno dei gioielli di Frank Frink finisce nelle mani del signor Tagomi, l’alto funzionario giapponese che, cercando un oggetto da regalare, provoca indirettamente l’arresto dell’artigiano: il tutto senza che nessuno dei due sappia niente dell’altro e senza che si siano mai incontrati. Anche il signor Tagomi ha le sue preoccupazioni. Per salvare una vita, ha dovuto sacrificarne due, comportamento difficile da accettare per un buddhista. La sua figura minuta in abito nero se ne sta prostrata su una panchina in un parco di San Francisco. Istintivamente l’uomo tira fuori dalla tasca il gioiello, lo tiene tra le mani per un po’, dopodiché si mette ad osservarlo. Il triangolo d’argento sembra catturare i raggi del sole.
Uscendo pensieroso dal parco, il signor Tagomi si stupisce di non vedere taxi a pedali. Poi, giunto sul molo, resta a bocca aperta: lungo la baia si snoda una gigantesca lingua di cemento. Sembra una specie di ottovolante mostruoso, su cui brulicano macchine di forme insolite. Sulle prime il signor Tagomi crede di sognare: passa di là tutti i giorni e non ha mai visto quella rampa avveniristica la cui costruzione avrebbe richiesto mesi, se non anni. Ma, per quanto continui a strizzare gli occhi, la visione aberrante non accenna a sparire. Sconvolto chiede ragguagli a un passante, e questi gli risponde che è la superstrada dell’Embarcadero. Ha un tono sorpreso e divertito insieme, come se stesse parlando con un povero deficiente. Quella mancanza di rispetto da parte di un bianco irrita il signor Tagomi. Sperando di riprendersi, entra in una tavola calda, ma nessuno dei bianchi seduti al bancone si alza per cedergli lo sgabello. Si sente sprofondare. Dove si trova? In quale incubo è finito? Il triangolo d’argento lo ha disorientato, strappato al suo mondo, al suo spazio e al suo tempo. Vaga, senza punti di riferimento, in una zona crepuscolare e minacciosa, di cui non saprebbe dire se ha un’esistenza oggettiva o se è la conseguenza di un suo malessere momentaneo: disturbo acuto dell’orecchio interno, sonnambulismo, allucinazione...
Poi ricompaiono i taxi a pedali, guidati da americani che trasportano passeggeri giapponesi. Il mondo consueto si ricompone. Probabilmente il signor Tagomi non si è assentato per più di dieci minuti. Ma per il resto della sua vita si chiederà dove ha passato quei dieci minuti e non oserà mai più guardare lo strano gioiello che gli ha aperto quella porta. Né sfogliare il famigerato e scandaloso romanzo di Hawthorne Abendsen La cavalletta non si alzerà più.
Questo Hawthorne Abendsen è uno scrittore di fantascienza e il suo libro, benché proibito dal Reich, circola più o meno liberamente nella zona controllata dai giapponesi, suscitando animate controversie. Descrive un mondo immaginario in cui gli Alleati hanno vinto la guerra nel 1945.
Dick fa in modo che quasi tutti i suoi personaggi vengano in contatto con il romanzo di Abendsen, come se stesse sottoponendo a un test le persone che gli sono vicine. Agli occhi di alcuni lettori quel libro appartiene a un sottogenere particolarmente assurdo e insulso, ancora più assurdo e insulso della tradizionale fantascienza ambientata nel futuro, perché se nessuno può sapere con assoluta certezza che una cosa non accadrà, chiunque potrebbe assicurare che non è accaduta, e allora che senso ha immaginarla? Altri invece ne sono profondamente colpiti. «Strano» osserva uno di loro «che nessuno prima d’ora abbia pensato di scrivere un libro così. Fa riflettere e dà una grande lezione morale. Dovrebbe farci capire quanto siamo fortunati. Certo, non è piacevole essere sotto la dominazione dei giapponesi, ma avrebbe potuto andarci molto peggio...».
