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RITRATTO DELL’ARTISTA COME ERESIARCA
Tutto doveva essere nuovo in quel periodo: Nouvelle Vague, New Frontier, Nouveau Roman; le cose cambiavano nome, e da una parte e dall’altra dell’Atlantico i vecchi brontoloni sempre pronti a fare del sarcasmo, con la pipa a mezz’asta e gli occhiali sulla fronte, avevano gioco facile a farsi beffe dei tanti parrucchieri diventati improvvisamente stilisti dei capelli. Con lo stesso zelo la fantascienza barattò il suo rozzo appellativo con i più rispettabili speculative fiction, che non voleva dire molto, e new thing, che non voleva dire assolutamente niente, ma almeno lo diceva con maggiore impudenza.
Negli Stati Uniti il più accanito promotore della «nuova cosa» fu Harlan Ellison, ex fan sfegatato divenuto, col sudore della fronte, poligrafo virtuoso ed esperto di pubbliche relazioni. Ellison amava fare le cose in grande e decise di celebrare in pompa magna la metamorfosi di un genere – già ritenuto stupido, istupidente, buono tutt’al più per i sogni di marmittoni e impiegatucci frustrati – che negli effervescenti anni Sessanta si era trasformato in una fucina di menti inventive e iconoclaste, di avanguardisti eccentrici e non di rado chiaroveggenti, insomma, nel reparto d’assalto di una letteratura per il resto borghese, fiacca, lontana dalle inquietudini del suo tempo e dei tempi a venire quanto un musicista classico lo è da una generazione di giovani interessati solo alla musica pop. Ellison pensava che Dangerous Visions, la sua antologia manifesto, avrebbe rivoluzionato la letteratura americana. Star dell’establishment del calibro di Gore Vidal o Thomas Pynchon, per citare due candidature quanto meno plausibili, sarebbero presto andate a implorare di essere cooptate accanto a Norman Spinrad o a Samuel Delany. L’agognato sol dell’avvenire non sorse mai, ma la speranza illuminò la vita degli iloti per alcuni anni durante i quali si ebbe la sensazione che tutto fosse possibile, e sembrò sensata l’idea ingenua che le storie ambientate nel futuro costituissero la letteratura del futuro. Convinti di essersi guadagnati un posto nel pantheon, i trentadue scrittori invitati da Ellison a prendere parte alla festa scrissero i loro racconti come se stessero posando per i posteri. Il direttore dei lavori elogiò ciascuno di loro in un testo introduttivo estroso ed eccessivo, il cui tono oscillava fra Johnny Carson e Jacopo da Varagine, e come se non bastasse invitò tutti ad aggiungere al proprio contributo una postfazione in cui avrebbero potuto dire qualsiasi cosa: vantarsi o fare i modesti, cercando di offrire il proprio profilo migliore.
Nessuno scrittore resiste a una simile tentazione, e chi lo fa di solito conta sull’eloquenza del silenzio. Contattato verso la fine del 1965 dall’entusiasta Ellison, Dick fu felice di sapere che, se c’era uno che non poteva mancare nel manipolo dei pericolosi visionari, quello era senz’altro lui, e con vivo piacere accettò di scrivere il suo autoritratto.
Ne veniva fuori la figura di una specie di recluso affabile, circondato da amici, che amava il tabacco da fiuto e gli allucinogeni, Heinrich Schütz e i Grateful Dead, affascinava i suoi giovani amici hippy di modesta cultura parlando di Giovanni Scoto Eriugena e adocchiava tutte le ragazze che gli passavano accanto, sotto lo sguardo indulgente della sua giovanissima, timidissima e graziosissima moglie. L’uomo infelice, tormentato, che a Point Reyes aveva creduto di perdere la ragione nel mondo dominato da Anne e da Palmer Eldritch, si era trasformato, sulla soglia dei quarant’anni, in una sorta di guru bonario, dedito all’uso degli allucinogeni per verificare in prima persona le sue ipotesi teologiche e quelle dei suoi gloriosi predecessori, che ormai citava a ogni piè sospinto, al punto da trasformare anche il più modesto romanzo di fantascienza in un patchwork di epigrafi prese da Boezio, da Meister Eckhart o da san Bonaventura. Pur non avendo più ripetuto la terribile esperienza con l’LSD, si atteggiava a veterano dell’acido e sosteneva come Timothy Leary che «oggi perseguire una vita religiosa senza l’ausilio delle droghe psichedeliche sarebbe come voler studiare gli astri a occhio nudo». Gli piaceva raccontare che un giorno Leary gli aveva telefonato dalla stanza d’albergo di John Lennon, in Canada, dove i Beatles erano in tournée. Sì, ripeteva con aria solenne, rallegrandosi del brivido di incredulità e di ammirazione che suscitava nel suo interlocutore: proprio dalla stanza di John Lennon! I due, completamente fumati, avevano appena finito di leggere Le tre stimmate di Palmer Eldritch e ne erano entusiasti. Era così! Esattamente così!, biascicava Lennon strisciando sulla moquette. Parlava