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SCORRETE LACRIME
Una sera, tornando a casa, aprì la porta d’ingresso e schiacciò l’interruttore della luce sulla sinistra. Quello che vide gli fece cadere di mano lo scatolone con le provviste. Sul pavimento c’erano mucchi di fogli in disordine e oggetti calpestati. Lo stereo era scomparso. I vetri erano andati in frantumi, l’enorme schedario blindato era stato sventrato con dell’esplosivo e la casa saccheggiata. «Dio sia lodato!» fu il suo primo pensiero. «Quindi non sono paranoico».
Già da una decina di giorni si aspettava che accadesse qualcosa. La macchina funzionava sempre peggio. Erano arrivate diverse telefonate di minaccia. Una notte, svegliata da una di quelle chiamate, Donna aveva avuto una crisi di nervi e si era messa a ripetere che presto avrebbero subìto un’aggressione. Contagiare Phil con quella paura, con qualsiasi paura, non era un’impresa difficile. Lui si era comprato subito una pistola e aveva preso a girare per casa con l’arma in pugno, a osservare attraverso le tapparelle abbassate chiunque si avvicinasse, a rifugiarsi negli angoli invisibili dall’esterno. Aveva tormentato i suoi amici per convincerli del pericolo che correva e chiesto anche la protezione della polizia. La polizia lo aveva mandato a quel paese; quanto agli amici, ci avevano fatto l’abitudine. Tutti sapevano che Phil era perennemente in crisi e creava intorno a sé l’atmosfera dei suoi libri, in cui i protagonisti pensano di essere perseguitati da nemici invisibili. Il ruolo dell’amico del protagonista consisteva nel dirgli: ma no, stai immaginando tutto, sono cose che esistono solo nella tua testa, e loro si erano attenuti scrupolosamente a quel ruolo. D’altra parte nei suoi libri alla fine si scopre sempre che, contro ogni aspettativa, il protagonista ha ragione; ed ecco che ora anche la realtà accettava di fare la sua parte. Nel braccio di ferro che da sempre li opponeva, finalmente si era arresa, era diventata dickiana.
Chiamò la polizia in preda a una specie di eccitazione, come un bambino che dopo aver gridato centinaia di volte al lupo è stato davvero azzannato, e anche se teme che non arrivi nessuno gongola pensando ai rimorsi che la sua morte susciterà. La polizia non si smentì, gli riattaccò il telefono in faccia: il mitomane di quel covo di drogati in Hacienda Way aveva proprio rotto le scatole, loro avevano ben altre gatte da pelare. Alla fine, di malavoglia, due ispettori andarono a constatare i danni, e uno dei due uscendo chiese a Phil perché diavolo l’avesse fatto. A una simile insolenza un altro non si sarebbe neanche abbassato a rispondere. Dick invece cominciò a tremare di rabbia e di paura, a spiegare con voce improvvisamente acutissima che lui non era nemmeno assicurato. Il giorno dopo, quando portò al commissariato la lista degli oggetti rubati o danneggiati, si rifiutarono di registrarla – o forse si riservarono di farlo in seguito –, sostenendo che non risultavano denunce di furto con scasso nel suo quartiere. Poi un poliziotto, con un tono fra il paternalistico e il minaccioso, gli sussurrò che a San Rafael non avevano bisogno di piantagrane come lui e che gli conveniva cambiare aria prima che gli capitasse qualcosa di peggio.
In quella vicenda aveva perso lo stereo e quasi tutti i ricordi contenuti nell’archivio, oltre al suo già ampiamente compromesso senso di sicurezza; aveva guadagnato però, oltre alla certezza di avere ragione, un argomento di riflessione inesauribile. Si gettò su quell’osso e non lo mollò fino al giorno in cui, tre anni dopo, gliene fu offerto uno ancora più succulento. In quel lasso di tempo non fece altro che chiedersi chi avesse svaligiato la sua casa il 17 novembre 1971 e perché.
Scartò all’istante l’ipotesi che si fosse trattato di un reato comune, imputabile ai soliti teppisti del quartiere o a qualche suo ex ospite di passaggio. L’uso dell’esplosivo ai suoi occhi provava l’innocenza dei piccoli delinquenti di quel genere, tanto più che, secondo un informatore su cui Phil faceva mille misteri e che a suo dire era un ex agente della CIA, si trattava di un esplosivo raro, utilizzato solo dall’esercito. Il movente non poteva essere soltanto la banale cupidigia: o avevano voluto spaventarlo o cercavano qualcosa.
Per una di quelle coincidenze insignificanti che lui avrebbe reputato altamente significativa – un buon esempio di sincronicità junghiana –, anche casa mia è stata svaligiata proprio quando stavo cominciando a scrivere questo capitolo. In quell’occasione ho saputo dal poliziotto venuto a stendere il verbale che tutti quelli che sporgono denuncia per questo motivo hanno la stessa sensazione, il più delle volte infondata: il ladro non ha rovistato a caso, cercava qualcosa di preciso. Si stupiscono che abbia preso un oggetto insignificante e ne abbia disdegnato un altro di valore molto più elevato, e si scervellano per trovare una spiegazione logica a quella scelta, dettata di solito esclusivamente dalla fretta o dall’ignoranza.
