22
QUELLA CHE STAVA ASPETTANDO

Nella Valle della Luna, a nord di San Francisco, c’è una bella città, Sonoma, e in questa bella città viveva una bella donna di nome Joan Simpson. Aveva i capelli neri, un corpo flessuoso, irrobustito dalla pratica delle arti marziali, e una maniera disinvolta di sedersi nella posizione del mezzo loto, con il piede abbronzato poggiato sulla coscia, che rivelava una sensualità radiosa e una serenità sconosciuta alla maggior parte delle persone. Lavorava in un ospedale psichiatrico, leggeva Jung, Ronald Laing e Sri Aurobindo. Un lievissimo strabismo la rendeva ancora più affascinante.

Benché non fosse un’appassionata di fantascienza, un giorno le era capitato tra le mani un romanzo di Dick. Non sappiamo quale, ma sappiamo che poi si era procurata anche tutti gli altri. Per farlo aveva preso contatti con alcuni librai specializzati, ai quali parlava del suo nuovo autore preferito con entusiasmo, come se sapesse da fonte certa che nel giro di uno o due secoli sarebbe stato considerato il più grande profeta del nostro tempo. Non escludo che possa aver detto quello che io stesso andavo ripetendo quando ero un adolescente con gli occhialini tondi sul naso e un paio di vecchie Clarks ai piedi, cioè che Dick era il nostro Dostoevskij, l’uomo che aveva capito tutto. In bocca a una giovane donna seducente e colta, che non era pazza e non apparteneva al Lumpenproletariat culturale come gli altri suoi fan, una simile convinzione non passava inosservata. Uno dei librai, che conosceva Dick, gli scrisse per parlargli di questa sua tenace ammiratrice. Seguirono lettere e telefonate. Non so se fu Phil o Joan a citare per primo il finale della Svastica sul sole. Fatto sta che Joan, come Juliana, mise l’I Ching nel portabagagli della macchina e, indossata una maglietta senza reggiseno, si diresse verso il Sud della California per incontrare Dick e assicurargli che inspiegabilmente, ma ai suoi occhi incontrovertibilmente, tutto ciò che aveva scritto era vero.

 

 

Dal momento che «il castello» di Hawthorne Abendsen era in realtà una casetta di periferia, Joan non si stupì che Dick abitasse in un piccolo appartamento. Si disse che quell’uomo barbuto dagli occhi scintillanti, stranamente distinto nonostante l’abbigliamento trascurato e la nuvola di tabacco da fiuto che gli si sollevava intorno a ogni suo gesto, assomigliava parecchio allo scrittore del romanzo. Adesso aveva la sua stessa età. Quando le chiese che cosa volesse bere, lei rispose: «Qualsiasi cosa tranne un Old Fashioned, naturalmente» ed entrambi scoppiarono a ridere.

Fin dall’inizio si parlarono come se si conoscessero da sempre. Può capitare a chiunque di provare una forte emozione per una frase banalissima, ma è raro e meraviglioso che due persone che si vedono per la prima volta provino esattamente le stesse. È ciò che accade in qualche caso, secondo i fautori della reincarnazione, tra due perfetti sconosciuti che in una vita precedente si sono amati. Non è necessario credere alla reincarnazione per sperimentare una gioia simile in certi incontri d’amore, ma ciò che univa Dick e Joan Simpson assomigliava di più al primo fenomeno che al secondo. Tecnicamente non furono nemmeno amanti: in quel periodo l’Esegesi aveva reso Dick impotente. Ma passarono insieme tre settimane, senza uscire quasi mai di casa, estasiati dalla certezza che quanto stava succedendo era stato preparato per loro, da lungo tempo e a loro insaputa, e li sovrastava senza schiacciarli. Nelle conversazioni che improvvisavano, riconoscevano il testo di una pièce scritta apposta per loro. Avevano dimenticato che l’autore era Dick, o forse credevano entrambi che gli fosse stata dettata da qualcun altro.

Nella penombra dell’appartamento con le tapparelle abbassate, sfiorandosi la faccia con la punta delle dita come fanno i ciechi, continuarono a parlare giorno e notte. Sapevo che mi avresti riconosciuta, diceva Joan, e Dick, dal tono della sua voce e dal luccichio dei suoi denti, capiva che stava sorridendo. E io, rispondeva, sapevo che saresti venuta. Ho sempre saputo che un giorno saresti venuta, ma da qualche settimana l’ho anche sognato...