già di farne un film, il film psichedelico, l’equivalente cinematografico del disco a cui stava lavorando: Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Preso alla sprovvista, Dick non aveva avuto il tempo di pensare a un test che gli permettesse di verificare se Lennon e Leary fossero davvero Lennon e Leary e non due mattacchioni che si facevano passare per quegli dèi dell’Olimpo, ma un anno dopo, quando l’album uscì, riconobbe sia il titolo del disco sia quello di una canzone che inneggiava all’acido di cui Lennon gli aveva parlato: Lucy in the Sky with Diamonds. Da quel momento cominciò ad avere un debole per il name-dropping e si convinse di esercitare sugli altri una sorta di influenza sotterranea, quasi occulta. In effetti, in alcuni ambienti, l’aggettivo dickiano iniziava a essere usato per indicare certe situazioni particolarmente strane e un modo complicato ma preciso di rappresentare il mondo. Stava diventando una specie di parola d’ordine. Giovani non necessariamente appassionati di fantascienza, critici musicali, come Paul Williams, per esempio, o autori di fumetti, come Robert Crumb o Art Spiegelman, nelle loro riviste stampate alla bell’e meglio parlavano di lui come di uno dei geni misconosciuti del loro tempo.
Quel ruolo in fondo gli faceva comodo. Lo aiutava a tenere a distanza le sue terrificanti e pericolose ossessioni, che diventavano così una sorta di marchio di fabbrica e contribuivano ad alimentare la sua leggenda. Come si diceva allora, il suo forte era Dio. Nessuno gli contendeva quel territorio, nessuno lo rimproverava se ci si avventurava, purché lo facesse, secondo il credo dell’epoca, da dinamitardo sovversivo e irriverente nei confronti di una tradizione per forza di cose sclerotizzata. Non gli piaceva ripensare alle settimane in cui aveva scritto Palmer Eldritch, né al terrore che aveva provato quando l’acido gli aveva fatto rivivere le stesse sensazioni; ma lo lusingava sentir parlare del suo libro come di una «messa nera», ricevere in dono il disco dell’agghiacciante sonata di Skrjabin intitolata allo stesso modo, e ascoltare chi gli ripeteva che qualche secolo prima l’Inquisizione lo avrebbe condannato al rogo decine di volte. Quando scoprì Borges, che insieme a Tolkien e a M.C. Escher aveva appena raggiunto fama mondiale, non poté che apprezzare il dilettantismo scaltro e insinuante con cui l’argentino parlava della teologia come di una branca della letteratura fantastica, un divertissement intellettuale affascinante e inoffensivo. Cominciò così a imitarne i paradossi («L’America» diceva spesso «alimenta due superstizioni: Dio non esiste e c’è una differenza tra le diverse marche di sigarette») e la briosa pedanteria. Provò perfino a scrivere alla sua maniera, cimentandosi insieme a Roger Zelazny, un altro «intellettuale» della fantascienza, in una complicata fantasia religiosa che riuscirono a portare a termine solo dieci anni più tardi, per poi rendersi conto che non aveva né capo né coda.
Ma non era affatto così spregiudicato come voleva sembrare. In lui l’eresiarca letterario coabitava con il parrocchiano scrupoloso spaventato dall’inferno, di cui aveva gustato un assaggio grazie all’acido. Se in sua presenza qualcuno riduceva le varie apocalissi bibliche a mere allegorie che, proprio come la Genesi, non andavano prese alla lettera, scuoteva la testa con l’aria afflitta di uno a cui sia toccata la sfortuna di sapere e di sapere che gli uomini si nutrono di vane illusioni. Voleva amare Dio, ma più ancora temeva il diavolo. Questa sua religiosità gotica, quando gli capitava di parlarne apertamente, gli veniva perdonata volentieri: era considerata una divertente provocazione, una delle sue tante stravaganze. E in quell’ambiente di agnostici vagamente attratti dal buddhismo non ci voleva molto a sembrare stravaganti; non c’era alcun bisogno di essere pelagiani o albigesi: bastava essere cattolici. Neanche Nancy capì subito che Dick non scherzava quando diceva di essere dispiaciuto perché vivevano nel peccato, visto che il suo matrimonio religioso con Anne non era stato annullato, e non poteva accostarsi alla Sacra Mensa. Gli sembrava che, più che per il divorzio, l’esclusione dall’eucarestia fosse una punizione per il sacrilegio di cui si era reso colpevole mettendola in ridicolo nella sua «messa nera» e che ciò lo privasse della sola protezione efficace nella guerra in cui era impegnato. La nostalgia della vita sacramentale lo spinse a inventare diversi sostituti, fra cui il più curioso, il solo che non sia legato alla droga, è la «scatola empatica» merceriana, intorno alla quale ruota la vicenda secondaria di Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (tutto si può dire di Dick, tranne che mancasse di fantasia).