Questa innocua manifestazione del bisogno di senso da cui siamo animati fu, com’è facile immaginare, disastrosa per Dick: se qualcuno si era preso la briga di far saltare con l’esplosivo al plastico il suo gigantesco schedario, significava che dentro c’era qualcosa di prezioso o di compromettente, o almeno qualcuno sospettava che ci fosse. Ma cosa? Nella sua mente riaffiorò l’idea di avere, senza saperlo, intuito in uno dei suoi romanzi una verità pericolosa.
Nella premessa all’ultimo libro che aveva pubblicato, Labirinto di morte, accennava alle discussioni teologiche avute con il compianto vescovo Pike. Il quale a sua volta, nel suo testo sui contatti con l’aldilà, aveva ringraziato Phil e Nancy per il loro contributo. Lì per lì quel ringraziamento lo aveva commosso, ma ora si rendeva conto di quanto potesse essere pericoloso. Le posizioni di Pike avevano fatto scandalo: non era inverosimile che qualche fanatico religioso, membro di una setta integralista, avesse sospettato il suo amico Dick di voler proseguire la sua opera eretica o, se non altro, di essere in possesso di documenti che avrebbero permesso di proseguirla: rivelazioni, per esempio, sul traffico di droga in cui era coinvolto Gesù Cristo...
Un’altra pista lo portò ancora più lontano. Partiva dal romanzo che aveva interrotto quando Nancy lo aveva lasciato, Scorrete lacrime, disse il poliziotto, in cui si accennava a una nuova droga in grado di inibire i centri nervosi che controllano l’impressione di continuità spazio-temporale, quindi di proiettare chi la assumeva in un universo privo di qualsiasi punto di riferimento. Nessuno lo aveva letto, il manoscritto giaceva incompiuto nella cassaforte del suo avvocato, ma Phil ricordava che una sera aveva raccontato la trama del romanzo a un tizio piuttosto losco che per qualche giorno aveva abitato da lui. Il tizio gli aveva assicurato che la CIA stava facendo esperimenti simili con un derivato dell’LSD, il cui nome in codice era mello jello. Poco tempo dopo – e poco prima del furto in casa – Phil aveva ricevuto la visita di un altro tizio non meno losco, che sosteneva di essere il rappresentante di un’organizzazione sanitaria che indagava sulla diffusione di un virus originario del Vietnam; i sintomi che descriveva assomigliavano molto agli effetti del mello jello: tornando a casa si aveva la sensazione di aver sbagliato porta; non si era in grado di riconoscere niente e nessuno; o, peggio ancora, non si era o si credeva di non essere riconosciuti da nessuno.
Esattamente come accadeva nel suo libro, in cui il celebre conduttore televisivo Jason Taverner si sveglia una mattina in una camera sconosciuta, condannato improvvisamente all’anonimato. Tutt’a un tratto nessuno ha mai sentito parlare del suo show, seguito fino al giorno precedente da trenta milioni di americani. Nessuno riconosce la sua faccia, che una settimana prima era sulla copertina di «Time». La sua amante, il suo agente e la sua segretaria gli voltano le spalle. Non ha più documenti, non c’è più traccia di lui né negli archivi della polizia né nella memoria dei contemporanei.
Quando, più di un anno dopo l’interruzione del libro, gli avevano raccontato la storia del mello jello, Dick se l’era bevuta solo in parte: era inquietante, certo, ma assomigliava troppo ai deliri dei tossici che sentiva a tutte le ore del giorno e a cui non di rado si abbandonava lui stesso. E soprattutto la coincidenza gli sarebbe sembrata più significativa se il tizio gli avesse parlato degli esperimenti della CIA prima che lui gli rivelasse la trama del suo romanzo, e non dopo. Ma il furto in casa e l’uso di un esplosivo dell’esercito spazzarono via i suoi dubbi. Ora gli sembrava molto plausibile che una squadra speciale assoldata dal complesso militare-industriale avesse frugato tra le sue carte per scoprire se ne sapeva di più di quanto si era lasciato sfuggire chiacchierando. Cercavano il manoscritto, che non avevano trovato. Ma i servizi segreti non si sarebbero fermati lì. Avrebbero sicuramente pensato al suo avvocato. Fu tentato di telefonargli per sapere se per caso anche la sua cassaforte fosse stata fatta saltare con dell’esplosivo, se avesse assunto una nuova segretaria o ricevuto offerte allettanti da sedicenti editori, ma poi cambiò idea pensando che una telefonata del genere avrebbe potuto destare sospetti. Oltretutto temeva di sentirsi rispondere: «Ma insomma, Phil, non ti ricordi? Non più tardi della settimana scorsa mi hai chiesto di rimandarti il manoscritto».