Le disse tutto. Sottovoce, senza fretta, le raccontò del suo risveglio spirituale come di un’epopea della quale, insieme, ripercorrendo i suoi libri in ordine cronologico, ricostruirono le tappe. Spesso Joan anticipava le sue spiegazioni; leggendo quello che aveva scritto aveva già intuito tutto anche senza conoscerlo: com’era stato inviato in questo mondo; i ricordi bloccati; l’assenza della cordicella che l’aveva messo in allerta, facendogli sospettare che il nostro universo fosse solo un simulacro; l’auscultazione ansiosa di quel simulacro nei libri degli anni Sessanta; l’atto d’accusa contro il demiurgo nelle Tre stimmate di Palmer Eldritch; la denuncia dei sistemi tramite cui ci tiene prigionieri: droghe, impianti di falsi ricordi; e, in Ubik, la prima apparizione dell’entità benefica, tanto umile e discreta quanto il demiurgo era aggressivo e tirannico: il Paracleto non è che una brezza leggera, una spruzzatina di uno spray da quattro soldi in una pubblicità per casalinghe, è fondamentale che tu lo capisca, amore mio, è la cosa più importante. Le riferì le reazioni che i suoi scritti avevano suscitato, quando il loro significato ancora gli sfuggiva: amici e nemici, figli della Luce e figli delle Tenebre; le sconfitte che gli avevano inflitto i suoi nemici: i vagabondaggi, il desiderio di morte, la spirale di perdizione in cui era rimasto intrappolato per dieci anni, fino al ritorno alla superficie, alla memoria, alla luce, nel 1974. Ma c’era qualcosa che non quadrava. Da quel momento in poi tutto avrebbe dovuto condurlo verso la gioia perfetta e invece tutto era andato storto. Tommaso, la sua guida, lo aveva abbandonato. Ancora una volta aveva perso la sua famiglia. Pur trovandosi dalla parte dei vincitori, per non dire tra gli artefici della vittoria, era una vittima della guerra. Tutto quello che aveva previsto era diventato realtà, la luce aveva trionfato e lui si sentiva preso in giro. Ora poteva vivere tranquillo, ma che vita era? Una vita solitaria, senza amore, in un misero appartamento di Santa Ana; una vita tutta mentale, una vita da topo in gabbia, votata all’ascolto di nastri magnetici nixoniani riprodotti senza tregua nel suo cervello e all’elaborazione di una cosmogonia che, per giunta, era sicuramente falsa. Perché il Programmatore, così come Lo immaginava lui, non poteva trattarlo come l’URSS aveva trattato i combattenti delle Brigate Internazionali che si erano rifugiati nel suo territorio dopo la guerra di Spagna, consegnandoli a Hitler. Il sommo Altro, se era proprio con Lui che aveva a che fare, non poteva abbandonarlo all’inferno dell’Ego. Era impossibile. La sua vita non sarebbe finita così. Toccato il fondo della disperazione e della solitudine, ossessionato da quel libro che si rifiutava di prendere forma, a un tratto aveva avuto la netta sensazione che stava per accadere qualcosa, che quel triste incubo era solo la penultima sequenza del film, quella in cui si teme il peggio, ma che in realtà prelude all’happy ending. In sogno aveva visto arrivare una donna. Gli era sembrato di sentire nel letto, accanto a lui, il peso del suo corpo tiepido e saldo. Conosceva già la dolcezza dei suoi seni nel palmo delle mani. Una notte, svegliatosi di soprassalto, aveva allungato il braccio e aveva toccato il pelo di Pinky, raggomitolato sul cuscino, e invece di disperarsi aveva sorriso nell’oscurità: il Programmatore si prendeva gioco di lui, ma non avrebbe continuato a lungo. Presto sarebbe arrivata la sua ricompensa. Per raggiungerlo, lei avrebbe guidato un giorno intero, avrebbe indossato una maglietta senza reggiseno e si sarebbe seduta nella posizione del mezzo loto, con il piede sulla coscia. Sì, proprio così.

