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DOVE VIVONO I MORTI

Nella primavera del 1967 Nancy ebbe una bambina, che battezzarono wagnerianamente Isolde Freya e che chiamarono sempre Isa. La sua nascita aggravò le tensioni già sorte fra Dick e sua moglie per via delle velleità di indipendenza di lei. Finché era rimasta a casa a leggere i libri che lui le consigliava, ad ascoltare la musica che usciva dal suo studio e ad aspettare pazientemente che ne uscisse anche lui, Dick si era addirittura meravigliato di quanto fossero simili i loro gusti e aveva considerato Nancy la persona più empatica della terra. Ma dal giorno in cui lei si trovò un impiego part-time e smise di stargli accanto dalla mattina alla sera, stupita che lui ne fosse stupito, e poi arrabbiata che lui ne fosse arrabbiato, Dick cominciò a chiedersi se per caso non fosse un po’ schizoide anche lei. La presenza della bambina avrebbe dovuto porre fine a questa situazione che lo umiliava, perché dava l’idea che lui non fosse in grado né di mantenere la famiglia da solo né di sostituire il resto dell’universo agli occhi di una ragazza. Scoprì però di essere geloso della figlia più ancora di quanto non lo fosse del mondo esterno: temeva allo stesso tempo di essere soppiantato da Isa nel cuore di Nancy e da Nancy in quello di Isa. Abituato a trattare la moglie come una ragazzina, non faceva altro che darle consigli dall’alto della sua esperienza pediatrica, che consisteva principalmente nell’aver avuto una sorella morta di fame in tenera età, tragedia di cui non passava giorno senza che lui ne parlasse. Nancy allattava la bambina al seno: lui da un lato approvava quella scelta perché sua madre non lo aveva fatto; dall’altro, non potendo competere con lei su quel terreno, si sentiva escluso e arrivò a vivere ogni poppata come una provocazione: lo facevano sentire di troppo. Allora, per ristabilire l’equilibrio, si armò di biberon e cominciò a dare altro latte a Isa di nascosto, stringendosela al petto e ripetendole che lui era il suo papà, che le voleva bene e che non l’avrebbe mai abbandonata. In risposta a quella doppia alimentazione e a quelle inquiete parole di conforto, la bambina iniziò uno sciopero della fame che naturalmente gettò nel panico i genitori. «C’è troppa tensione intorno a lei» sentenziò il medico, senza immaginare che quella diagnosi dettata dal buonsenso avrebbe fatto piombare il padre in un vortice di sensi di colpa e recriminazioni: sono paranoico, si lamentava; e dieci minuti dopo: lo sapevo, ho sposato una pazza.

 

 

Per calmarsi frugava nell’armadietto dei medicinali in cerca delle sue pillole. Ne prendeva anche per sentirsi più in forma e per risollevarsi il morale, per affrontare gli altri; per lavorare e per riposarsi, per dormire e per svegliarsi. In giro si diceva, e non a torto, che fosse drogato, ma lui, pur decantandone le virtù, temeva gli acidi come la peste, e se ogni tanto fumava qualche canna era solo per convenienza sociale: per sua propensione era attratto esclusivamente dai farmaci. Gli piaceva la loro precisione, la relativa costanza dei loro effetti, le tante possibilità di combinazione che offrivano a un intenditore come lui. In Ma gli androidi sognano pecore elettriche? aveva dotato le case americane del futuro di un computer che si collegava ai neuroni delle persone, permettendo a ognuno di scegliersi l’umore che preferiva da un catalogo straordinariamente vario. L’apparecchio si poteva programmare in modo da svegliarsi allegri e pieni di energia come i tizi delle pubblicità dei materassi o dei prodotti per la prima colazione. In caso di lite coniugale non c’era che da scegliere fra un inibitore talamico (che avrebbe placato la rabbia) e uno stimolante talamico (che l’avrebbe esacerbata quanto bastava per avere la meglio nel battibecco). Nel dubbio era sempre possibile affidarsi al programma «Capacità decisionale», che metteva fine all’incertezza. Alcuni utenti particolarmente sofisticati si concedevano anche programmi illegali che prevedevano fasi di «Depressione e sterile autoaccusa», a cui poi rimediavano con «Consapevolezza delle molteplici possibilità che il futuro vi apre davanti e rinnovata fiducia nella vita».

Con lo stesso criterio Dick usava le pillole. Una manciata di anfetamine lo trasformava, per una serata, in un padrone di casa spumeggiante, e se ne aveva a disposizione una grossa scatola, come quella che una volta aveva sgraffignato nel bagno del vescovo, poteva scrivere un romanzo in due settimane, senza mai chiudere occhio. Sapeva bene che quei picchi di euforia si scontavano con lunghi periodi di depressione, se non addirittura con sintomi propriamente psicotici: disturbi percettivi, vuoti di memoria, terrori irrazionali, pulsioni suicide; ma con l’aiuto di un vasto assortimento di sedativi e tranquillanti alla fine riusciva sempre a venirne fuori, almeno in teoria. Sapeva che, acquattato dietro quegli stati d’animo, lo aspettava Palmer Eldritch, ma erano le regole del gioco, una sorta di contratto che lui non metteva in discussione. Sapeva, o quanto meno intuiva, che non è mai dato sapere tutto, che in questo genere di contratti ci sono sempre delle clausole scritte in caratteri minuscoli e che un giorno avrebbe dovuto leggerle, ma ormai era troppo tardi per tornare indietro, il suo corpo era diventato una specie di shaker per cocktail chimici, e la sua preoccupazione principale era quella di trovare di che riempirlo per poter affrontare la vita, perché ormai in qualsiasi situazione, per quanto innocua fosse, sentiva il bisogno di un coadiuvante, e poi di qualche altra cosuccia per gli effetti collaterali.

