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MASSA CRITICA

Durante la sua permanenza all’ospedale psichiatrico, Doris andò a trovarlo regolarmente. Ogni volta Dick la implorava di accettare la sua proposta di andare a vivere insieme. Voleva trasferirsi appena fosse stato dimesso: le avrebbe tirato su il morale nel corso della fase di remissione e, in caso di ricaduta, si sarebbe preso cura di lei come adesso lei stava facendo con lui, nella carità di Cristo. L’avrebbe amata, avrebbe amato se stesso, e Dio avrebbe amato entrambi. Ora che Tessa se ne era andata, non potevano più essere considerati colpevoli di adulterio. Quest’ultima argomentazione la convinse.

Trovarono un appartamento di tre stanze a Santa Ana, in un edificio nuovo situato al centro del barrio messicano. Probabilmente l’architetto che lo aveva progettato lo considerava una felice commistione di modernismo e colore locale. In realtà sembrava una specie di prigione modello. Per aprire il portone del parcheggio sotterraneo ci voleva una scheda magnetica; un sistema di videosorveglianza a circuito chiuso permetteva al portiere di tenere d’occhio l’ingresso e i corridoi; degli altoparlanti nascosti diffondevano dappertutto una soave musichetta. Era una strana scelta per un uomo che per tutta la vita aveva abitato in villette indipendenti e temuto la promiscuità, ma non se ne lamentò mai e rimase lì fino alla morte.

Il nuovo appartamento aveva il vantaggio di trovarsi a due passi dalla casa di Tim Powers e dalla chiesa episcopale dove Doris lavorava come responsabile di un servizio di assistenza sociale. Il suo compito consisteva, fra le altre cose, nel distinguere i veri poveri, oggetto delle sue cure, dai drogati pronti a ricorrere a qualsiasi trucco pur di procurarsi i soldi per le dosi o le pasticche. Dick le ripeteva che i drogati erano da compiangere proprio come i poveri, e oltretutto erano poveri anche loro, ma lei continuava a considerarli dei simulatori e a detestarli. Mentre cucinava, gli parlava di quello che succedeva in parrocchia, situazioni in tutto e per tutto simili a quelle che si verificano negli uffici: rivalità, frustrazioni, no, davvero, ti assicuro, non ne posso più! L’eroe positivo di queste storie era il prete che l’aveva convertita; Doris lo chiamava per nome, Larry, e diceva di essere innamorata di lui. Quando glielo aveva confessato, Larry, che era sposato e nonno, aveva risposto, alla maniera di Pike, che non era sua abitudine mischiare lavoro e piacere. Anche dopo quello sgarbato rifiuto, per Doris era rimasto il punto di riferimento supremo. Faceva appello alla sua autorità ogni volta che Dick, per provocare, cercava di trascinarla in una di quelle discussioni teologiche in cui aveva tanto sperato di potersi cimentare vivendo con una devota. «Larry dice che sono tutte cazzate» ribatteva alle argomentazioni audaci con cui lui sperava di far emergere il substrato gnostico della sua fede. E se citava le Scritture: «Chiederò a Larry, ma credo sia una parte corrotta della Bibbia». Quando a Larry e Doris non piaceva un versetto della Bibbia, lo dichiaravano apocrifo. Non erano per niente attratti dalle speculazioni teoriche, dalle controversie, dalle idee che rasentavano l’eresia. Ogni volta che il suo coinquilino si avventurava su questo terreno, Doris aggrottava la fronte e si metteva a pelare le carote con un’aria così ostile da scoraggiare qualsiasi insistenza. Vivere con una moribonda era meno esaltante di quanto Dick avesse immaginato.

 

 

Quella convivenza non piaceva molto ai loro amici, che la consideravano malsana, e per niente a Maurice, lo psicoterapeuta dell’ospedale da cui Dick si era impegnato a tornare una volta alla settimana. A quanto si diceva, Maurice, un colosso con la barba nera che indossava sempre una tuta mimetica, in passato era stato un trafficante d’armi e aveva prestato servizio nell’esercito israeliano. Quelle esperienze gli avevano lasciato un tono brusco, autoritario, che stonava con la sua professione, in particolare la raggelante abitudine di dire ogni tre frasi: «E non sto scherzando». Clausola superflua, dato che nessuno pensava che Maurice scherzasse.

Nel caso di Dick il suo piano terapeutico consisteva nello strapazzarlo finché non si fosse deciso a godersi la vita, invece di cercare di salvare gli altri. Godersi la vita, secondo Maurice, significava passare il fine settimana a Santa Barbara e portarsi a letto qualche ragazza con un bel paio di tette; e non scherzava quando diceva un bel paio di tette. Ahimè, Dick non era molto portato per il godimento, né in questa né in altre forme. Conosceva solo il significato della parola, ed evitava prudentemente di esporre le sue idee sull’argomento. Quando Maurice lo rimproverava per il suo rapporto con Doris, si limitava a chinare il capo in attesa che la bufera passasse. Forse non a torto, gli psicoterapeuti tendono a diffidare delle azioni presentate come caritatevoli e disinteressate.