Avrebbe voluto rileggerlo per valutarne meglio la portata sovversiva. Perché non c’era solo la questione della droga. Il vero centro del libro era l’universo parallelo in cui quella droga proiettava Jason Taverner: una società totalitaria controllata da una polizia onnipotente. Di per sé niente di così allarmante: da sempre la fantascienza predilige questi scenari orwelliani, di cui, nel mondo libero, nessun censore si preoccuperebbe minimamente. Ma, per l’appunto, lui parlava proprio del mondo libero. Il suo romanzo era ambientato in America. A un certo punto c’era anche un accenno al presidente. Dick sapeva che per far pubblicare il libro avrebbe dovuto cambiargli il nome e gliene aveva anche trovato uno: Ferris F. Fremont, FFF, perché la F è la sesta lettera dell’alfabeto e 666 il numero della Bestia nell’Apocalisse; ma intanto nel manoscritto il tiranno si chiamava, nero su bianco, Richard Milhouse Nixon.
Da molto tempo aveva una teoria sull’ex governatore della California – il manigoldo dalle dita pelose di cui aveva seguito l’ascesa mentre lui, dal canto suo, scivolava sempre più in basso fino a toccare il fondo – e la esponeva con la stessa autorevolezza con cui denunciava le relazioni esistenti fra la Marlboro e il Ku Klux Klan: un altro dei suoi cavalli di battaglia. Nel caso della Marlboro faceva notare come le linee che, sul pacchetto, separano gli spazi rossi dagli spazi bianchi formino tre K, uno sulla parte davanti, uno su quella di dietro e un altro sul lato superiore; la teoria su Nixon si fondava invece sull’adagio: Is fecit cui prodest. Chi ci guadagnava dagli assassinii di John Kennedy, di suo fratello Robert e di Martin Luther King, o dall’attentato a George Wallace, se non un uomo di second’ordine, laido e furbo come Riccardo III e come Stalin, e come loro capace di eliminare tutti i più temibili rivali che si frapponevano tra lui e il suo obiettivo? Sì, Nixon era arrivato al potere con gli stessi metodi di Stalin e sfruttando le stesse protezioni. Con l’appoggio dei servizi segreti era riuscito a piazzare spie ovunque; e anche i sovietici lo sostenevano, perché faceva i loro interessi. Perché in realtà era dei loro.
A questo punto della dimostrazione in genere tutti scoppiavano a ridere. Nixon comunista, solo Phil poteva immaginare una cosa del genere! Ma lui insisteva, argomentava che l’evidenza della sua tesi balzava agli occhi di chiunque la prendesse in seria considerazione. Nixon era stato reclutato dal Partito comunista fin dai suoi esordi e, coperto dalla reputazione di politico conservatore acquisita grazie al maccartismo, si adoperava per fare del paese della libertà una criptocolonia dell’Unione Sovietica. I cittadini erano tenuti sotto sorveglianza, la delazione era stata eretta a sistema e – sommo trionfo – se l’Homo sovieticus era almeno consapevole di vivere in una prigione, l’americano medio era all’oscuro di tutto. Per questa superiorità la dittatura nixoniana si avvicinava all’ideale che i nazisti non avevano avuto il tempo di realizzare e che i russi, svantaggiati dalla loro atavica barbarie, si sforzavano invano di perseguire.
Dick aveva letto, se non Solženicyn, almeno gli articoli usciti su di lui quando aveva vinto il premio Nobel. Lo ammirava, pur non potendo fare a meno di pensare che in Russia il suo compito era agevolato: se non altro la gente gli credeva; nessuna persona ragionevole si sarebbe rifiutata di credergli. Invece un Solženicyn americano, che dicesse anche lui la verità e denunciasse i crimini di Nixon come l’altro aveva denunciato quelli di Stalin, non sarebbe stato neanche necessario chiuderlo in manicomio: lo avrebbero subito bollato come un pazzo, e nessuno lo avrebbe ascoltato. Scrivendo Scorrete lacrime, Dick aveva creduto di fare delle semplici congetture, ma più ci pensava, più vedeva quel libro come il suo Arcipelago Gulag: un’opera profetica, anche perché metteva in scena una realtà invisibile, inconcepibile. Del resto quelli che sapevano, i criminali di Stato, se n’erano ben accorti. Aveva subìto controlli fiscali, persecuzioni, furti; all’occorrenza non avrebbero esitato a eliminarlo fisicamente.
Come il suo omologo sovietico, viveva ormai nel terrore. I suoi nemici avevano colpito e avrebbero colpito ancora. Ormai la casa dell’Eremita non era più un nascondiglio sicuro, e alcuni dei suoi amici, che probabilmente non avevano la coscienza tranquilla, si erano dati alla macchia. Quanto alla polizia, lo trattava da delinquente più che da vittima. Poteva presentarsi lì per arrestarlo in qualsiasi momento. Nessuno avrebbe più sentito parlare di lui. Si sarebbe ritrovato in un campo di concentramento in Alaska, ammesso che non lo ammazzassero subito.