Si riforniva da una mezza dozzina di medici, ai quali, sapendo esattamente quello che voleva, enumerava con convinzione i sintomi che gli avrebbero permesso di ottenerlo. Variava spesso anche le farmacie, dove in realtà mandava Nancy, la quale, tra una canna e l’altra, era costretta a fare ogni volta un percorso un po’ più lungo. E neppure così le pillole gli bastavano: doveva comprarne anche per strada, da spacciatori perfettamente consapevoli che i drogati assuefatti alle anfetamine sono, con gli eroinomani, i più dipendenti e quindi i più vulnerabili e i più facili da abbindolare gettandogli polvere, o magari bicarbonato, negli occhi. L’incertezza sulla qualità dei prodotti comprometteva il controllo che lui si vantava di esercitare sui suoi miscugli. A ciò imputava quella specie di cristallizzazione della scrittura che lo aveva tanto colpito rileggendo La fede dei nostri padri e che lo induceva a considerare con diffidenza qualsiasi idea narrativa, a vederla come una trappola in cui un nemico invisibile cercava di farlo cadere perché saltasse agli occhi di tutti ciò che ai suoi appariva già come una tragica evidenza: ormai era un autore finito, l’ombra di se stesso o il suo simulacro. Inoltre soffriva, secondo lui sempre per colpa delle porcherie che prendeva e dei nemici che gliele vendevano, di attacchi di paranoia via via più frequenti. Così almeno li interpretava nei momenti di lucidità, che poi non erano così diversi dagli altri, come osserva il medico di una storia che Dick amava raccontare, quando un paziente gli va a dire: «Dottore, qualcuno mi sta mettendo qualcosa nel cibo per farmi diventare paranoico».

 

 

Tutti sanno che i paranoici hanno anche dei veri nemici e in realtà, come all’epoca del divorzio da Anne, a Dick le seccature non mancavano. Per quanto esigue fossero le sue entrate, aveva trovato il modo di non essere in regola con il fisco, che gli piombò in casa all’improvviso. Per un uomo che diffidava di qualsiasi forma di autorità e che era afflitto da un inguaribile complesso di colpa, quel grattacapo era una catastrofe. Oltretutto l’interesse della pubblica amministrazione per il suo reddito si fece più insistente nella primavera del 1968, poco dopo l’uscita, sulla rivista di sinistra «Ramparts», di una petizione firmata da Dick insieme a centinaia di altri autori e editori americani che invitava a non pagare le tasse addizionali introdotte per finanziare la guerra in Vietnam. Fosse o no una coincidenza, il fatto era più che sufficiente a ridestare i suoi antichi timori: operando sotto la copertura del fisco, la CIA, l’FBI, Edgar Hoover in persona volevano la sua pelle. O peggio ancora: la sua anima. Gli spacciatori da cui comprava le anfetamine agivano in realtà al loro servizio, e probabilmente anche i medici. A sua insaputa gli stavano facendo il lavaggio del cervello. Presto sarebbe cambiato, sarebbe diventato un benpensante, avrebbe apprezzato il Grande Fratello del momento, che da qualche tempo si dava il caso fosse il suo vecchio nemico Richard Nixon, avrebbe odiato gli emarginati di ogni sorta, non avrebbe più creduto in Dio ma in John Birch o in Gayelord Hauser7 e, cosa più orribile di tutte, si sarebbe convinto di essere perfettamente felice. Equilibrato, soddisfatto di sé, l’esatto contrario dello straccio d’uomo che era adesso, di cui a quel punto non ci sarebbe più stato neanche il ricordo – né suo né dei suoi amici, perché sarebbero stati sostituiti anche i suoi amici. Ma poi, chissà, forse era già stato sostituito, e quei momenti di angoscia gli venivano concessi solo per scrupolo di verosimiglianza, perché potesse continuare a credere di essere se stesso. E così aveva continuato a crederci e, convinto di trarre ispirazione dal più profondo del suo animo e delle sue sofferenze, aveva scritto in realtà libri dettati subdolamente dalla propaganda, che si serviva di quello stile apparentemente sovversivo per far passare il suo messaggio alienante. Forse, senza che né lui né i suoi lettori se ne rendessero conto, i suoi libri a livello subliminale dicevano solo una cosa: andate, ragazzi, massacrate i musi gialli, seppelliteli sotto tonnellate di napalm, denunciate gli imboscati, i drogati, i cattivi cittadini! Questo avrebbe spiegato il disgusto che gli ispirava la sua produzione più recente. Ma era anche possibile che le autorità lo perseguitassero e volessero neutralizzarlo perché, senza saperlo, credendo di seguire soltanto la sua immaginazione, aveva scoperto e descritto in un libro qualche segreto vitale, la cui divulgazione costituiva una minaccia per il loro potere.