La reazione più accesa è quella di Juliana. Nell’immaginare quella brunetta seducente e un po’ nevrotica, Dick non aveva solo dato libero corso a una sua fantasia erotica, aveva anche abbozzato il ritratto della lettrice ideale: per lui era la stessa cosa. Lei non lo delude. Non pensa che il romanzo di Abendsen sia stravagante, divertente o che faccia riflettere, ma che sia vero. «Sono io la sola a saperlo? Scommetto di sì. Nessuno ha capito veramente La cavalletta non si alzerà più tranne me. L’autore ci ha parlato del nostro mondo. Del mondo che in questo momento è intorno a noi. Vuole che lo vediamo per ciò che è. Devo incontrarlo».
Quando, per dare mordente all’intreccio, aveva introdotto la figura di questo scrittore che, all’interno del libro, ne scriveva uno per così dire complementare, non sapeva ancora se lo avrebbe fatto comparire, se i suoi personaggi lo avrebbero visto oppure no. Forse era meglio che la sua esistenza restasse incerta. L’idea di rappresentarlo lo affascinava e lo intimoriva al tempo stesso. Un po’ come avvicinarsi a uno specchio.
Andare incontro a se stessi e chiedersi chi sia quello che si avvicina. Un riflesso, certo, un semplice riflesso. Ma alcune persone non possono fare a meno di immaginare che lo specchio abbia una sua profondità, che al di là di quella superficie apparentemente piatta si celi un mondo altrettanto compiuto e reale del nostro, se non di più. Che il corridoio di cui intravediamo l’inizio continui anche nel mondo dello specchio. E così, a poco a poco, è facile arrivare a convincersi che il vero mondo sia quello dall’altra parte dello specchio e che siamo noi a vivere nel riflesso. Phil lo sapeva fin dall’infanzia, e sapeva anche qualcosa in più degli altri: perché lui sapeva chi c’era dall’altra parte dello specchio. Da questa parte, in quella che gli dicevano essere la realtà, Jane era morta e lui no. Ma nell’altra era il contrario. Lui era il morto, e Jane scrutava trepidante lo specchio in cui abitava il suo povero fratellino. Forse il vero mondo era quello di Jane, forse lui viveva nel riflesso, nel limbo. Per evitare che si spaventasse, avevano riprodotto la realtà alla perfezione, ma la verità era che viveva fra i morti. Un giorno, pensò, bisognerà scrivere un libro su questo tema: come un tizio scopre che siamo tutti morti.
L’oracolo gli aveva ordinato di descrivere il mondo nascosto al di là dello specchio, e lui, guidato passo passo, aveva obbedito. Aveva descritto il libro che, in quel mondo, Hawthorne Abendsen scriveva al suo posto. Aveva descritto la ragazza con i capelli scuri, che era tutto il contrario di Anne, assomigliava piuttosto a come lui immaginava Jane, e la ragazza aveva capito, come Jane avrebbe capito e come Anne invece non avrebbe capito mai, che Hawthorne Abendsen non parlava di un altro mondo, di un mondo immaginario, ma del mondo reale. E adesso voleva incontrarlo. Phil si diceva che al posto di Abendsen ne avrebbe avuto un’immensa voglia e al tempo stesso un’immensa paura, come se avesse dovuto incontrare Jane o la morte. Ma non spettava a lui decidere.
La fine del libro era ormai vicina. Scrivendo, Phil ne era sicuro quanto un lettore che può contare le pagine rimaste. Juliana ha parcheggiato la macchina sul ciglio di una strada deserta che attraversa le Montagne Rocciose. I suoi capelli neri sono fradici. Il seno piccolo e sodo palpita liberamente sotto il bel vestito nuovo che le ha regalato un nazista a cui poche ore prima ha tagliato la carotide con una lametta. Tira fuori dalla borsa i due volumi neri, logori, dell’edizione Baynes e là, nella macchina con il motore ancora acceso, comincia a lanciare le tre monete chiedendo: «Be’, e ora che cosa devo fare? Dimmi quello che devo fare, ti prego».