Dio mio, quanto ti ho aspettata!

Lo so. So già tutto. Ora sono qui.

 

Con l’arrivo di Joan, Dick ricominciò a vivere. Lui, che non usciva più di casa se non per andare al supermercato all’angolo, a casa di Powers o, accompagnato dallo stesso Powers, alle sedute con Maurice, lasciò senza parole i membri della Rhipidon Society quando, con la massima naturalezza, chiese se, nei mesi a venire, in sua assenza, qualcuno avrebbe potuto occuparsi dei gatti. Sì, stava progettando di passare l’estate a Sonoma con un’amica. «No, non credo che la conosciate...». Ah, e poi, a settembre, sarebbe andato a Metz, in Francia, per partecipare a una convention di fantascienza di cui sarebbe stato l’ospite d’onore.

Sul momento nessuno gli credette, e invece passò davvero l’estate a Sonoma e andò davvero a Metz, in Francia. Sempre insieme a Joan, da lei incoraggiato e circondato da tanto TLC, parola in codice che usavano per tender loving care. In inglese care significa al tempo stesso prendersi cura di qualcuno e preoccuparsi per lui: era esattamente ciò che Dick desiderava da una donna e che Joan seppe dargli per qualche mese. Da lei ricevette anche un grosso ciondolo a forma di croce, che prese a portare al collo giorno e notte, attaccato a una robusta catenina.

Per la convention di Metz gli avevano chiesto di preparare un discorso. La richiesta era arrivata nel periodo giusto, quello iniziato con l’arrivo di Joan. Ogni uomo ha qualche cosa che gli fa paura, ma anche qualche cosa che desidera più di ogni altra al mondo. A questa fantasia, diciassette anni prima, Dick aveva dato forma in un libro, e ora si era materializzata. Juliana era arrivata sul serio e gli aveva detto che aveva ragione. Adesso poteva uscire allo scoperto e annunciare al mondo la verità. Apprezzava l’accortezza della Provvidenza, grazie alla quale i primi a esserne informati sarebbero stati i francesi, i suoi più ferventi ammiratori.

Una volta scelto il titolo del discorso – Se vi pare che questo mondo sia brutto, dovreste vederne qualche altro –, lo scrisse in una sorta di trance. Come lo spray Ubik contrastava l’entropia, così il TLC di Joan rigenerava i suoi pensieri. Dal cantiere dell’Esegesi scaturì una cosmogonia finalmente coerente e che lui sapeva esatta. Bastava partire dalla Svastica sul sole e seguire il percorso fino all’apparizione reale di Joan davanti alla porta di casa sua. Lungo quel percorso ogni cosa trovava posto e acquistava un senso: l’idea degli universi paralleli, la predicazione di Cristo, l’operato del Programmatore nel segmento temporale che andava dalla sua esperienza della primavera del 1974 alla caduta di Nixon. Naturalmente la dissertazione teologica si concludeva con una dichiarazione d’amore: nella parte finale Dick raccontava dell’arrivo di Joan e della conferma decisiva che lei gli aveva dato; la sua presenza poteva essere considerata, per certi versi, una prova dell’esistenza di Dio. Forse sarebbe stato opportuno che in quel momento un proiettore la illuminasse e che lei lo raggiungesse sul palco e baciasse prima la croce che gli aveva regalato e poi le sue labbra... No, aveva già immaginato una scena del genere per Donna e la cosa non gli aveva portato fortuna.

 

 

Per tutta l’estate provò il suo discorso davanti a un registratore. Joan lo ascoltò molte volte, lo aiutò a trovare l’intonazione giusta. A quanto pare non espresse nessuna riserva sul contenuto. Quando si imbarcarono per la Francia, Fat era convinto di avere la situazione sotto controllo. Passò la lunga notte del viaggio in aereo a mormorare, con gli occhi socchiusi e la mano di Joan stretta nella sua, alcuni passaggi del discorso. A volte, immaginando le reazioni del pubblico, ridacchiava tra sé e sé. Non era la prima volta che faceva un intervento a una convention di fantascienza, senza contare tutti quelli che aveva sentito: nella maggior parte dei casi erano infarciti di aneddoti divertenti, allusioni maliziose, scappellate ai grandi classici e parole di incoraggiamento ai giovani alle prime armi... Pensando a quello che avrebbe detto lui, alla bomba che all’insaputa di tutti portava in valigia, si sentiva come il profeta Isaia invitato a parlare a un Tupperware Party.