La scatola empatica, strumento di un culto clandestino diffuso all’interno di quello stesso Stato di polizia che pratica la caccia agli androidi, ha l’aspetto di un piccolo televisore munito di due maniglie. Chiunque afferri le maniglie e si chini sulla scatola assisterà immediatamente a una scena il cui ripetersi costituisce l’essenza del culto: un vecchio, di cui sappiamo solo che si chiama Mercer, scala a fatica la china di un monte e durante l’ascensione viene lapidato. L’adepto del «mercerianesimo» non si limita ad assistere alla scena: la vive. Sono suoi i piedi che strisciano sul terreno accidentato, sua la carne che le pietre feriscono, sua l’anima infinitamente triste e al tempo stesso inspiegabilmente piena di gioia. Si fonde con Mercer e anche con tutti quelli che, nello stesso momento, sulla Terra e sugli altri pianeti colonizzati, tengono strette le maniglie della scatola empatica. Sente la presenza degli altri che come lui soffrono ed esultano. Diventa una cosa sola con loro. La fusione con Mercer, calvario e comunione dei santi, è l’esatto contrario della traslazione controllata da Palmer Eldritch: non isola ma unisce; non perde ma salva. E si rinnova sempre. In cima alla montagna Mercer crolla a terra agonizzante e muore; portato al sepolcro, risorge. «Inevitabilmente» dice meravigliato uno dei personaggi del romanzo. «E noi con lui. Così, anche noi siamo eterni».
Tutto ciò non piace al potere temporale, che dichiara il culto illegale, perseguita i suoi adepti e si fa promotore di una violenta campagna ideologica contro di loro. Scatola contro scatola, lo strumento della campagna è naturalmente la televisione, da dove Buster Friendly schernisce sera dopo sera l’istinto masochista che spinge i merceriani a evadere dalla realtà per soffrire tutti insieme. Si fosse trattato di darsi alla bella vita, avrebbe capito, ma farsi lapidare e condividere le sofferenze di migliaia di sconosciuti, quando è così semplice regolare artificialmente il proprio umore su un’allegria permanente o anche su una bella depressione laica, è davvero incomprensibile.
Verso la fine del romanzo Buster Friendly fa un annuncio sensazionale rivelando, con tanto di prove, che il mercerianesimo è una truffa, il classico oppio dei popoli inventato dal governo che, machiavellicamente, ha poi deciso di vietarlo per facilitarne la diffusione. La scena della montagna è stata girata in studio e viene trasmessa da un canale diverso da quello che trasmette i normali programmi televisivi, ma della medesima natura. Lo stesso Mercer, di cui i seguaci si chiedevano se in origine fosse un essere umano o un’entità archetipica introdotta nella cultura terrestre da un’insondabile volontà cosmica, è solo un attore alcolizzato che prima della guerra ha lavorato come comparsa in certe vecchie serie televisive e che ora, per interpretare il ruolo della sua vita, colpito da pietre di gommapiuma e sanguinante salsa di pomodoro, non ha patito nessuna sofferenza a parte quella di non poter bere neanche un goccio di whisky per l’intera durata delle riprese.
Le pesanti insinuazioni di Buster Friendly sembrerebbero mettere in discussione una volta per tutte l’esperienza religiosa dell’uomo. Ma non è così. In una scena davvero magnifica, in cui Dick traspone l’incontro di Emmaus, Mercer appare a uno dei suoi discepoli, prostrato davanti alla scatola empatica in cui si vede solo l’effetto neve come nel televisore quando i programmi sono terminati, e gli spiega che tutto quello che ha detto Buster Friendly è vero, tutto, compreso il particolare del whisky, a cui ha realmente fatto fatica a rinunciare, lui, il vecchio attore alcolizzato, ma che questo non cambia niente, assolutamente niente. «Perché tu sei ancora qui e io sono ancora qui».