Si mise a scartabellare la pila di paperback dalle copertine sgargianti che costituiva le sue opere complete, in cerca del segreto scoperto dalla sua inconsapevole chiaroveggenza. Dopo un’accorta selezione i suoi sospetti si appuntarono sul racconto La fede dei nostri padri, in cui un allucinogeno viene mescolato all’acqua del rubinetto per far sì che i cittadini non si accorgano della natura mostruosa dell’essere che li governa, ma anche su un romanzo scritto qualche anno prima, La penultima verità, in cui viene fatto credere agli uomini, costretti a vivere e a sgobbare in rifugi scavati nelle viscere della terra – veri e propri Nibelunghi moderni –, che in superficie imperversa una guerra chimica, mentre si tratta in realtà di una semplice messa in scena, tenuta in piedi, grazie al controllo del mezzo televisivo, da una classe dirigente senza scrupoli, che vuole godere in pace dello spazio vitale disponibile. E, in effetti, chi poteva garantire che le immagini del Vietnam mostrate in televisione non fossero state girate in studio con cartucce a salve, modellini e ketchup? Chi poteva garantire anche soltanto che il Vietnam esistesse? Che nel mondo esistesse qualcosa al di fuori della stanza in cui si trovava, del corpo imponente e prematuramente invecchiato che guardava con terrore nello specchio e che, suo malgrado, doveva chiamare io?

Dottore, credo di star diventando pazzo. Non avrebbe delle pillole per curarmi?

E che effetto mi faranno? Mi faranno diventare normale, vero? Innocuo? Come tutti gli altri? Mi divoreranno l’anima? Vi conosco, io, conosco i vostri metodi. Si figuri che ho giocato lo stesso tiro alla mia ex moglie. No, non sono nato ieri, non mi convincerà a ingoiare quella robaccia.

Però, dottore, mi serve qualcosa. Non posso andare avanti così. Diventerò pazzo. Morirò. Morire pazzi, non c’è niente di peggio, senza neanche la certezza di essere morti davvero. Vedere la realtà ultima, quella che secondo san Paolo vedremo quando saremo morti, senza poter scacciare il dubbio di essere vittime di un’allucinazione.

Ho paura.

 

 

In uno dei suoi libri aveva coniato una parola, gubble, per indicare lo stato di decomposizione, di degrado e di caos a cui tende ogni cosa per effetto dell’entropia. La sua vita scivolava a gran velocità verso il gubble. D’altra parte che significava dire «la sua vita», quando non era più sicuro che fosse sua, e neppure di essere ancora vivo?

Significava ancora una volta la macchina da scrivere, i tasti pigiati in rapida successione, QWERTYUIOP. Cominciare un altro libro, il trentaduesimo o il trentacinquesimo, aveva perso il conto, ma sapeva che era necessario, per guadagnare un po’ di soldi e perché altrimenti... Altrimenti cosa? Be’, altrimenti non avrebbe mai vinto il disgusto che gli ispirava il suo stile, ormai così arido che temeva di vedere la parole sfaldarsi e cadere in frantumi sulla carta: una sintassi povera, ripetitiva, puramente logica, una sintassi da androide; un vocabolario sempre più astratto, senza calore né fantasia, senza mai niente di sensoriale, mai niente che evocasse la carnalità del mondo; una totale assenza di vita, solo frasi, o nemmeno frasi, parole, o nemmeno parole, lettere, che si riversavano meccanicamente sulla pagina e si aggregavano per riflesso condizionato più che per scelta, come probabilmente si aggregano e si incolonnano i membri di un termitaio in cui sia stato introdotto del gas, che, per quanto agonizzanti, continuano a formare le figure prestabilite dal loro programma genetico.

Mosse da questa meccanica attività subcorticale e da qualche pillola di anfetamina, le termiti si mobilitavano, non certo per dare vita a dei personaggi, ma almeno per attribuire un nome a degli zombi. Trovare i nomi, poi qualche piccolo tic, qualche abitudine per animarli: era già qualcosa, un punto di partenza. Aveva elaborato una teoria secondo la quale al personaggio vincente era meglio dare un nome plurisillabico, mentre per il povero diavolo sempre depresso conveniva sceglierne uno di due sole sillabe, nome di battesimo compreso. Esempio: Phil Dick. Questa volta ci sarebbero stati quindi Glen Runciter, il capo, e Joe Chip, un suo squattrinato dipendente, che si sarebbe trovato immancabilmente a corto delle monetine necessarie per far funzionare la caffettiera o per aprire il frigorifero e la porta di casa, e che pertanto, fin dal risveglio, avrebbe dovuto mettersi a contrattare con inflessibili robot domestici perché gli facessero credito: un ottimo stratagemma per caratterizzare un personaggio, avrebbe potuto sfruttarlo spudoratamente per tutta la durata del romanzo. Niente di meglio delle piccole trovate di questo genere per fare andare avanti un libro in automatico: le termiti si mettevano in moto da sole. Poteva anche inserire nel loro programma altre istruzioni come: descrivete i vestiti che indossa ogni personaggio, anche quelli secondari, senza dimenticare che la storia si svolge nel 1992. Risultato: pantaloni attillati di finta vigogna, bluse senza maniche in pelle di wub tempestata di frammenti di meteorite, sari di tela di ragno, maglioncini di canapa marziana con sopra un ritratto anamorfico di Bertrand Russell... Proprio il genere di insulsaggini che mandavano in bestia Anne e che, in generale, giustificavano l’abissale disprezzo dei lettori colti nei confronti della fantascienza.

«Difendi la tua privacy. Avete l’impressione che qualcuno si stia sintonizzando sui vostri pensieri? Siete sicuri di essere veramente soli? Diffidate dei telepati, ma anche dei precog. Forse qualcuno che non avete mai incontrato sta prevedendo le vostre azioni? Date un taglio all’angoscia: contattate la più vicina organizzazione di prudenza; vi dirà subito se siete realmente vittima di intrusioni e poi le neutralizzerà... a un costo accessibile».