Ottiene l’esagramma 42 – l’Accrescimento –, che tre linee mobili trasformano nel 43: lo Straripamento.
«Con risolutezza bisogna rendere nota la cosa alla corte del re. Secondo verità si deve proclamarla. Pericolo!».
Dick si morse le labbra. Aveva sperato in una di quelle risposte vaghe, come ne dà a volte l’I Ching, che ognuno può interpretare come preferisce. Ma questa era terribilmente chiara. Bisognava andare alla corte del re. Juliana riparte.
Fin dall’inizio del libro si è detto che Abendsen abita in un bunker isolato in mezzo alle montagne che tutti chiamano «il castello», ma arrivato a questo punto Dick non aveva più interesse a descriverlo, e oltretutto sapeva benissimo che era solo una leggenda. Il viaggio di Juliana si conclude nella periferia di Cheyenne, nel Wyoming, davanti a una spaziosa casa bianca con un viottolo d’ingresso lastricato di pietre, un giardino curato e un triciclo per bambini sul vialetto che porta al garage. La casa è illuminata, si sentono musica e voci: una festa, una normalissima festa.
Entra. Ancora qualche pagina, pensò Dick, un dialogo difficile da scrivere e poi sarà finito: saprò che cosa dice questo maledetto libro.
Pericolo.
La signora Abendsen indica a Juliana il padrone di casa. Ecco quindi che aspetto ha Hawthorne Abendsen: un tipo alto e robusto, con la barba, che beve un Old Fashioned. Lei gli si avvicina e si mettono subito a conversare. Lui le propone di bere qualcosa, lei accetta. Che cosa preferisce? Oh, qualsiasi cosa tranne un Old Fashioned.
Poi gli spiega che cosa l’ha portata lì e gli fa qualche domanda. Perché ha scritto quel libro? Lui le confida di essersi servito dell’oracolo, e che l’oracolo ha deciso tutto al posto suo – l’argomento, il periodo storico, i personaggi – e ha fatto le tante piccole scelte necessarie alla costruzione di una storia. Le confessa di avergli chiesto anche come sarebbe stato accolto il libro: l’oracolo gli ha risposto che sarebbe stato un grande successo, il primo vero successo della sua carriera.
Dick toccò ferro. Juliana però scuote la testa impaziente. Non è andata lì per scoprire in che modo Abendsen e l’oracolo abbiano scritto il libro: questo lo ha intuito da tempo. Vuole sapere perché. Perché l’oracolo ha deciso di scrivere un romanzo usando Abendsen come intermediario? E perché quel romanzo? Perché quella storia complicata e non un’altra?
Abendsen non ha risposte. Dick neanche. Non resta che chiedere all’oracolo. Predispongono il libro, le tre monete cinesi di ottone, un foglio di carta e una matita per comporre l’esagramma. Poi formulano la domanda: «Oracolo, perché hai scritto La cavalletta non si alzerà più? Che cosa dovrebbe insegnarci?».
Dick trattenne il respiro un istante, poi lanciò le monete per sei volte. Costruì l’esagramma.
Sun sopra, Tui sotto.
61: Chung Fu, la Verità interiore.
«Al di sopra del lago soffia il vento e muove la superficie dell’acqua. Così si manifestano i visibili effetti dell’invisibile».
Un momento di silenzio.
«So che cosa significa» dice alla fine Juliana.
Abendsen la osserva con un’espressione inquieta, quasi feroce.
«Significa che il mio libro è vero, non è così?».
«Sì».
«La Germania e il Giappone hanno perso la guerra?».
«Sì».
Lui richiude il libro e si alza in piedi senza dire altro.
«Nemmeno lei» dice Juliana con disprezzo «ha il coraggio di accettare la verità».
Ed esce.