Con quest’atto di fede contrario all’evidenza, Dick prendeva posizione in un dibattito che da qualche tempo divideva l’opinione pubblica, quanto meno quella interessata alle questioni religiose. Sin dal 1947 la scoperta dei manoscritti del Mar Morto aveva sollevato un gran polverone e messo in circolazione l’idea secondo la quale, se davvero buona parte degli insegnamenti attribuiti a Gesù nei Vangeli sinottici si ritrova anche in documenti anteriori alla sua nascita, è lecito supporre che tali insegnamenti non fossero poi così originali come si credeva e che chi li dispensava fosse solo uno dei tanti predicatori vissuti all’epoca in Palestina: in altre parole, se si considera quello che miliardi di persone hanno creduto e credono di lui, un impostore. I non credenti inclini alla polemica pensarono di aver trovato un argomento decisivo contro il cristianesimo. Non pochi uomini di Chiesa ne furono turbati. Alcuni videro vacillare la loro fede sotto i colpi di quelle rivelazioni. Tra questi ultimi ci fu il vescovo episcopale della diocesi della California, James A. Pike.
Monsignor Pike era allora un’importante figura pubblica, il prelato progressista per antonomasia. Ex avvocato, ottimo oratore, aveva militato per i diritti civili, aveva partecipato alla marcia di Selma al fianco di Martin Luther King ed era stato amico del clan Kennedy. A lui si dovevano l’introduzione del rock nella celebrazione del culto e il completamento della cattedrale di San Francisco, sulle cui vetrate, insieme a qualche santo felicemente stilizzato, sono raffigurati in maniera realistica Albert Einstein, Thurgood Marshall e John Glenn. La sua foto era apparsa sulla copertina di «Time» e di «Newsweek». In televisione aveva presentato il popolarissimo Dean Pike Show. Infine, colmo di raffinatezza per un ecclesiastico, era stato inquisito per eresia, a causa delle sue posizioni ardite e arditamente rese pubbliche sull’esistenza dello Spirito Santo, che gli sembrava sparito dalla circolazione fin dai tempi degli Apostoli.
Nell’autunno del 1965 Maren Hackett lo contattò a nome di un gruppo femminista della Baia di San Francisco e divenne la sua amante. Poco tempo dopo Nancy e il marito furono invitati a cena nell’appartamento in cui i due si incontravano di nascosto. Il vescovo, infatti, pur essendo separato dalla moglie, era ancora sposato. Dick era preoccupato all’idea di incontrare in territorio straniero un personaggio la cui celebrità lo intimidiva. Ma finì la serata stravaccato sulla moquette, a ridere e a far grandi discorsi, affascinato dalle buone vibrazioni che emanavano dall’amante episcopale della suocera. Quando si riuniscono due persone ossessionate dalla religione, si sa già che si andrà a parare in interminabili discorsi sui Padri del deserto e la battaglia di Armageddon. Tra Jim e Phil – perché fin dalla prima sera furono l’uno per l’altro Jim e Phil – iniziò una discussione destinata a durare tre anni. Entrambi, intellettuali fino al midollo, amavano le controversie e le citazioni. Entrambi, come i realisti medievali, credevano che le parole fossero cose e che tutte le idee a cui si poteva dare forma verbale avessero un corrispettivo reale. Entrambi, con il loro infinito rispetto per la carta stampata e incuranti del fatto che spesso i libri si contraddicono, prestavano fede a tutto quello che leggevano e avevano il dono di convincere anche gli altri. Leggevano molto e cambiavano spesso opinione, il che a volte metteva in imbarazzo chi li ascoltava, ma non certo loro. Nelle loro tenzoni, Jim aveva dalla sua l’autorevolezza dell’uomo abituato al pulpito e al dibattito pubblico e un arsenale teologico più ricco e meglio ordinato. Ma Phil era un Ratto, il più stravagante dei topi di sacrestia, era astuto e imprevedibile: Jim non riusciva a evitare le trappole che gli tendeva quell’oscuro scrittore, vestito come un pezzente eppure capace di dare filo da torcere a un intero sinodo. Amanti della polemica, non tolleravano di scoprirsi d’accordo e si inducevano reciprocamente all’eresia. Nel caso del vescovo, questo impulso aveva ripercussioni più serie, ragion per cui era sempre lui il più accanito, se non il più sottile nelle dispute.