Mentre esaminava quello che rimaneva delle sue scartoffie nella casa vuota, senza musica, dove ogni minimo rumore lo faceva sussultare, si imbatté in un invito a una convention di fantascienza che si sarebbe tenuta a Vancouver nel mese di febbraio. In tempi normali lo avrebbe declinato senza pensarci due volte. Ma, in quelle settimane cupe, l’idea di essere l’ospite d’onore, di godersi un soggiorno all’estero completamente spesato gli offrì un’insperata prospettiva per il futuro. Doveva scrivere un discorso e decise che sarebbe stato il suo testamento. Forse era destinato a soccombere, ma non senza aver detto chiaro e tondo quello che pensava, come Solženicyn a Stoccolma.
Era la prima volta da un anno e mezzo che si sedeva alla macchina da scrivere. Donna, forse per fedeltà, forse perché non aveva un altro posto dove andare, passava ancora a fargli visita. Fu la sua ispiratrice e si fece anche convincere ad accompagnarlo in Canada. Stando al suo fianco, avrebbe rappresentato la gioventù ribelle, speranza dell’America, di cui lui intendeva tessere le lodi.
Nello Stato di polizia che vedeva affermarsi insidiosamente negli Stati Uniti, gli unici da cui ci si poteva aspettare un minimo resistenza erano i freak. Le opposizioni politiche sarebbero scese a patti come al solito o si sarebbero lasciate manipolare. Gli adulti, pieni di sé, non chiedevano altro che di adorare il Grande Fratello, barattando la propria fallibile e fragile umanità con le certezze dell’androide, il cittadino modello dei regimi totalitari. Se dunque la libertà aveva ancora una speranza, questa risiedeva nella mentalità da teste di cazzo dei più giovani: «Forza!» li esortava Dick. «Imbrogliate, mentite, fuggite, truffate, siate sempre altrove, procuratevi documenti falsi, gettate LSD nei serbatoi municipali d’acqua potabile, costruite nel vostro garage aggeggi elettronici più sofisticati di quelli in dotazione alle autorità. Se lo schermo della televisione vi spia, risintonizzatelo facendo in modo che il tirapiedi della polizia che controlla il vostro soggiorno si ritrovi a osservare casa sua. Pagate le multe con soldi falsi o con assegni scoperti o con carte di credito rubate. Dite al giudice che, se vi condanna, voi sostituirete le pillole anticoncezionali di sua figlia con delle aspirine. Oppure fate in modo che Vostro Onore risulti abbonato a una serie di riviste pornografiche. Se il resto non funziona, minacciatelo di usare la sua carta di credito per fare telefonate interplanetarie assolutamente inutili».
Donna avrebbe dovuto assistere alla conferenza, ed era previsto che alla fine Dick si girasse verso di lei e la invitasse ad alzarsi. Allora la rappresentante della gioventù ribelle, in giubbotto di pelle e anfibi, con i capelli neri che le ricadevano sugli occhi, avrebbe attraversato l’aula magna dell’Università della Columbia Britannica per raggiungerlo sul palco. Lo avrebbe baciato sulla bocca davanti a tutti mentre gli passava una canna, che lui avrebbe acceso fra gli applausi del pubblico. L’idea di questa scenetta addolcì un po’ le notti che lei si rifiutava di passare nel suo letto.
Ma, ahimè, il giorno della partenza Donna non si presentò all’appuntamento. Aveva rivenduto il biglietto che lui le aveva comprato ed era sparita dalla circolazione. Così Dick partì da solo, con una valigia in cui aveva messo qualche vestito di ricambio, una Bibbia e il testo del discorso, che dopo un simile tradimento gli sembrava assurdo.
Anche a noi, che ormai siamo diventati dei bravi democratici e arrossiamo al pensiero che, da ragazzi, davamo dei nazisti ai reparti antisommossa o del dittatore al povero Pompidou, quel discorso sembra assurdo. Ma in realtà all’epoca non aveva niente di sorprendente per il suo pubblico, abituato a sentire affermazioni del genere in bocca ai radicali americani. In quegli stessi anni, Leary invitava a «resistere alla robotizzazione in corso» e dichiarava che «sparare a un poliziotto robot genocida», vale a dire a un agente, era «un atto sacro». Dick fu quindi applaudito come oggi lo sarebbe in Francia un sindaco che, durante un comizio agrario, vantasse la grande varietà dei formaggi francesi e condannasse la burocrazia di Bruxelles. Questo distratto omaggio bastò a tirarlo su di morale. Lo intervistarono, lo fotografarono, gli fecero visitare la città, che trovò bella, gli presentarono giovani ammiratrici, che trovò ancora più belle. Lo portarono a ballare in discoteca. Donna, la casa svaligiata, la minaccia fascista persero consistenza: aveva trovato un’oasi di pace, una nuova cerchia di amici che accolse incredula ma entusiasta la sua decisione, presa fin dalla prima sera, di rifarsi una vita a Vancouver. Si sbronzarono insieme per festeggiare la notizia. Tutti gli diedero il proprio indirizzo e numero di telefono, assicurandogli che sarebbe stato sempre il benvenuto. E Dick era uno che prendeva in parola anche il più vago invito. Finita la convention, non avendo più la stanza pagata in albergo, chiese ospitalità a un giornalista che lo aveva intervistato, la cui giovane moglie, Susan, era un’appassionata lettrice dei suoi libri. I primi giorni i due furono deliziati dalla sua fantasia e dal suo umorismo. Risero fino alle lacrime vedendolo prendere in giro un testimone di Geova che aveva suonato alla porta e si sarebbero ricordati per tutta la vita di quell’omone barbuto con gli occhi scintillanti che parlava di entropia, di leggi della termodinamica e di transustanziazione. Ma l’appartamento era composto di due sole stanze, e dopo un po’ la presenza del grande scrittore, che dormiva sul divano del salotto, cominciò a essere di peso. Susan, che era ancora una studentessa, rimaneva in casa a sgobbare sui libri mentre suo marito andava al giornale. Date le circostanze, pensò Dick, la ragazza non poteva che essere felice di avere un po’ di compagnia. Meno ansioso di trovarsi un appartamento di quanto avesse detto, Phil acconsentiva ad andarne a vedere qualcuno solo se lei lo accompagnava. Erano le uniche occasioni in cui usciva. Nel resto del tempo camminava su e giù per il salotto, leggeva la Bibbia, ascoltava la musica e ogni cinque minuti andava a bussare alla porta della camera in cui Susan si rinchiudeva per chiederle se il volume era troppo alto, se voleva una tazza di caffè o se quello che stava studiando era interessante. Con voce dolente le cantava l’aria di Dowland, che aveva eletto a sua insegna musicale:
Flow, my tears, fall from your springs.