Dick la seguì, perplesso. Era quella la fine del libro? Nessun editore lo avrebbe accettato. Gli avrebbero imposto di spiegarla, giustificarla. Lasciava interdetto persino lui che era l’autore. In Tempo fuor di sesto non si era limitato ad affermare che Ragle Gumm aveva ragione, aveva anche spiegato perché; si era dato da fare per inventare la storia della difesa antimissile, che aveva reso necessaria la ricostruzione di un mondo del passato a beneficio del protagonista. Quella spiegazione faceva parte dei suoi doveri verso il pubblico. E adesso si rendeva conto che, scrivendo La svastica sul sole, non se n’era preoccupato neanche per un momento: come se un autore di romanzi gialli aspettasse l’ultimo capitolo per chiedersi chi sia l’assassino, e come e perché abbia commesso il delitto. Aveva fatto assegnamento sull’I Ching. L’I Ching avrebbe sicuramente trovato una soluzione. Ed ecco invece che ora lo abbandonava, fornendogli solo questa conferma evasiva, beffarda, questa specie di koan Zen da quattro soldi. Un abbandono tanto più seccante, si disse, perché se ci avesse pensato in tempo, se le avesse preparato il terreno nel corso del romanzo, una rivelazione del genere sarebbe stata perfettamente ammissibile in un libro che parlava, almeno in parte, del nazismo. Nel leggere Hannah Arendt, era stato molto colpito da un’idea: che lo scopo degli Stati totalitari fosse quello di tagliare fuori le persone dalla realtà, di farle vivere in un mondo fittizio. Gli Stati totalitari hanno dato corpo a una fantasia: la creazione di un universo parallelo. Il privilegio che san Tommaso d’Aquino negava all’Onnipotente e che san Pier Damiani gli riconosceva, ovvero quello di modificare il passato, di far sì che non sia accaduto ciò che è accaduto, i nazisti e i bolscevichi se lo sono arrogato riscrivendo la storia e imponendo le loro versioni apocrife. Trockij non era mai stato alla testa dell’Armata Rossa, Berija spariva dall’enciclopedia sovietica, cedendo il posto a un vicino di alfabeto meno compromesso – lo stretto di Bering –, e, per quanto riguarda le vittime meno illustri dei campi di concentramento, l’obiettivo non era solo ucciderle, ma fare in modo che non fossero mai esistite. In una pagina straordinaria Hannah Arendt descrive il grande foglio su cui la polizia raffigurava la cerchia di amicizie di ogni persona giudicata indegna di vivere: attorno al punto che la rappresentava si disponevano in cerchi concentrici tanti altri punti che rappresentavano i suoi familiari e gli amici più stretti; poi i colleghi di lavoro e i conoscenti; poi quelli che, pur senza conoscere personalmente l’indesiderabile, ne avevano sentito parlare, e se il cerchio non si allargava fino a comprendere l’umanità intera era solo per il problema pratico delle dimensioni del foglio. Un giorno Dick aveva letto uno studio statistico in cui veniva esposta una teoria che gli era molto piaciuta, secondo cui nessuno sulla terra è a più di cinque o sei strette di mano da chiunque altro: «Questo significa» spiegava a Anne «che nel corso della tua vita hai sicuramente stretto la mano a qualcuno che ha stretto la mano a qualcuno che ha stretto la mano a qualcuno che ha stretto la mano a qualcuno che ha stretto la mano a qualcuno che ha stretto la mano, per esempio, a Richard Nixon o a un determinato abitante di Benares». Questo principio di contaminazione universale, incubo e alimento dell’utopia totalitaria, conduce logicamente a deportare tutti, compresi gli stessi deportatori. Tuttavia, poiché nemmeno uno Stato totalitario è completamente refrattario al principio di realtà, si è reso necessario trovare un’altra soluzione, ovvero quella di cancellare i morti non solo dai documenti, ma anche dalla memoria di chi veniva provvisoriamente risparmiato. E una delle cose più atroci che gli Stati totalitari hanno fatto scoprire all’umanità è che questa operazione è possibile. Se oggi il Terzo Reich regnasse sull’Europa, pensava Dick, è probabile non solo che la sua logica esponenziale gli avrebbe fatto sterminare decine di milioni di uomini, ma anche che i sopravvissuti, con la gola quotidianamente irritata dal fumo dei forni crematori, non lo saprebbero. Quando la sopravvivenza ha un prezzo simile, be’, di solito nessuno lo sa.