Appassionato del fermento escatologico che aveva animato il Vicino Oriente all’inizio della nostra èra, Jim impartì a Dick delle vere e proprie lezioni sulla Gnosi: sosteneva che solo per caso non eravamo gnostici anziché cristiani e che forse, quanto a verità, il cambio non era stato favorevole. Parlava con enfasi di quelle dottrine tormentate, radicali, a tal punto oscurate dall’ortodossia cristiana che, se sono giunte fino a noi, lo si deve perlopiù ai commenti ostili di san Girolamo. Il cristianesimo era già di per sé una forma di dissidenza, ma gli gnostici erano i dissidenti della dissidenza: magnifici perdenti, grandissime teste di cazzo, eserciteranno sempre un fascino profondo su tutti i franchi tiratori della religione. Dick non poteva che ammirare maestri spirituali come Valentino o Basilide, il cui insegnamento si fonda sull’intuizione che c’è qualcosa che non va nel modo in cui va il mondo. Il mondo, dicono, è al tempo stesso una prigione e un’illusione, un errore e un brutto scherzo orchestrato alle nostre spalle da un crudele demiurgo. Tuttavia chi ne è avvertito e si sforza di restare presente a se stesso può risalire fino alla luce del vero Dio, dall’ombra nella quale il demiurgo ci tiene prigionieri. Sentendo, leggendo queste parole, Dick capì di essere sempre stato uno gnostico inconsapevole. La sua natura di abitante del mondo della tomba aderiva pienamente a tale visione, ma voleva anche credere al rimedio. E il rimedio, la via verso la verità e la vita, non era forse Cristo?
A questo punto della discussione il vescovo assumeva l’aria contrariata di chi non ha il coraggio di disingannare un bambino che crede ancora a Babbo Natale. Ogni due o tre mesi andava a Londra insieme a Maren per incontrare John Allegro, l’esegeta che rappresentava la Gran Bretagna nel team internazionale incaricato di studiare e pubblicare i manoscritti del Mar Morto. Da quei viaggi tornava sempre sconfortato, ma al tempo stesso sovreccitato, latore di scandalose verità. Secondo le ultime notizie, che riferiva con un misto di piacere e timore, sembrava proprio che i Vangeli fossero un’impostura e Gesù un epigono della setta degli Esseni, intorno al quale un gruppo di maliziosi Ebrei aveva imbastito una truffa colossale.
Di fronte a simili rivelazioni – «scientifiche», sottolineava il vescovo con l’indice alzato – Dick finiva per assumere il ruolo di difensore dei dogmi, cosa che non dispiaceva né al suo spirito di contraddizione, né alla sua vocazione più profonda. Agli attacchi dell’amico rispondeva con le parole di Mercer: «Va bene, ma anche se così fosse non cambierebbe niente. È come la storia di quell’accademico secondo cui Amleto non sarebbe stato scritto da Shakespeare, ma da un tipo che aveva il suo stesso nome. Se sei convinto che Cristo era figlio di Dio, che è risorto e ha sconfitto la morte, non ha senso dire o dimostrare algebricamente che in realtà era solo una comparsa insignificante o addirittura che non è mai esistito, perché questo non cambia proprio niente. Hai perfettamente ragione a cercare la verità, ma dovresti sapere che la verità è Lui. Altrimenti significa solo che non credi in Lui, ovvero che non sai».
Allora il vescovo doveva confessare che non era più tanto sicuro di credere alla religione di cui era ministro. E che ne era seriamente preoccupato.
Questa fase raggiunse il culmine il giorno del fungo. Pike tornò da Londra con un’informazione top secret che i domenicani della Scuola biblica di Gerusalemme speravano, diceva lui, di riuscire a tenere nascosta per sempre e che perfino l’audace Allegro aveva paura di divulgare. Gesù o coloro che lo avevano inventato si erano limitati a diffondere gli insegnamenti di una setta che, nelle caverne sulle rive del Mar Morto, coltivava un fungo con cui si preparava una specie di pane e un brodo. I membri della setta mangiavano quel pane e bevevano quel brodo, tradizione in cui non è difficile riconoscere l’origine della comunione sotto le due specie. Ebbene, era appena stato scoperto che il fungo in questione era un allucinogeno: l’Amanita muscaria, oggetto di un culto della fertilità risalente a tempi antichissimi e ancora diffuso presso alcuni popoli siberiani, che peraltro aveva largamente contribuito a decimare. Il cristianesimo non era altro che una manifestazione piuttosto tardiva di quello stesso culto, e il Nuovo Testamento era un crittogramma crittogamico, un camuffamento utile a compiacere le autorità civili e religiose.
«E io» si lamentò il vescovo «devo dare la comunione tutte le domeniche sapendo che in origine quel rito consisteva nell’imbottirsi di sostanze psichedeliche...».