Exiled for ever, let me mourn...
Dapprima colpita e lusingata da quel corteggiamento così romantico, Susan la prese male quando Dick cominciò a sparlare di suo marito. Per tutta risposta lui, offeso dalla sua reazione, diventò aggressivo, sospettoso e manipolatore. Quando era solo in casa e rispondeva al telefono, si lamentava dei suoi ospiti con i loro amici. Non fu facile per Susan e suo marito metterlo alla porta e neppure, anni dopo, dare al biografo che era andato a intervistarli una testimonianza non troppo negativa su quell’uomo che nonostante tutto ammiravano ancora: «Viveva» concluse con sobrietà il marito «a un livello di intensità superiore a chiunque avessi mai incontrato, e insisteva perché tu prendessi parte al suo mondo. Ma noi non volevamo farlo».
Né lo volevano le varie ragazze con i capelli scuri che nell’euforia della convention lo avevano esortato a chiamarle nel caso fosse rimasto o tornato a Vancouver. E lui, in una squallida stanza d’albergo, chino sulla sua rubrica, poi sull’elenco telefonico della città, provò la stessa amarezza di un agente che, dopo aver fatto strage di cuori in estate prestando servizio sulle spiagge, torni a Parigi a fine stagione sperando di riallacciare i contatti con le ragazze di buona famiglia che ha abbordato al mare. Avevano tutte un marito, un amante o semplicemente qualcosa di meglio da fare che occuparsi di lui. Molte sembravano imbarazzate quando capivano chi era al telefono, come se dopo la fine della convention fossero venute a conoscenza di cose poco lusinghiere sul suo conto: naturalmente lui sospettò di Susan. Alcune addirittura non si ricordavano o fingevano di non ricordarsi di lui: veniva da pensare che avessero letto Scorrete lacrime.
Ancora una volta qualcosa era andato storto. Aveva creduto di trovare lo slancio necessario per iniziare, nel mezzo del cammin, una nuova vita e invece si ritrovava da solo in terra straniera. Nel migliore dei casi nessuno gli badava, nel peggiore... Nel peggiore lo avevano attirato laggiù, lontano dal suo territorio, per sbarazzarsi di lui. Il poliziotto a San Rafael gli aveva detto di andare a morire ammazzato da qualche altra parte, e lui aveva obbedito. Qualche giorno prima della partenza, quando ancora credeva che Donna lo avrebbe accompagnato, glielo aveva fatto notare: alla fine obbedisco a quel poliziotto, piego il capo; e se invece all’ultimo momento decidessi di non partire? Se mandassi a monte i loro piani? Allora Donna, che lo conosceva bene, aveva detto una cosa che lo aveva colpito: se non ci vai, ci andrà qualcun altro, terrà lui la conferenza e, da quel momento, sarà Philip K. Dick al posto tuo. Forse era davvero accaduto qualcosa del genere. Forse lui non era più se stesso, ma l’agente o l’androide incaricato di interpretare il suo ruolo. Durante la convention lo aveva interpretato a meraviglia, anche perché non sospettava nemmeno di star recitando: gli avevano impiantato una falsa memoria, per cui credeva di essere Phil Dick, lo scrittore sovversivo, l’appassionato di teologia, il donnaiolo impenitente. E poi aveva deciso di restare. Anche quella decisione era stata programmata? O invece, nel prenderla, aveva deviato dalla rotta prestabilita, con grande disappunto dei suoi capi, che da settimane cercavano di riacciuffarlo per distruggerlo o per riportarlo in laboratorio, dove avrebbero tentato di riparare il guasto? Nella versione ufficiale del mondo era già ripartito da Vancouver, come previsto. Non c’era dunque da stupirsi se tutti facevano come se non ci fosse. Si era avventurato in un segmento di realtà di cui era l’unico abitante e così era diventato un fantasma.