Attraversò l’Atlantico quasi certo di andare verso il trionfo. Un trionfo che, se il suo discorso fosse stato capito, ovvero se gli avessero creduto, non avrebbe avuto niente a che vedere con un semplice successo letterario. Le sue parole sarebbero state una rivelazione. Avrebbero cambiato la vita della gente. Una folla sempre più numerosa avrebbe fatto la fila per andarlo a sentire, perché, inevitabilmente, avrebbe tenuto altre conferenze. Come Ragle Gumm, sarebbe stato nominato uomo dell’anno e sarebbe apparso sulla copertina di «Time», e la cosa un giorno sarebbe apparsa ridicola e commovente, come spesso capita con le reazioni dei nostri antenati di fronte ad avvenimenti di cui non hanno saputo capire l’importanza. Sarebbe stato il Cristoforo Colombo degli universi paralleli. E un giorno il mondo avrebbe finito per comprendere che il 24 settembre 1977 era cominciata una nuova èra.

 

 

Nel ritenere i lettori francesi un esercito di potenziali discepoli pronti a convertirsi, Dick si sbagliava di grosso. Era atteso con impazienza, è vero, ma da una folla di sessantottini cresciuti leggendo «Charlie Hebdo», che ammirava la testa di cazzo che lui si vantava di non essere più: Dick il paranoico, il tossico, l’estremista di sinistra, Dick l’irrecuperabile. Allettati da quanto avevano sentito dire sui «problemi personali» che giustificavano il lungo silenzio creativo del loro idolo, i partecipanti alla convention di Metz si aspettavano di veder scendere dall’aereo una larva con il volto contratto, inebetita dalla droga, e rimasero delusi quanto lo sarebbero dei giornalisti rock nell’udire i propri idoli trasgressivi fare l’elogio della vita di famiglia e del pensiero positivo sorseggiando acqua minerale. Dick stava bene, era addirittura in ottima forma. Rideva, occhieggiava le ragazze, mangiava per quattro, visibilmente contento dell’interesse che lo circondava, di essere in Francia e di aver preso l’aereo. La prima sera un vicino di tavolo lo interrogò con aria ammiccante sulle pillole che aveva allineato accanto al piatto. Dick gli rispose che erano per il mal di stomaco, e lo fece con una tale sicurezza che l’altro dovette rassegnarsi a crederci.

 

 

L’indomani, davanti al pubblico riunitosi nella sala congressi dell’hotel Sofitel per ascoltare la sua conferenza, apparve fin dal suo ingresso molto meno rilassato. La grande croce che gli pendeva sul petto villoso, ben visibile sotto la camicia sbottonata, suscitò sorpresa e turbamento, come un segno di cui non si può ignorare la presenza ma il cui significato è tutt’altro che chiaro: non poteva certo trattarsi di una professione di fede cristiana, la sola idea avrebbe suscitato l’ilarità generale; l’unica ipotesi plausibile era che fosse uno scherzo, magari una parodia del folklore vampiresco, ma in quel caso mancavano gli spicchi d’aglio.