Ecco uno degli uno spot pubblicitari della società Runciter, dominatrice del fiorente mercato della protezione psichica. Telepati, precog, antitelepati, antiprecog: c’era di che imbastire un intreccio buono a sgomentare i lettori colti, visto che il suo karma gli imponeva di raschiare il fondo del barile, di fare appello alle sue termiti perché inventassero intrecci adeguati alla bisogna e nominassero Joe Chip «esaminatore di campo psionico» (niente male come mestiere del futuro, eh, amore?). Oltre a esaminare il campo psionico e a scroccare soldi a tutti per provvedere a ogni minima spesa, Joe Chip deve, per incarico dal suo capo, radunare una squadra di inerziali, i migliori sulla piazza, da mandare sulla Luna a risanare l’insediamento industriale di un uomo d’affari, infiltrato da diversi tipi di psi estremamente pericolosi. Il reclutamento di questi inerziali, tutti più o meno schizofrenici, significava se non altro guadagnare qualche pagina, e in fondo Dick si dimostrò in questo più che ragionevole, se soltanto si pensa a certi film apprezzatissimi, come I magnifici sette, in cui in pratica il racconto è tutto là, come si forma la banda, mentre poi la missione viene liquidata in quattro e quattr’otto, con qualche sparatoria messa lì tanto per gradire e subito i titoli di coda. Lui invece, diligentemente, fece atterrare il suo gruppetto di spostati sulla Luna, dove, secondo gli accordi contrattuali, si dovevano affrontare talenti e antitalenti. Aveva qualche appunto buttato giù su un pezzo di carta con la sua scrittura ogni giorno più tremolante, una trama vagamente abbozzata in cui, a un tratto, spunta fuori una ragazza con gli occhi neri, infida come piacevano a lui e a Joe Chip, che si rivela capace di modificare il passato, e spedisce tutti quanti in un universo alternativo da cui non possono uscire se non alle sue condizioni, e senza troppe certezze su ciò che ritroveranno – voilà, la specialità della casa.

In circostanze normali le termiti, che avevano eseguito incarichi analoghi già decine di volte, se la sarebbero cavata senza troppe difficoltà. Ma accadde qualcosa di nuovo: tutt’a un tratto lui si rese conto che stavolta il metodo non avrebbe funzionato. Basta. Era inutile insistere. Non serviva più a niente incastrare una parola dopo l’altra, come faceva da piccolo con i mattoncini delle costruzioni. Come quelli all’epoca crollavano con testarda ostilità, lasciandolo sconcertato, così adesso facevano le parole, le lettere. Forse erano addirittura più ostili: inerti. Morte. I suoi zombi sarebbero rimasti bloccati per sempre sulla Luna a tremare di freddo nei loro vestiti in pelle di wub. Il termitaio, i cui ultimi sussulti involontari erano riusciti a dargli ancora una volta, con l’aiuto di qualche pillola, l’illusione di potersi riprendere, si era fermato. Le termiti erano morte. Si dice che le cellule del cervello comincino a morire, al ritmo di migliaia al giorno, fin dalla nascita. Forse le sue erano morte tutte. Forse lui stesso era morto.

Frammenti di pensiero nuotavano nel suo cervello come pesci in una boccia d’acqua stagnante. Pallide antipatie, vaghi timori, ricordi di ricordi penosi. Quando per caso riuscivano ad affiorare in superficie, un lampo di paura gli attraversava il corpo, percorrendo le diramazioni del suo sistema nervoso ormai quasi completamente inattivo. Era come da bambino nella sala d’attesa del dentista, quando l’assistente apriva la porta, e lui pensava: ecco, questo è il momento di cui ho avuto paura tutta la vita.

Forse questo si pensa da morti.

 

 

Un giorno in una rivista aveva letto un articolo sulla criogenia, che studia come conservare i morti nel ghiaccio invece di seppellirli, così da preservarli fino al giorno in cui la scienza avrà trovato il modo di riportarli in vita. A quanto si dice, Walt Disney ci contava per diventare immortale. Era possibile anche farsi congelare subito prima che sopravvenisse la morte clinica, in modo da avere ancora una minima attività encefalica, il che naturalmente aumentava le speranze di potersi un giorno risvegliare. Seduto davanti alla macchina da scrivere, ormai del tutto improduttiva, dando le spalle al mostruoso schedario che conteneva i suoi tesori, Dick prese a immaginare, al capezzale di un corpo congelato, lo schermo nero di un monitor, su cui scintillava silenzioso il tracciato dell’elettroencefalogramma: quasi piatto ma non del tutto. A cosa potevano mai corrispondere, nel cervello di una persona tenuta in semivita, quelle oscillazioni appena percettibili? Sogni, brandelli di pensiero, immagini che andavano alla deriva nel buio? Un residuo di coscienza? Un qualcosa che, in maniera confusa, continuava a percepirsi come un «io» e a rappresentarsi uno spazio, un tempo, dei confini, le proprie condizioni? Forse, sprofondato nel coma, qualcuno, o quel qualcosa che era stato un qualcuno, si vedeva arbitrariamente nei panni di uno scrittore di fantascienza con il cervello bruciato, perseguitato dal fisco, annientato dall’entropia, seduto davanti a una necropoli di lettere che si rifiutavano di occuparsi del destino di Joe Chip e dei suoi compagni. Tutto sommato non dovevano fare altro che morire anche loro. Nessuno li avrebbe rimpianti, e le occasioni non sarebbero mancate, se l’insediamento industriale lunare, come si era detto, pullulava di pericoli. Dick si sarebbe accontentato di qualsiasi espediente per concludere il libro a pagina 80. Bastava che il committente degli inerziali, il proprietario dell’insediamento, dopo averli accolti sulla Luna, cominciasse, senza smettere di sorridere, a fluttuare verso il soffitto come un enorme pallone.