Non voglio abbandonarmi alle congetture. Certo, se stessi scrivendo un romanzo, lo farei senza tanti scrupoli: sarei tentato, e lo sono stato, di ambientarne la trama nelle due settimane su cui mi soffermerò in questo unico paragrafo. In corrispondenza di queste due settimane c’è un buco nella biografia del mio personaggio, e penso non esista un romanziere che, di fronte a un buco del genere, non sognerebbe di farci il nido: seguire Agatha Christie nella sua fuga misteriosa, Robespierre a Ermenonville, dove si ritirò, a quanto dicono, alla vigilia di Termidoro, o Cristo nel deserto. Il tempo trascorso in assenza di testimoni si colora di una magia potentemente romanzesca. E io trovo che ci sia una profonda disparità, raramente sottolineata, fra coloro che godono del privilegio di poter incrociare per una settimana o per sei mesi solo sguardi estranei, che è un po’ come dire nessuno sguardo, e coloro che gli obblighi dell’esistenza tengono costantemente incatenati sotto gli occhi dei familiari.
Glenn Gould diceva che per ognuno di noi esiste una giusta proporzione, spesso a noi stessi ignota, fra il tempo passato da soli e quello passato in compagnia dei nostri simili. Lui aveva bisogno di giornate intere per purificarsi di un’ora in società. Dick, al contrario, aveva una paura tremenda della solitudine. Il suo ideale era potersi rinchiudere in una stanza a lavorare ogni volta che ne aveva voglia, ma con una donna che lo aspettasse nella stanza accanto e vegliasse su di lui. Per questo motivo, se è azzardato fare supposizioni su quello che gli passava per la testa, il biografo non ha grandi difficoltà a ricostruire i fatti della sua vita, a sapere dove si trovava in un determinato giorno e con chi. Ci sono cinque mogli e decine di amici pronti a testimoniarlo. Di qui il mistero di quelle due settimane che, in una vita meno esposta allo sguardo degli altri, passerebbero inosservate.
Come sono tante le persone che hanno subìto un furto in casa, così lo sono pure quelle a cui è capitato di passare qualche giorno da sole in una città straniera. È molto probabile, benché non ci siano prove sicure, che Dick sia stato vittima di un banale furto con scasso, come ne vengono denunciati a decine ogni giorno in qualsiasi commissariato di periferia; allo stesso modo, è probabile che nel marzo del 1972 abbia vagato senza meta per le strade di Vancouver, guardato la televisione in qualche stanza d’albergo, preso manciate di pillole, fatto centinaia di telefonate a ragazze che l’hanno mandato a farsi benedire e che la Provvidenza non ha ritenuto utile presentare ai suoi biografi. Ma, per l’appunto, non ci sono testimoni, neanche lui stesso: quelle due settimane, appena furono passate, o forse via via che passavano, si cancellarono dalla sua memoria.
Il 23 marzo ritrovò se stesso. Come Jason Taverner nel suo libro, era sdraiato sul letto di una lurida stanza d’albergo. Chiamò Susan, la giovane moglie del giornalista, per annunciarle che aveva intenzione di «spegnere le luci». Lei gli riattaccò il telefono in faccia, spazientita, senza capire il significato di quell’allusione al testo di Flow, My Tears:
Down vain lights, shine you no more!
Ma lui immaginò che Susan avesse capito benissimo e che il suo ostentato silenzio significasse: «Puoi anche crepare». Cosa che lui cercò di fare assumendo settecento milligrammi di bromuro di potassio. Si addormentò. Quando, un po’ più tardi, riemerse dal sonno, notò sul palmo della sua mano sinistra un numero di telefono che evidentemente la destra, a un certo punto, aveva scarabocchiato. A tastoni lo compose. Era il numero per le emergenze.
Rimase qualche giorno in ospedale. Fu messo subito fuori pericolo, ma il problema era decidere dove mandarlo dopo. Lui giurò che non aveva nessun posto dove andare, che ci avrebbe riprovato appena fuori di lì, che era tossicodipendente. Possibile che non ci fosse un centro di disintossicazione in Canada? Certo che sì, gli risposero, c’era X-Kalay, ma era meglio che non si facesse illusioni, lì dentro c’era poco da divertirsi: astinenza totale, nessun farmaco per aiutare a sopportare le crisi, sorveglianza ininterrotta. Perfetto, assicurò lui, è proprio quello che fa al caso mio.
Solo che a X-Kalay curavano esclusivamente gli eroinomani.
Nessun problema, io sono eroinomane.
Il medico probabilmente considerò con occhio scettico il fisico corpulento del suo paziente, che in realtà aveva l’aria devastata di uno che abbia preso tutte le droghe del mondo fuorché quella. Ma i fatti stanno lì a dimostrare quanto fosse forte l’ascendente che Dick aveva sul personale medico: pesava cento chili, X-Kalay era davvero un centro specializzato nella disintossicazione degli eroinomani, cioè di tizi che sembravano scheletri ambulanti, eppure fu tranquillamente ammesso al termine di un colloquio con persone esperte e che non avevano certo voglia di scherzare.