«... E che Gesù» lo interruppe Dick scoppiando in una risata fragorosa «era uno spacciatore». Poi, tornato in sé, aggiunse: «Be’, in fondo lo sospettavo da tempo, in un certo senso l’ho anche scritto. Ma questo non scalfisce minimamente la fede che ho in Lui».
Nel febbraio del 1966 il figlio di Pike, che aveva vent’anni, si suicidò sparandosi con un fucile da caccia. Per spiegare quel gesto furono avanzate diverse ipotesi: si disse che era schiacciato dalla personalità del padre, che era innamorato della sua amante, che si era reso conto di avere tendenze omosessuali, che aveva avuto un bad trip da acido.
In quell’occasione Dick scrisse a Pike una lettera in cui si legge fra l’altro: «Sono convinto che subito dopo la morte finalmente ci apparirà la Realtà. Le carte saranno finalmente scoperte, la partita sarà terminata, e vedremo chiaramente tutto ciò che abbiamo solo sospettato o intravisto come in uno specchio, in modo oscuro. È quello che dice san Paolo. Quello che dice il Bardo Thödol. Quello che dice Winnie-the-Pooh: ci incontreremo di nuovo in un’altra parte della foresta, dove un bambino e il suo orsacchiotto giocheranno insieme per sempre. Io ci credo. In effetti è l’unica cosa in cui credo. E anche se mi sbagliassi e avesse ragione Lucrezio (“Non sentiremo niente, perché non saremo più”), pazienza, non ci sarò e non potrò restare deluso, sicché ci avrò guadagnato comunque. In ogni caso non è una scommessa: non ho scelta e nemmeno tu ce l’hai».
Ma il vescovo non voleva aspettare l’istante dopo la morte per scoprire le carte e non aveva più fiducia né in san Paolo né in Winnie-the-Pooh: aveva bisogno di informazioni di prima mano. Pronti a tutto pur di sfuggire al senso di colpa che li affliggeva, lui e Maren si rivolsero a diversi spiritisti e l’estate successiva alla morte di Jim Jr., con gli occhi che brillavano, iniziarono a raccontare a tutti che era tornato. Aveva parlato con loro, li aveva perdonati, voleva che fossero felici. Pike, a cui non poteva succedere niente che non fosse ispirato a un libro e che poi non finisse in un libro, firmò perfino un contratto per scriverne uno sulle sue esperienze con l’aldilà. Non aveva smesso di interrogarsi sulla validità del cristianesimo. Usava proprio questo termine, «validità», che Dick trovava incredibilmente debole, e troppo corrente, rispetto alla guerra che era in atto nel cuore del suo amico. Il vescovo sperava che Jim Jr. lo avrebbe aiutato a sciogliere tutti i suoi dubbi. Stando dall’altra parte, avrebbe potuto dirgli se Gesù era solo un predicatore impegnato a diffondere le idee di una setta di drogati o era davvero il figlio di Dio. Che follia!, pensò Dick in un primo momento. Che patetica follia: servirsi del figlio morto come di un testo di riferimento per risolvere una questione storica! Ma dentro di sé sapeva che in una situazione simile avrebbe fatto lo stesso, che per tutta la vita aveva cercato un testo di riferimento e che non si trattava solo di un problema storico: erano in gioco la fede e la perdita della fede, vale a dire la vita e la morte del vescovo. Perdere Cristo, per lui, significava perdere tutto, anche se, con la placida serietà di un uomo d’affari che prospetta una riconversione, cominciava già a considerare l’ipotesi di spretarsi per entrare «nel settore privato». Così diceva: «nel settore privato».
Pike convinse Dick e Nancy a partecipare a una seduta spiritica con una medium che gli era stata raccomandata. Dick accettò, sia pure con una certa riluttanza: gli faceva male vedere una mente così brillante e così simile alla sua a tal punto in balìa della paura da lasciarsi abbagliare da credenze che lui considerava assurde. La moneta cattiva scaccia quella buona: il vescovo, pensava, crede alle manifestazioni postume del figlio con la stessa fermezza con cui i discepoli o io stesso abbiamo creduto alla resurrezione di Cristo. Chi sono io per considerare infondata la sua fede, quando poi liquido con un’alzata di spalle quelli che esprimono un giudizio simile sulla mia?
La medium abitava a Santa Barbara. Era un’anziana signora irlandese che sosteneva di devolvere all’IRA ogni introito derivato dai suoi poteri paranormali. Durante la seduta Phil e Nancy presero appunti di cui il vescovo si sarebbe poi servito per il libro.