In una rivista di divulgazione aveva letto anche il resoconto di un esperimento psicologico: si tracciano due linee su una lavagna, facendo in modo che una, la A, sia decisamente più lunga dell’altra, la B. Poi si mostra la lavagna a un gruppo di cinque persone, a cui si chiede se, secondo loro, è più lunga la linea A o la linea B. Dopo essere scoppiati a ridere di fronte a un test così stupido, i membri del gruppo rispondono l’uno dopo l’altro. Quattro di loro, complici dello sperimentatore, affermano contro ogni evidenza che la linea B è più lunga della A. Il quinto, che in realtà è l’unica vera cavia dell’esperimento, finisce immancabilmente, a costo di un forte turbamento psichico, per respingere la testimonianza dei suoi sensi e adeguarsi all’opinione generale. Gli Stati totalitari hanno fatto, su vasta scala, un esperimento molto simile. Hanno sviluppato l’abilità di mostrare una sedia alla gente e di farle dire che è un tavolo. Anzi di farglielo credere. Da questo punto di vista quello che Dick, guidato dall’oracolo, aveva raccontato nel suo libro non era del tutto assurdo. Anzi, probabilmente aveva intuito una verità profonda.
Naturalmente, pensò, l’ipotesi sarebbe stata più plausibile in senso inverso: tutto sommato non c’è ragione perché una democrazia, benché avvelenata dalla caccia alle streghe, si sforzi di alimentare nella mente delle persone la convinzione di vivere in un regime totalitario; se invece la Germania e il Giappone avessero vinto la guerra, sarebbe abbastanza facile immaginare che avrebbero cercato di far credere il contrario agli americani, per dominarli meglio. Questi ultimi avrebbero continuato a condurre la loro pacifica vita provinciale e a vantarsi della loro Costituzione, senza sapere di essere in realtà sudditi completamente asserviti al Reich. Anno dopo anno, milioni di loro concittadini sarebbero scomparsi senza lasciare traccia, e nessuno ci avrebbe fatto caso, nessuno avrebbe chiesto niente, tanto è potente nell’uomo, se appena lo si incoraggia un po’, l’istinto di non sapere. Ma in questo caso sarebbe stato Phil Dick, il cittadino dell’America cosiddetta libera, e non Hawthorne Abendsen, il suo doppio speculare, a nutrire dei sospetti e a ricavarne la trama di un romanzo.
Be’, era esattamente quello che aveva fatto.
Calma.
Scosse la testa e si stiracchiò per sottrarsi al vortice di quel ragionamento assurdo. Diede ancora una scorsa al commento dell’esagramma, in cerca di un’ispirazione per concludere il libro.
«Solo un cuore libero da pregiudizi è capace di accogliere la verità».
Ridacchiò fra sé immaginando di rispondere così all’editore furioso. Poi fece un ultimo tentativo.
Mêng, la Stoltezza giovanile.
«Non io ricerco il giovane stolto, il giovane stolto ricerca me. Consultato una prima volta, io do responso. Se egli interroga due, tre volte, è importuno. Se egli importuna non do responso. Propizia è perseveranza».
E va bene, disse, offeso. Ho capito.
Juliana insomma aveva detto tutto quello che c’era da dire. Batté la parola «fine», poi tornò a casa pensando che avrebbe voluto leggere le ultime pagine della Cavalletta non si alzerà più, per sapere se parlava di lui e come se l’era cavata l’altro con la conclusione.
4. La prima edizione italiana, curata da B. Veneziani e A.G. Ferrara, è apparsa sotto il titolo I King. Il libro dei mutamenti, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1950; per le citazioni si è seguito I Ching. Il Libro dei Mutamenti, a cura di R. Wilhelm, con Prefazione di C.G. Jung, Adelphi, Milano, 1991 [N.d.T.].