Il pubblico era perplesso, e Dick, per l’agitazione, sudava copiosamente. Joan, fuori di sé perché lui si era messo a corteggiare sotto i suoi occhi una giovane giornalista, era rimasta tutta imbronciata nella sua stanza. Dick si sentiva solo, senza un briciolo di TLC e sempre meno convinto di quello che stava per dire. La sala si andava riempendo in un fitto brusio; c’erano sedie che sbattevano e flash che lampeggiavano. Il microfono, quando un tecnico lo provò, produsse un suono simile a quello di un contatore Geiger impazzito. Per regolare il volume e ridurre il fischio, chiesero a Dick di dire quello che voleva, una cosa qualsiasi. E lui, sotto gli occhi cerchiati di metallo dei magri e sardonici capelloni seduti in prima fila, con i montgomery e i cappotti militari, recitò il versetto in cui san Paolo invita colui che deve annunciare il Verbo a non aver timore, perché lo Spirito pensa a tutto. Per fortuna nessuno lo capì, ma Dick si rese conto che ormai non era più sicuro che l’apostolo avesse ragione. Era in preda al panico, come un uomo che, da ubriaco, ha fatto una scommessa assurda e poi, smaltita la sbornia, si ritrova con le spalle al muro e capisce di non poter scampare al ridicolo che lo accompagnerà fino alla fine dei suoi giorni. Per resistere alla tentazione di alzarsi e fuggire via di corsa, si mise di punto in bianco a leggere il suo discorso, senza aspettare il segnale. Chi lo ha sentito ricorda una voce spenta, metallica, ben diversa da quella del chiassoso convitato della sera precedente; a molti venne da pensare che, come in un suo romanzo, il vero Dick fosse stato sostituito da un simulacro tarato male, che rischiava di fulminarsi da un momento all’altro per un corto circuito e di saltare in aria assieme a tutti quelli che gli stavano attorno.

 

 

L’intervento si apriva con una serie di considerazioni piuttosto banali sull’affiorare di nuove idee, sulla loro ovvietà retrospettiva, sulla classica differenza tra invenzione e scoperta. Dick disse di essere convinto che uno scrittore non inventa mai niente: si limita a scoprire delle verità che aspettavano solo di essere portate alla luce, e sono quelle verità a trovare il loro «inventore», non il contrario. Il pubblico aveva la netta sensazione che l’oratore fosse un po’ troppo nervoso ed era infastidito dalle continue interruzioni del traduttore, ma in fondo non trovava niente di strano in quelle affermazioni che, apparentemente, sembravano riguardare solo i romanzi. L’evocazione del Regno di Dio fece drizzare le orecchie a quanti erano già rimasti sconcertati nel notare la croce, ma fu un allarme passeggero: un critico colto, rivolto al suo vicino di poltrona, citò con un sorriso malizioso la formula di Borges secondo cui la teologia sarebbe solo una branca della letteratura fantastica.

In effetti il discorsetto teologico di Dick era piuttosto fumoso: accennava a una partita a scacchi tra il Programmatore e l’Avversario, e ai cambiamenti che ogni mossa determina nella configurazione della realtà. Andò avanti per una buona mezz’ora. Avrebbe potuto recitare l’elenco del telefono senza che gran parte del pubblico se ne accorgesse. Gli spettatori più attenti, tuttavia, cominciarono a sentirsi stranamente a disagio: un po’ come i passeggeri di un treno ai quali un rumore sospetto o un sobbalzo che sembra non infastidire gli altri viaggiatori faccia presentire un incidente; cercano di convincersi che hanno torto, che il nervosismo gli sta giocando un brutto tiro, che in treno è normale sentire dei rumori, finché a un tratto, con un violento scossone che sembra nato dalla loro angoscia e un frastuono apocalittico, il treno deraglia dai binari: ecco, è successo davvero.

 

 

Dick tossicchiò, riordinò i fogli e riprese a parlare a voce improvvisamente più alta:

«A questo punto sarebbe necessario chiamare a testimoniare qualcuno che sia in qualche modo riuscito – non importa come – a conservare ricordi di un presente diverso. A rigor di logica, dovrebbe essere peggiore di quello in cui viviamo, perché l’operato di Dio tende sempre al miglioramento. Da un punto di vista teorico immagino si possa obiettare che Dio potrebbe essere malvagio o folle e sostituire un mondo migliore con uno peggiore; a essere sinceri, però, non riesco a prendere sul serio questa obiezione. Chiediamoci, invece: c’è qualcuno che si ricorda dell’esistenza di un mondo del 1977, all’incirca, peggiore del nostro?

«La risposta è: sì, io.

«Nella Svastica sul sole il romanziere Hawthorne Abendsen scopre che quello che è scritto nel suo romanzo, da lui considerato pura finzione, è vero. Ho scoperto la stessa cosa a proposito dei miei libri. Né La svastica sul sole, né Ubik, né Scorrete lacrime sono, come credevo, opere di immaginazione. O, se preferite, lo sono solo qui, nell’universo in cui ci troviamo e che, grazie a Dio, ha sostituito quello da cui provengo.