I medium, i veggenti e tutti gli altri parapsicologi si basano di solito su un insieme di intuizioni, su indizi forniti inconsciamente dagli stessi clienti e su elementi di dominio pubblico che, presentati con abilità, possono fare l’effetto di una rivelazione. Insomma bluffano: se sbagliano, fanno finta di niente, se indovinano, hanno vinto. Tuttavia chiunque abbia consultato una di queste persone (a meno che non sia stato proprio sfortunato) sa che una volta passato al setaccio tutto quello che ha detto, resta sempre qualcosa di apparentemente inspiegabile: un dettaglio preciso, magari insignificante, ma di cui non si riesce a capire come sia potuto venirne a conoscenza, grazie a quale deduzione degna di Sherlock Holmes. È così, ed è sconcertante, anche se non è certo sufficiente a indurci ad affidare la nostra vita a una qualunque forma di occultismo, e neppure a scommetterci un soldo bucato. Quel giorno l’ombra di Jim Pike Jr., per bocca dell’anziana signora dell’IRA, accennò a una battuta che Phil e Nancy ripetevano di continuo ma di cui non avevano mai fatto parola con nessun altro: la presunta appartenenza al KGB di un certo ristoratore di Berkeley. Nelle settimane successive Phil cercò di spiegarsi razionalmente come fosse possibile che una medium di Santa Barbara conoscesse i private jokes di una coppia di Berkeley, si disse che evidentemente il proprietario del ristorante apparteneva davvero al KGB, e come lui anche la medium, poi archiviò il caso. D’altronde né Pike né Maren notarono quel particolare, emozionati com’erano nel sentire lo spirito di Jim Jr. che li perdonava e li incoraggiava a vivere felici. Sulla «validità» del cristianesimo, ahimè, lo spirito mantenne il silenzio.
Qualche settimana dopo, nonostante il perdono di Jim Jr., si suicidò anche Maren Hackett, che era malata di cancro e stava per essere lasciata dal vescovo. Ingerì un potentissimo cocktail di pillole, di cui lei, come Dick e come lo stesso Pike, era un’esperta consumatrice. Seconal, Amytal, Dexamyl, quante volte Phil aveva attinto senza farsene accorgere all’armadietto dei medicinali del vescovo e della suocera?
Phil fu profondamente colpito dal tragico destino di Maren, anche perché quando si erano conosciuti lei gli era sembrata una roccia, la personificazione della forza e della speranza che scaturiscono dalla pratica delle virtù cristiane. Alla notizia della sua morte pensò che ormai la ruota avesse girato e che il ciclo favorevole, il breve, brevissimo periodo in cui lui e quelli che gli somigliavano erano stati felici, si era definitivamente concluso. Un velo nero era calato sulla spensieratezza appassionata degli suoi amati Sessanta. Da quando l’LSD era stato vietato, si sentivano sempre più spesso storie di bad trip, come se Palmer Eldritch, approfittando dell’illegalità, si fosse stabilito nel quartiere di Haight-Ashbury, culla dell’innocente cultura hippy. La popolazione indigena sfilava per le strade e nel Golden Gate Park suonando il tamburello e ripetendo il suo primordiale om nella speranza di allontanare le cattive vibrazioni. Invano. C’erano stati i primi morti. A quanto pareva la mafia aveva preso il controllo dello smercio di droghe e rifilava schifezze d’ogni sorta senza farsi il minimo scrupolo. La gente faceva finta di non accorgersi di niente, ma Phil sapeva che ormai la mela era marcia.
Eppure il suo mondo non era mai stato così stabile. Apparentemente i quarant’anni gli avevano dato forza, saggezza e prudenza. La burrasca sembrava passata. La donna che amava portava in grembo un figlio suo. Si erano trasferiti in una casa più grande. Aveva raggiunto una certa fama, e sempre più spesso i suoi libri venivano tradotti anche all’estero. Con i diritti d’autore aveva realizzato un suo ardente desiderio, coronando un sogno di bambino e di uomo arrivato a un tempo: aveva comprato un enorme schedario metallico blindato, a prova di fuoco, in cui riporre i tesori che si portava dietro da quando aveva lasciato la casa di Dorothy: manoscritti, lettere, dischi rari, collezioni di francobolli, di fumetti, di riviste di fantascienza ormai introvabili.