E che quel pallone si rivelasse in realtà una bomba umanoide ad autodistruzione.

E che esplodesse.

Sipario.

 

 

Quando il fumo si dirada, tutti si tastano il corpo, meravigliati di essere ancora vivi. Solo Runciter, il capo, è gravemente ferito. Joe Chip e gli altri lo portano via, sfuggendo con inspiegabile facilità alla trappola preparata per loro. Tornano sull’astronave, lo sistemano, agonizzante, in una cella frigorifera e volano verso la Terra, e più esattamente verso il Moratorium Diletti Fratelli, dove Runciter viene messo in fretta e furia in congelamento rapido. Joe e i suoi colleghi, tornati ognuno alla propria vita, cercano invano di capire che cosa sia successo, di cogliere il senso di quell’assurda imboscata. Tutto fa pensare che l’abbiano scampata, ma stranamente la situazione intorno a loro comincia ad apparire inquietante. È come se una forza maligna stesse giocando con noi, si dicono, lasciandoci scorrazzare e squittire come topi decerebrati. Si diverte a osservare i nostri sforzi inutili, le nostre ansiose congetture. E quando ne avrà abbastanza il suo pugno si chiuderà su di noi e getterà a terra i nostri poveri resti maciullati.

Mentre parla, Joe tira fuori una sigaretta dal pacchetto, l’accende, e quella, secca e stantia, gli si sbriciola fra le dita. «Strano» pensa. Subito dopo Wendy, la ragazza di cui è innamorato, sospira: «Mi sento vecchia. Sono vecchia; il tuo pacchetto di sigarette è vecchio; siamo tutti più vecchi, oggi, a causa di quello che è accaduto». Per tirarsi su Joe prende un caffè. Ma il caffè sa di cenere. Una muffa schiumosa, nauseabonda, galleggia in superficie. I distributori non accettano le monete che hanno in tasca: al posto del consueto profilo di Walt Disney, portano l’effigie di Washington, come le vecchie monete fuori corso da trent’anni. E, poco dopo, trovano rannicchiato sul fondo di un armadio, rattrappito, mummificato, avvolto in brandelli di tessuto, il cadavere della dolce, tenera e affascinante Wendy. Sta succedendo qualcosa di atroce, e il peggio è che questo qualcosa non è neanche coerente. Sarebbe tremendo ma comprensibile che si trattasse di un effetto ritardato della bomba a cui il gruppo è stato esposto sulla Luna. Ma se così fosse dovrebbero essere loro le sole vittime, e invece la cosa sembra coinvolgere anche la realtà circostante. Tutto invecchia, oppure regredisce tornando a forme precedenti. Un processo capriccioso, privo di qualsiasi principio logico, fa tendere gli oggetti indifferentemente verso la polvere che saranno o verso il magma da cui hanno avuto origine, e gli esseri viventi verso lo stadio di cadavere o quello di embrione, verso l’aldiqua o l’aldilà della vita. Una giovane donna diventa una mummia, una sigaretta si riduce in polvere, ma le monete si rivelano fuori corso, l’elenco videofonico è obsoleto e un televisore si trasforma in una radio dell’anteguerra. Forse, pensa Joe, l’incertezza che sento perfino nel processo di disgregazione è il segno della morte che mi invade a poco a poco. Non solo l’entropia, ma l’incoerenza. Come se un mostruoso ratto da laboratorio, deciso a vendicarsi di tutto quello che ha dovuto subire la sua specie, si divertisse, per torturarci, a cambiare ininterrottamente le regole del gioco. Ovunque metti piede, ti ritrovi in un campo minato, ma minato ogni volta in modo diverso. Invecchiamento rapido o regressione, oppure niente di niente. Prendi l’ascensore, un ascensore ultramoderno, e non sai se si trasformerà in un ammasso di metallo e plastica fusi o in un aggeggio sferragliante vecchio di un secolo e manovrato da un addetto che assomiglia stranamente a te da bambino, o se magari comincerà a scendere, senza che sia possibile fermarlo, per molti più piani di quanti ce ne siano nell’edificio, decine, centinaia di piani, e, solo al pensiero di quello che ti aspetta alla fine della corsa e che non riesci neanche vagamente a immaginare, forse preferiresti che la discesa continuasse all’infinito.

Non è possibile! Deve pur esistere qualche altra cosa! Un rifugio? Un’entità più potente di quella che ci tormenta? Un Dio d’amore al di sopra di questo demiurgo sadico?

Libera me, Domine!

 

 

Ed ecco che succede qualcosa. Qualcosa si manifesta. Qualcosa, o meglio qualcuno. Su una moneta appare il profilo di Runciter. E anche la voce di Runciter, che pure è chiuso in un’unità di congelamento rapido del Moratorium Diletti Fratelli, si fa sentire da Joe, lontana e disturbata, attraverso un videofono non ancora regredito. Poco dopo, accompagnando in bagno uno dei suoi compagni agonizzanti, letteralmente divorato dalla morte sotto i suoi occhi, Joe scorge sul muro sopra la tazza una scritta di pugno di Runciter:

 

IO SONO VIVO, VOI SIETE MORTI

 

Allora intuisce la verità: è lui, Joe, a essere morto sulla Luna. Lui e i suoi compagni. Sono stati messi in semivita. I loro corpi riposano in feretri pieni di ghiaccio. Delle loro coscienze non resta che una pallida fiammella, il tremolio quasi impercettibile dell’elettroencefalogramma. A guardare dall’esterno quasi niente: un lungo sonno, si direbbe, visitato da sogni confusi. Ma dall’interno i sogni confusi consistono in questo incubo in cui sono in gioco le loro vite, e forse non solo le loro vite, minacciate da qualcosa di terrificante. Ecco quello che inspiegabilmente Runciter ha capito. Runciter che è sopravvissuto e, chino sui loro corpi inerti, si affanna nel tentativo di mettersi in contatto con loro, per aiutarli.