«Sono certo che non mi credete, e forse non credete nemmeno che ci creda io stesso. Eppure è la verità. Siete liberi di credermi o meno, ma vi giuro che non sto scherzando: è una cosa molto seria, una questione importante. Certo, capirete che anche per me una simile affermazione è di per sé sconcertante. Molti sostengono di ricordare una vita passata, ma io sostengo di ricordare un’altra, diversissima, vita presente. Che io sappia, nessuno ha mai affermato una cosa del genere, ma ho il sospetto di non essere l’unico ad aver fatto questa esperienza. Ciò che è unico è la mia disponibilità a parlarne».

A questo punto, suscitando dapprima un certo stupore, poi una profonda costernazione, raccontò quello che gli era successo tre anni prima. Parlò dei cristiani segreti e del ruolo che avevano avuto nella caduta di Nixon. Spiegò che lui stesso, Dick, era stato riprogrammato nel corso di una di quelle insidiose trasformazioni della realtà che formano la trama dell’universo, e che in tale occasione aveva avuto un contatto diretto con il Programmatore. Di solito resta nascosto, è il Deus absconditus, come dicono i teologi. È presente in ogni atomo del mondo, ma nessuno Lo vede, se non i pochi uomini che Lui sceglie come si sceglie un pedone sulla scacchiera per fare la propria mossa. Dick era stato quel pedone e ora poteva ripetere per esperienza le parole di san Paolo: è terribile e meraviglioso cadere nelle mani del Dio vivente. Quel Dio che, nel Vecchio Testamento, dice: «Io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente».

«Quando leggo queste parole,» concluse «mi viene da pensare che conosco un grande segreto. Quando il Regno verrà, non conserveremo nemmeno il ricordo delle tirannie, dell’orrenda barbarie della Terra che abbiamo abitato. Credo che questo processo stia avendo luogo adesso, o meglio abbia sempre avuto luogo adesso, e che la Sua misericordia ci abbia permesso di dimenticare quanto è successo prima. E forse ho sbagliato, con i miei romanzi e con questa conferenza, a spingervi a ricordare».

 

 

Aveva sbagliato.

Appena sceso dal palco si rese conto dell’entità del danno. Il traduttore a un certo punto si era arreso e aveva smesso di tradurre, ma gli spettatori anglofoni avevano riassunto il motivo dello scandalo ai loro vicini: Dick era diventato non solo pazzo, ma anche bigotto! All’ammirazione era subentrato l’imbarazzo. Lo guardavano come una sorta di strano animale. Non sapevano in che modo rivolgersi a lui.

Finché rimase a Metz, da dove partì prima del previsto, tutti si sforzarono di mettere a tacere la sensazione di disagio e di salvaguardare la gioiosa convivialità di una manifestazione in cui era fondamentale essere sulla stessa lunghezza d’onda. A poco a poco si fece strada in gran parte del pubblico l’idea che fosse tutta una mistificazione. Come Orson Welles aveva terrorizzato l’America adattando per la radio La guerra dei mondi, così quel birbante di Dick aveva testato sul suo pubblico il soggetto di un romanzo e, per renderlo più convincente, aveva finto di credere a tutte quelle baggianate. Vedendo imporsi questa versione ufficiale, l’interessato ritenne più diplomatico adeguarsi e cominciò ad abbordare le persone negli ascensori dell’albergo con grandi risate falstaffiane, strizzatine d’occhio e goffi: «Ci siete cascati, eh?».

 

 

Se stessi scrivendo un romanzo, direi che per lui quell’insuccesso fu una catastrofe, che avrebbe preferito essere lapidato piuttosto che ascoltato con quell’aria imbarazzata e beffarda, che una volta tornato in California si mise a letto ad aspettare la morte. In termini drammaturgici sarebbe un finale soddisfacente, ma le cose non andarono così. Dick aveva una straordinaria capacità di adattamento: quando uno degli scenari che applicava alla realtà si rivelava fallace, ne adottava un altro, tutto qui. Così Fat optò per il basso profilo del giocatore che ha tentato un colpaccio e ha perso, e Phil per l’irritante discrezione di chi si sforza di non dire: «Te l’avevo detto». E Dick riattraversò l’oceano con l’aria di un turista contento del viaggio, lusingato per essere stato trattato da vip e dispiaciuto per il malinteso che aveva guastato la sua conferenza, ma solo vagamente, un po’ come quando in un buon ristorante, non conoscendo la lingua del posto, ci capita di ordinare l’unico piatto di cui non abbiamo voglia: uno di quegli incidenti spassosi che ci regalano ricordi migliori di quanto non facciano i programmi rispettati alla perfezione.