Se si esclude il fatto che ci si entra di propria spontanea volontà – e nel suo caso anche insistendo molto –, il rituale dell’ingresso in un centro di disintossicazione «duro» come X-Kalay non è molto diverso dall’incarcerazione di un detenuto. Si barattano i vestiti civili con pigiama e pantofole di feltro, il proprio nome con un altro attribuito in maniera arbitraria; si è pregati di non parlare del proprio passato, né in generale del mondo esterno; si rinuncia alla propria volontà. Da quel momento in poi non bisogna fare niente che non sia prestabilito e controllato.
Per un paradosso, d’altronde piuttosto comune, Dick si sentì immensamente sollevato nell’essere accolto in quell’istituto che assomigliava al campo di concentramento dove aveva tanto temuto che lo mandassero. Lui, un tempo così geloso della sua libertà, ora non chiedeva altro che di essere affidato a qualcuno. Decidevano tutto al posto suo: l’ora della sveglia e l’ora di andare a letto, l’ora del lavoro e l’ora del riposo; che liberazione! Del resto, dopo essersi così a lungo lamentato del controllo poliziesco di cui pensava di essere vittima, aveva imparato a sue spese in quale abisso si precipita quando nessuno ti guarda. In assenza di testimoni cessava di esistere. Lo aveva già sospettato nel corso degli ultimi mesi passati a Hacienda Way, quando credeva di temere e in realtà sperava che la polizia lo filmasse. Anche se non poteva visionare i nastri, anche se nessuno li aveva visionati, era già qualcosa sapere, o almeno supporre, che quei nastri esistevano, che da qualche parte, perduta sotto tonnellate di documenti d’archivio altrettanto inutili e al tempo stesso vitali, era conservata una testimonianza di quello che aveva fatto, minuto per minuto, in tutti i giorni e le notti di cui aveva perso la memoria. Certo, una testimonianza di quel tipo poteva fornire informazioni solo sui gesti e le parole prodotti dalla macchina umana chiamata Phil Dick. I pensieri non poteva registrarli, ma lui avrebbe dato qualunque cosa anche semplicemente per sapere se aveva o non aveva firmato certi assegni che risultavano dal suo estratto conto e di cui non aveva memoria, o se aveva risposto male alle telefonate di persone amiche, come gli era stato rinfacciato: probabilmente uno dei tanti tossici che abitavano in casa sua aveva trovato divertente farsi passare per lui, così sosteneva per difendersi, ma era chiaro che nessuno ci credeva, e lui stesso non ne era poi tanto sicuro. Naturalmente la scena clou del filmato sarebbe stata quella del furto, di cui lui riteneva responsabile la polizia di Nixon, mentre non solo la polizia, ma anche alcune delle persone amiche appena citate ritenevano responsabile lui stesso: lo avrebbe architettato per far sparire certe carte che il fisco era sul punto di richiedergli, oppure per rendersi interessante, o in un momento di follia... Lui o Nixon: supponendo, uno, che il film esistesse, due, che nessuno avesse potuto manipolarlo, quelle immagini erano l’unico modo per ricostruire la verità, e lui pregava perché un giorno gli fosse concesso di vederle.
Gli ospiti di X-Kalay non venivano filmati, ma non erano abbandonati a loro stessi neppure per un istante. Dormivano insieme in grandi camerate, facevano la doccia a gruppi, e in bagno dovevano lasciare la porta socchiusa.
La prima settimana i bagni furono il suo mondo. Pulirli era considerata una mansione adatta ai bisogni e alle capacità dei nuovi. Quando Phil arrivò i nuovi erano due, e c’erano tre bagni, uno per piano, sicché non c’era modo di fare i lavativi. Come diceva il sorvegliante che gli aveva consegnato secchio, straccio e spazzolone: «L’importante non è quello che si fa, ma farlo bene e poterne essere fieri». E Dick, fedele alla consegna, pulì le latrine con la meticolosità di un restauratore di quadri. Riuscì a concentrarsi su questo compito e a farlo senza perdercisi: dopo una o due ore di pulizia dello stesso water, sapeva fermarsi, ritenendo di aver finito, e passare al successivo. Questo comportamento dimostrava un equilibrio poco comune a X-Kalay. Il suo compagno, per esempio, non portava mai a termine un lavoro. Se lo incaricavano di lavare un pavimento, iniziava a fare come gli avevano mostrato, ma dopo qualche minuto si imbatteva in un ostacolo invisibile e tornava al punto di partenza. Ricominciava e si bloccava di nuovo, esattamente nello stesso punto, come un disco graffiato. Era capace di andare avanti così per una giornata intera. Dick avrebbe voluto aiutarlo, ma come? Poteva finire di pulire il pavimento al suo posto, ma non certo bonificare quel groviglio caotico e ormai sclerotizzato a cui la droga aveva ridotto il suo cervello. In quel cervello non sarebbe entrato più niente di nuovo, perché era morto, anche se biologicamente il tizio era ancora vivo. Le mani, gli occhi, la lingua svolgevano le loro funzioni, ma la persona che se ne serviva era scomparsa. Restava solo una macchina dotata di riflessi condizionati, che si limitava a ripetere a pappagallo le ultime istruzioni ricevute: «Prova ancora, prova ancora». In genere si ritiene che i pappagalli non capiscano una parola di quello che imparano a dire: per questo Jerry, un ex ospite di Hacienda Way, aveva pensato di essere spiritoso insegnando al suo la frase: «Non capisco una parola di quello che dico». Ebbene, per un motivo o per un altro, il pappagallo, di solito obbediente, non aveva mai saputo, o mai voluto, ripeterla. Un equivalente di questo fugace scarto dal loop di programma in cui consisteva la sua vita psichica si verificò quando il compagno di Dick sollevò su di lui il suo sguardo vacuo e, invece di ripetere l’ultima frase che gli era stata detta, chiese in tono sconfortato: «Perché non ci riesco?».