Qualsiasi mezzo è buono per introdursi nell’aleatorio mondo dei semivivi. Joe, scoraggiato dalla morte del suo amico, accende la televisione nella stanza d’albergo in cui si è rifugiato e vede la pubblicità di un nuovo prodotto per la casa, presentato da Runciter in persona con un’enfasi da venditore incallito:

«Siete stanchi dei soliti sapori insignificanti? Il cavolo bollito ha preso il sopravvento nella vostra dieta? Un odore di stantio vi rovina la vita? Ubik cambierà tutto questo». E brandisce una bomboletta spray dai colori vivaci. «Una spruzzatina di Ubik formato economico farà sparire la paura ossessiva di vedere il mondo intero trasformarsi in latte rappreso, registratori fuori uso e ascensori antidiluviani, più ulteriori, ancora impercepibili, manifestazioni di decadimento. Vedete, il deterioramento del mondo è un’esperienza normale per molti semivivi, specialmente quando, come nel vostro caso, si fondono insieme diversi sistemi di ricordi. Ma con il nuovo Ubik, più potente che mai, tutto questo cambierà!».

E, con un sorriso da imbonitore sulle labbra, Runciter scompare. Joe allora comincia ad andare in cerca del miracoloso spray, unico rimedio contro l’entropia. Ma, ahimè, quando finalmente riesce a trovarlo, è regredito in un elisir da speziale del tutto inefficace. Terribile ironia: la sostanza capace di invertire il processo di regressione vi è a sua volta sottoposta.

 

 

Quando gli venne in mente questa idea, Dick si spaventò. Perché la sostanza miracolosa che, per un felice paradosso, aveva presentato come un introvabile prodotto di largo consumo ai suoi occhi era il simbolo non solo delle pillole capaci di fargli riprendere il controllo sulla realtà, ma anche, a un livello più profondo, dell’entità benefica che ci sottrae alle grinfie dell’entropia, alla perversità del demiurgo e alla morte.

Si era divertito – si fa quel che si può per divertire le proprie termiti – a mettere in esergo a ogni capitolo del libro uno slogan pubblicitario che decantava, con lo stile di Runciter, una delle tante virtù del prodotto:

 

Il miglior modo di chiedere una birra è gridare: Ubik!

Ubik istantaneo ha tutta la fragranza del caffè appena tostato.

Ubik ti rimette subito in sesto.

Se le preoccupazioni economiche non vi danno tregua, venite a trovarci alla Ubik Depositi & Prestiti.

Esaltate le vostre curve con il nuovo reggiseno Ubik superleggero.

Secondo te ho l’alito cattivo, Tom? Be’, Ed, se è questo che ti preoccupa, prova il nuovo dentifricio Ubik!

 

Ma, verso la fine, Dick abbandona il linguaggio di Madison Avenue, per imitare quello del prologo del Vangelo di Giovanni (e un po’ anche quello dei primi versi del Tao tê ching):

 

Io sono Ubik. Prima che l’universo fosse, io ero. Ho creato i soli. Ho creato i mondi. Ho creato le forme di vita e i luoghi che esse abitano. Vanno dove dico io, fanno ciò che io comando. Io sono il verbo e il mio nome non è mai pronunciato. Mi chiamano Ubik, ma non è il mio nome. Io sono e sarò in eterno.

 

Era ossessionato dall’idea dell’eucarestia. Prendeva assolutamente sul serio parole come: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna». La facoltà di dire che un pezzo di pane è il corpo di Cristo e di far sì che quel pezzo di pane diventi all’istante, in modo immateriale ma reale, il corpo di Cristo gli sembrava il dono più sublime che un uomo potesse non certo possedere ma ricevere: per questo ci rimase tanto male quando il vescovo Pike rinunciò alla sua carica e si riciclò «nel settore privato», come diceva lui. In un certo senso – subalterno, profano – anche Dick aveva celebrato quel mistero del Regno invisibile, o almeno lo aveva celebrato il suo doppio, l’autore della Cavalletta non si alzerà più, descrivendo un mondo diverso da quello che vedevano i suoi contemporanei e sostenendo che il vero mondo era quello. E secondo Dick, in un modo misterioso e impossibile da dimostrare ma ai suoi occhi certissimo, aveva ragione.

Si rimproverava, come se avesse compiuto un sacrilegio, di aver messo in scena in Palmer Eldritch un’eucarestia negativa. Gli sembrava, così facendo, di aver dato man forte al malvagio demiurgo. Nello sfacelo psichico di Ubik, in cui lui si perdeva progressivamente insieme ai suoi personaggi, aveva inventato, per salvare le loro vite e forse anche la sua, un anti-Chew-Z, un’eucarestia positiva, vale a dire l’eucarestia vera e propria, l’unica, anche se si presentava sotto la ridicola forma di uno spray. Ma siccome era un Ratto incorreggibile, non appena costruiva un rifugio subito sentiva l’urgenza di aggiungervi un passaggio sotterraneo che sbucava proprio al centro e apriva la strada al nemico. Ubik esisteva davvero, permetteva davvero di salvarsi dalla morte e dall’entropia, ma il signore della morte aveva il potere di sottoporlo a sua volta a quella stessa entropia.