Il giorno in cui gli consegnarono quel mostro, che pesava, senza i cassetti, trecentocinquanta chili e occupava tutta la parete dello studio, un’ondata di angoscia oscurò la sua gioia: una volta comprato un mobile simile, non ci si muove più, è finita, si è gettata l’ancora. Poi si ricordò che, nell’opera di Wagner, il drago Fafner era destinato alla morte, il suo tesoro alla dispersione, e allora un pensiero opposto andò ad alimentare la sua angoscia: il timore non della sazietà ma della perdita. Per aiutare gli uomini incaricati della consegna si beccò un’ernia, che interpretò come un segno della disapprovazione divina. Non accumulate. Tutto quello che avrete creduto di possedere vi sarà tolto.
Ming I, dice l’I Ching, l’Ottenebramento della luce.
Proprio allora ricevette l’antologia di Ellison, che finalmente era stata pubblicata. Nella ristretta cerchia degli appassionati di fantascienza non si parlava d’altro. L’introduzione, in cui era presentato come un drogato geniale, che sfornava capolavori sotto l’effetto dell’acido, lo fece sorridere: Ellison esagerava sempre, ma doveva confessare che era stato lui stesso a mettere in giro voci del genere. Poi, spinto da un impulso a cui non sfugge nessun uomo di lettere, rilesse il suo racconto, La fede dei nostri padri.
La storia si svolge in uno di quei mondi totalitari, ispirati a Orwell, a Hannah Arendt e alla realtà, che erano una sua specialità. Un mondo in cui la televisione non serve tanto a essere guardata dalla gente quanto a guardare la gente: una telecamera nascosta dietro il monitor – molto più sofisticata degli attuali apparecchi usati per misurare l’indice d’ascolto – permette infatti alle autorità locali di controllare quanto tempo ciascuno trascorre davanti allo schermo e in che modo reagisce all’indottrinamento impartito dal Leader, il cui nobile volto viene mostrato quotidianamente al popolo. Ma un giorno un tizio che ha assunto una sostanza illegale vede per la prima volta qualcosa di diverso: un essere orribile, una specie di mostruosa piovra, una reincarnazione di Palmer Eldritch. È un’allucinazione, pensa, ma poi naturalmente comincia a chiedersi se non si tratti invece della Realtà vera. Il seguito del racconto conferma i suoi dubbi: contattato da un gruppo clandestino di oppositori, il protagonista scopre che la droga che gli ha causato quell’orrenda visione non è un allucinogeno, ma un antiallucinogeno. L’intera popolazione, infatti, è sotto l’effetto di un potente allucinogeno, che viene somministrato costantemente, mescolato all’acqua del rubinetto: per questo motivo ogni sera il Leader appare a tutti con lo stesso aspetto piacevole. Solo chi prende la controdroga, il «lucidogeno» potremmo dire, lo vede com’è veramente, cioè ogni volta diverso, ogni volta diversamente mostruoso. Perché in realtà il Leader è Dio, un dio capriccioso e crudele. E, quando alla fine il protagonista lo vede faccia a faccia, si rende conto che niente è più orribile e più pericoloso di quella visione, su cui il racconto si chiude in modo crudelmente evasivo.
Era un racconto spaventoso. Quando lo aveva scritto ne era stato soddisfatto. Quando lo rilesse, un anno dopo, dopo la morte di Jim Pike Jr. e quella di Maren, ebbe un’impressione completamente diversa. Era sempre spaventoso, ma in un altro senso. Peggiore.
Svelava tutti i suoi trucchi, l’intero armamentario che scrivendo il suo autoritratto aveva messo in piazza con ingenua soddisfazione, come se intendesse sfruttarlo candidamente per tutta la vita: il totalitarismo, l’idios e il koinos kosmos, le droghe psichedeliche, la Realtà vera, Dio. Il piccolo mondo di Philip Dick.
Mancavano solo gli androidi, i simulacri. E mancavano perché il racconto era esso stesso un simulacro. Se un abile falsario avesse voluto scrivere «alla maniera di Dick», se un informatico avesse voluto creare un programma capace di scrivere un Dick, il risultato sarebbe stato molto simile a quello.
Eppure l’aveva scritto lui. Lui in persona, magari non al meglio della sua forma, ma reale, autentico: il vero Phil Dick e non un androide messo all’insaputa di tutti al posto di Phil Dick. Di questo ne era certo.
Tuttavia, se fosse stato un androide, avrebbe avuto la stessa certezza. Avrebbe fatto lo stesso, identico ragionamento. A dire il vero era proprio il classico ragionamento da androide. E rendendosene conto avrebbe avuto paura perché era programmato per averne.
E sebbene questo non dimostrasse niente, né in un senso né nell’altro, anche lui aveva paura.