Dick rimase turbato. Sembrava una scena di uno di quei film pieni di speranza e di buoni sentimenti sui disabili, sul tipo di Anna dei miracoli, quei film in cui tutt’a un tratto ci si accorge che il bambino sordo ci sente, la tetraplegica è in grado di camminare. Ma quando provò a parlargli, l’altro continuò a ripetere: «Perché non ci riesco?», al punto che Dick si chiese se non fosse stato lui il primo a pronunciare sovrappensiero, senza rendersene conto, quella frase. A ogni modo che cosa poteva mai rispondergli? «Non ci riesci perché ti sei irrimediabilmente bruciato il cervello»? Tanto valeva tirare lo sciacquone, era più eloquente.
Per una persona che poteva ancora disintossicarsi il trattamento di X-Kalay aveva i suoi vantaggi, tra i quali quello di demolire qualsiasi idea romantica sulla droga. Gli irrecuperabili servivano da esempio agli altri, che erano accomunati dall’odio isterico contro ciò che l’assuefazione aveva rischiato di fare di loro. Molti di quelli che riuscivano a cavarsela, temendo di ricaderci appena fuori di lì, restavano a X-Kalay in qualità di supervisori e si distinguevano per la loro brutalità. Questa parte del personale interamente composta da tossicodipendenti pentiti pensava probabilmente di combattere il peccato e non il peccatore, ma in realtà, siccome il peccato aveva completamente divorato molti dei peccatori, trattavano questi ultimi con l’ostilità risoluta e spietata del professor Van Helsing nei confronti degli uomini trasformati in vampiri: l’uomo è degno di compassione, certo, ma bisogna capire che, a dispetto delle apparenze, dell’uomo non c’è più traccia; ormai c’è solo il vampiro, e bisogna impedirgli di nuocere.
L’odio per la droga era al centro di questo mondo, come l’ossessione di procurarsene era stata al centro di quello in cui Dick aveva vissuto da quando Nancy lo aveva lasciato. Con le sue spiccate capacità mimetiche adottò all’istante il nuovo sistema di valori, di cui divenne il sostenitore più eloquente durante le sedute di espressione di gruppo. Visto che ognuno era invitato a dire quello che gli passava per la testa, si scambiavano perlopiù pesanti insulti, e Dick non si scomponeva più di tanto nel sentirsi dare, come tutti gli altri, del succhiacazzi, del rotto in culo, del pezzo di merda, del topo di fogna o del vecchio sifilitico. Prese meno bene le spiritosaggini su sua sorella; gli altri se ne accorsero e rincararono la dose: «E tua sorella, allora, te la sei scopata, tua sorella?». Ma lui segnò un punto decisivo a suo favore rispondendo a un cretino che continuava ad assillarlo: «Va bene, vorrà dire che ripasserò giovedì». La battuta fece ridere i presenti, almeno quelli che erano in grado di ridere e di capire l’allusione a una storiella raccontata poco prima: un tale conosceva un tizio che un giorno era andato a trovare un vecchio amico. Arrivato davanti a casa dell’amico, il tizio chiede alle persone che stanno là se può vedere Leo. «Oh,» gli rispondono «siamo spiacenti, ma Leo è morto». «Va bene,» dice il tizio «vorrà dire che ripasserò giovedì».
Da quel momento, appena qualcuno a X-Kalay non capiva quello che gli dicevano, o non aveva voglia di rispondere, o non trovava il rotolo di carta igienica che lo avevano mandato a prendere, se la cavava dicendo: «Va bene, vorrà dire che ripasserò giovedì», e la paternità di questa battuta ormai rituale, come l’«Ossequi!» del telefilm Il prigioniero, era implicitamente attribuita a Dick. Ogni settimana si stilava la lista dei contributi di ciascun partecipante alle sedute di espressione di gruppo, e a Dick venne riconosciuto il merito di avervi introdotto l’umorismo. Nonostante le penose condizioni in cui versava, disse un medico, aveva conservato la capacità di vedere il lato divertente delle cose. Lo applaudirono. Lui ringraziò, ripetendo come un pappagallo: «Va bene, vorrà dire che ripasserò giovedì».