 

 

Dick scrisse la conclusione del romanzo in preda al panico. L’ultima parte è tutta una corsa frenetica, costellata di morti e di atroci metamorfosi, durante la quale Joe Chip cerca al tempo stesso di procurarsi una bomboletta non regredita di Ubik e di identificare i numi che si contendono il dominio sul limbo. «Non credo» pensa «che finora abbiamo incontrato il nostro avversario faccia a faccia, e neppure il nostro difensore».

Dick non sapeva che aspetto dare al Difensore, di cui Runciter era solo un rappresentante: nel mondo dei semivivi fanno la loro comparsa giovani donne caritatevoli, che dispensano Ubik e tenui speranze prima di scomparire in un soffio. Di loro ci si ricorda appena. In compenso aveva le idee molto chiare sulle sembianze dell’Avversario, in sogno aveva spesso incrociato il suo sguardo ansioso e crudele da roditore psicotico. In Ubik gli diede il nome di Jory, un ragazzo morto in giovane età e messo in semivita nel Moratorium Diletti Fratelli. Dotato, per via della sua giovinezza, di un’energia encefalica superiore a quella degli occupanti delle altre unità di congelamento rapido, Jory approfitta della fusione dei loro flussi mentali per divorarli letteralmente, come un trasmettitore radio più potente degli altri sovrasta i suoi vicini di frequenza. È lui che costruisce il mondo in cui si muovono le coscienze degli altri personaggi, per poi, a suo capriccio, tormentarli, depistarli o attirarli in un angolo dell’immensa ragnatela che ha tessuto per loro. Da morto continua a vivere e accresce la potenza della morte assorbendo quel poco di vita che resta ai morti.

Il ragazzo era parte di una coppia di gemelli.

 

 

Era un libro impossibile da terminare. Dick aveva sempre enormi difficoltà a scrivere le ultime pagine dei suoi romanzi, perché delle storie che raccontava non conosceva il senso ultimo. Non poteva decidere se avrebbe vinto Jory o Ubik. Semplicemente perché non lo sapeva.

L’I Ching, con la sua meritata fama di saggezza, si rifiuta di dare risposte del genere. Se Dick fosse stato ortodosso nella sua fede cristiana, alla fine la luce avrebbe avuto per forza la meglio. Ed è ciò che avrebbe voluto credere, avrebbe dato la vita e forse anche l’anima per crederci. Ma in lui qualcosa di più profondo credeva, suo malgrado, alle tenebre eterne, al trionfo della morte vivente. Non si trattava del nulla, che a modo suo gli appariva rassicurante, ma di qualcosa o di qualcuno che era nulla, e la metà del suo essere che ne faceva parte sin da quando era nato lo attirava proprio là, per divorarlo.

Raggiunto il numero regolamentare di pagine, superato il quale il suo programma interno smetteva di funzionare, aggirò il problema con una vecchia astuzia da Ratto: l’espediente del cambiamento di prospettiva finale, che permette di concludere senza concludere. Sembrava ormai chiaro, a partire da metà libro, che Joe e quello che restava della sua squadra erano in semivita, mentre Runciter era ancora vivo, in un mondo «esterno» divenuto praticamente irreale, ma non soggetto né ai capricci di Jory, il divoratore di anime, né all’influenza benefica di Ubik. E nell’ultimo capitolo, in effetti, ritroviamo Runciter nella hall del Moratorium. Ma ecco che, per dare la mancia all’addetto, tira fuori dalla tasca una moneta che l’altro guarda perplesso. Allora la osserva: vi è effigiato il profilo di Joe Chip.

 

 

Quello, il 1968, fu anche l’anno del film di Stanley Kubrick 2001: Odissea nello spazio. Dick lo vide, come tutti, e rimase particolarmente colpito dalla scena in cui l’astronauta spegne il computer HAL 9000 còlto da follia omicida. Via via che i suoi circuiti vengono disattivati la voce sintetica della macchina, così fredda e posata, si fa più grave, come succede quando si sbaglia a impostare i giri di un disco, e stranamente sempre più umana, più patetica. HAL, in un primo momento consapevole di quello che sta succedendo, minaccia, supplica di essere risparmiato. A poco a poco l’immenso cervello elettronico all’interno del quale l’astronauta porta a termine la sua operazione di morte perde il contatto con i suoi componenti. L’autocoscienza che gli avrebbe permesso di superare a occhi chiusi il test di Turing lo abbandona, tuttavia sopravvive in lui proprio quella che è considerata la peculiarità umana per eccellenza, la più inaccessibile a una macchina: la sofferenza. Poi anche la sofferenza scompare o perde la facoltà di esprimersi, si sentono solo frasi incoerenti, frammenti di canzonette sfuggiti ad archivi di memoria ormai devastati. Poi più niente.

A qualcosa di simile fanno pensare i libri che Dick scrisse alla fine degli anni Sessanta.