 

 

(«Comunque,» disse a Joan «è davvero strano. Tutti si sono preoccupati di una questione priva della minima importanza: se credevo o meno a quello che stavo raccontando. E nessuno si è fatto la domanda fondamentale: “È vero?”»).

 

 

Di tutte le sue donne Joan fu l’unica che riuscì a lasciarlo senza drammi. Non ci fu nemmeno bisogno di rompere. La distanza tra Sonoma e Santa Ana bastò a giustificare l’allentarsi di un legame che restava affettuoso e a cui ripensavano con un po’ di nostalgia, come a uno di quegli incontri meravigliosi che si fanno in viaggio e di cui il viaggio è la sola ragion d’essere.

La conferenza di Metz avrebbe dovuto segnare l’avvento di Fat, e Joan avrebbe dovuto essere la sacerdotessa del suo culto. Le cose non erano andate così: per cui Dick rimise mano all’Esegesi. Ancora una volta si ritrovò ad affrontare il suo vecchio problema: come raccontare una storia di cui non si conosce il significato? Sognò, teorizzò, si disperò e, contro ogni aspettativa, trovò una soluzione.

Gli era stata commissionata una prefazione per una raccolta di alcuni suoi vecchi romanzi, e lui, non sapendo che scrivere, si mise a parlare della sua giovinezza. Senza una scaletta, senza avere in mente un’idea precisa, raccontò qualche aneddoto, espose delle idee, poi le criticò, il tutto con il tono scherzoso che si usa quando si chiacchiera con gli amici. E scrivendo così, spontaneamente, quello che gli passava per la testa, cominciò a provare un senso di libertà e a un tratto pensò che sarebbe stato bello raccontare con la stessa semplicità, senza voler dimostrare niente, anche quello che gli era successo.

Non ho più molto da dire a proposito di Valis, a cui ho attinto per scrivere i capitoli precedenti. Scritto in due settimane di lavoro intenso e rilassato al tempo stesso, il libro parla di un gruppo di amici che vivono a Santa Ana, in California, e che assomigliano parecchio ai membri della Rhipidon Society. David, il cattolico romano, Kevin, il cinico dal gran cuore, e Phil, lo scrittore di fantascienza, sono preoccupati per il loro amico Horselover Fat. Fat ha esagerato con le droghe negli anni Sessanta, ha avuto troppi dispiaceri e, dalla primavera del 1974, sostiene di aver visto Dio. A raccontare la sua storia e le lunghe chiacchierate fatte con lui è Phil, un testimone imparziale ma compassionevole, che non cerca mai di rendere le teorie di Fat più coerenti di quanto non siano. Ecco per esempio come cita l’Esegesi:

«Sapendo questo direttamente da Dio, Fat era un profeta. Ma siccome non era più capace di distinguere tra fantasia e rivelazione divina – supponendo che tra le due cose ci sia una differenza, il che è tutt’altro che certo –, scriveva anche assurdità come la seguente:

«51: la fonte originaria di tutte le nostre religioni sono gli antenati della tribù Dogon, che ricevettero la loro cosmogonia direttamente dagli invasori con tre occhi giunti sulla Terra molto tempo fa. Gli invasori con tre occhi erano muti, sordi e telepatici; non potevano respirare nella nostra atmosfera, avevano il cranio allungato e deformato come quello del faraone Akhenaton e provenivano da un pianeta del sistema stellare di Sirio. Benché non avessero mani, ma delle pinze simili a quelle dei granchi, erano dei grandi costruttori. Guidano segretamente la nostra storia verso una meta feconda.

«Fine dell’annotazione.

«All’epoca Fat aveva completamente perso il contatto con la realtà».