 

 

Labirinto di morte è la storia di un gruppo di persone, sperdute su un pianeta ostile, che si ammazzano fra loro. Nell’ultimo capitolo si scopre che si tratta dei passeggeri di una nave spaziale chiamata Persus 9, condannati per un errore di programmazione a vagare all’infinito nello spazio, e quindi anche a convivere fino alla morte. Per sopportare il lento scorrere del tempo e per sopportarsi a vicenda, evadono, senza muoversi dai loro cubicoli, in mondi artificiali, poliencefalici, specificamente programmati dal computer di bordo. Il pianeta su cui si svolge il romanzo è solo uno di questi mondi, in cui vengono trasposti punto per punto i dati di quello reale, ovvero dell’astronave alla deriva (per quanto neanche di quest’ultima si possa dire con assoluta certezza che sia reale: potrebbe essere a sua volta una penultima realtà). In quel mondo fittizio il computer rappresenta anche se stesso, assumendo le sembianze di una bestiola mostruosa, una specie di sfinge locale che risponde alle domande con aforismi stile I Ching e che finisce per esplodere quando uno dei personaggi le chiede che cosa significhi quel nome che per qualche strano motivo lo assilla: Persus 9. Da sempre Dick cercava di formulare quest’unica domanda, quella che fa esplodere Dio o Lo costringe a rivelarsi, ma il suo era ormai solo un automatismo, un fastidioso loop nel programma svolto dalle termiti. Lo stesso vale per la struttura teologica del libro. Infatti il computer di bordo, cercando di dare una parvenza di senso al mondo che viene esplorato, ha approntato, a partire dalle informazioni fornite dai passeggeri sulle loro diversissime credenze, una religione sincretica, frutto in realtà delle conversazioni che Dick aveva avuto qualche mese prima con il vescovo Pike.

Coincidenza o sincronicità junghiana, Dick venne a sapere della morte del vescovo proprio mentre questo libro di agonia stava per essere pubblicato. Provato dai lutti, tornato alla vita secolare, deluso dall’insuccesso del suo supposto best seller sui contatti con l’aldilà, l’ex prelato, con l’appoggio di ambienti californiani degli affari, aveva costituito una Fondazione per la Transizione religiosa, volta a far sì che l’umanità arrivasse all’Età dell’Acquario con una religione adulta, universale, che distillasse il meglio dei tanti culti che l’avevano preceduta. Per decidere quali meritassero l’ammissione al consesso era importante risolvere il problema, rimasto in sospeso, della «validità» del cristianesimo. Pike era quindi partito per indagare sul posto, in Israele, nella speranza di capire nello uadi di Qumran, il luogo sacro degli Esseni, se colui che veniva chiamato Gesù poteva o meno essere considerato il Cristo, l’Unto del Signore, il Verbo e il Figlio di Dio, e a questo titolo partecipare alla «transizione» in corso. Confidava che questa risposta gli sarebbe venuta da un fungo allucinogeno che forse cresceva ancora nelle caverne che sovrastano il Mar Morto. Il giorno dopo il suo arrivo a Gerusalemme, nel settembre del 1969, si avventurò nel deserto della Giudea al volante di una macchina noleggiata, portando con sé due bottiglie di Coca-Cola e una cartina stradale, che fu rinvenuta una settimana dopo ancora aperta sul sedile anteriore destro. Ci volle qualche giorno per trovarlo, morto di fame e di sete in mezzo alla sabbia. Durante le ricerche si erano formati dei gruppi di preghiera, che imploravano Dio, Jim Jr. e il celebre medium Edgar Cayce: «la trinità più straziante di cui abbia mai sentito parlare» osservò la scrittrice Joan Didion in un articolo sul defunto vescovo.

 

 

Poco prima di Pike era morto anche Anthony Boucher, che era malato di cancro. Dick non lo vedeva da dieci anni, ma pianse per quell’uomo gentile e generoso, che era stato il mentore della sua giovinezza e gli aveva dimostrato che si poteva essere al tempo stesso uno scrittore di fantascienza, un cattolico devoto, un melomane e una persona giusta. Poi morirono i suoi due gatti. Tricky Dick fu eletto alla Casa Bianca, e Tim Leary fu sbattuto in prigione. Da Haight-Ashbury ormai arrivavano solo voci di bad trip e di azioni criminali. E quando, il 9 agosto 1969, si venne a sapere della strage di Cielo Drive, in cui erano morti Sharon Tate e i suoi amici, tutti rimasero inorriditi, ma non si meravigliarono più di tanto: prima o poi doveva succedere, si dissero.

Durante l’inverno l’abuso di anfetamine fece finire Dick in ospedale, dove gli diagnosticarono serie lesioni ai reni e al pancreas. Appena uscito, ricominciò. Si mise a scrivere un romanzo di cui aveva deciso solo il titolo, per il quale si era ispirato all’opera di quello che era diventato il suo musicista preferito, John Dowland, le cui arie e composizioni per liuto sono l’espressione più notevole della melanconia elisabettiana. All’inizio di Scorrete lacrime, disse il poliziotto un tizio si sveglia senza più identità. Nessuno riconosce più quest’uomo fino al giorno prima famoso, i suoi documenti non corrispondono più a niente, ogni traccia di lui è scomparsa. Non è più nessuno.

All’inizio dell’estate del 1970 Dick abbandonò il libro. Centinaia di volte aveva temuto che accadesse, e ora era accaduto davvero: non riusciva più a scrivere. Neanche una parola, neanche una lettera. Il termitaio era morto.

Ormai privo di entrate, fece domanda di sussidio.

Nancy non ne poteva più delle sue crisi, della droga, della sua paura di diventare pazzo. Lei stessa si sentiva sul punto di ricadere in depressione. A settembre se ne andò, portando con sé Isa. La bambina, che allora aveva tre anni e mezzo, vide dal vetro posteriore della macchina suo padre che cercava di raggiungerle, la sua sagoma che si rimpiccioliva, poi la macchina girò l’angolo, e lui scomparve del tutto.

 

 

7. Rispettivamente, un agente dell’intelligence americana ucciso nel 1945 da membri del Partito comunista cinese, e divenuto perciò «il primo martire della Guerra Fredda», e un celebre nutrizionista delle dive di Hollywood, particolarmente noto negli anni Trenta e Quaranta [N.d.T.].