«L’unica cosa che vuoi» sbraitava Maurice «è credere di essere una persona buona. Se Doris non avesse il cancro, vorresti stare con lei? No. Quello che ti interessa è aggrapparti alla morte dicendoti che stai facendo una buona azione. Così vinci su tutti i fronti: credi di essere un santo e puoi suicidarti tranquillamente. Perché è questo che vuoi, basta guardarti cinque minuti per capirlo. Ebbene, allora fa’ pure, mio caro, non preoccuparti: se vuoi morire, muori. Perché morirai. E non sto scherzando».

«Lo so» mormorava Dick mogio mogio.

Considerava Maurice un imbecille, ma non escludeva che avesse ragione. Arrivò perfino a pensare che ci fosse del vero nella teoria psicosomatica secondo cui le malattie non ci capitano fra capo e collo per caso, ma esaudiscono desideri che ci tormentano segretamente: per dirla nei termini groddeckiani tanto cari a Maurice, i desideri del nostro Es. I teorici più radicali della psicosomatica, quando, in nome del buonsenso, li si sfida a spingere le loro posizioni alle estreme conseguenze, arrivano a sostenere che chi viene investito da una macchina per strada è in realtà guidato dal proprio istinto di morte, che l’assassinato si è offerto al coltello dell’assassino – e, a questo stadio della controversia, di solito salta fuori qualcuno che chiede se anche le vittime di Auschwitz o il loro Es avessero desiderato la sorte che gli è toccata.

Onestamente, non si poteva accusare Doris di aver desiderato il cancro. Ma era pur vero che lei coltivava un rapporto di disgustosa intimità con la sua malattia, un rapporto divenuto paradossalmente ancora più stretto da quando i medici le avevano annunciato che era entrata in remissione. A Dick quella reazione ricordava i sentimenti che aveva provato quando il suo gatto Pinky era scappato: le settimane passate ad aspettare che tornasse, a sognarlo la notte, l’incapacità di accettare l’idea che la perdita potesse essere definitiva. Trasaliva ogni volta che sentiva raspare alla porta: forse era Pinky! E un bel giorno Pinky era tornato. Nel caso di Doris, tuttavia, il problema non era sapere se il suo male sarebbe tornato o no, ma quando sarebbe tornato. I medici l’avevano avvertita: era sepolto da qualche parte nel mazzo di carte che aveva davanti. Ogni giorno girava una carta, e ogni giorno non era quella del cancro. Ma sapeva che era nel mazzo e che, scoprendo le carte una dopo l’altra, prima o poi l’avrebbe pescata. Temeva e aspettava quel momento la cui prospettiva rendeva vana qualsiasi gioia. Ridendo di una battuta in sua presenza, si aveva l’impressione di insultarla. Razionalmente, pensava Dick con il consueto acume psicologico, Doris avrebbe dovuto cercare di cogliere tutti gli attimi di piacere che la vita le offriva durante la remissione, invece di anticipare con il pensiero il momento della ricaduta. Quindi andava predicandole l’edonismo, dimenticando da un lato che lui era fra le persone meno adatte ad assumere quel ruolo e dall’altro che una Doris esuberante lo avrebbe innervosito ancor più di quella imbronciata e bigotta.

Passarono tre mesi così, ad aspettare il ritorno del linfosarcoma, tre mesi in cui Dick si rese insopportabile con la sua solita tecnica: o scriveva l’Esegesi e allora non doveva essere disturbato per nessun motivo, oppure smetteva di scrivere, e allora Doris doveva stargli accanto e discutere con lui di quello che aveva scritto. Per di più non tollerava che lei uscisse con altri uomini; gli dispiaceva che lavorasse; avrebbe preferito che dipendesse economicamente da lui, avrebbe voluto pagarle tutto ed essere apprezzato per la sua generosità.

Alla fine dell’estate si liberò l’appartamento accanto al loro, e Doris decise di traslocare, promettendo a Dick che i loro rapporti non sarebbero cambiati: avrebbero continuato ad aiutarsi a vicenda, lei gli avrebbe preparato da mangiare, sarebbe andata a trovarlo, ma entrambi avrebbero avuto un po’ più di spazio per la loro vita privata. Era meglio così, no?

No, pensò Dick, per il quale solo una cosa era evidente: ancora una volta una donna lo lasciava. Ci rimase così male che imboccò un’autostrada contromano e fu di nuovo ricoverato all’ospedale psichiatrico, dove si innamorò di una giovane drogata che sperava di salvare. Da allora, temendo di rimettersi al volante, si fece sempre accompagnare da Tim Powers ai suoi appuntamenti settimanali con Maurice. Insisteva perché lo portasse lì parecchio tempo prima della seduta e venisse a riprenderlo molto più tardi. Powers pensò dapprima che l’amico non volesse costringerlo ad aspettare fuori, poi scoprì con costernazione che ogni volta usciva di lì con dei foglietti di carta su cui aveva appuntato numeri di telefono e nomi femminili. L’ospedale psichiatrico era diventato il centro della sua vita sociale e, come per altri le discoteche, le spiagge o le lavanderie automatiche, un posto dove rimorchiare.

 

 

Se si esclude l’episodio di cui parlerò nel prossimo capitolo, i suoi tentativi di riaccasarsi andarono tutti a vuoto: schizofreniche, drogate, malate di cancro, quelle donne di cui desiderava soltanto amare i problemi sembravano essersi messe d’accordo per sfuggire ai suoi ostinati corteggiamenti da buon samaritano. Non aveva mai vissuto da solo. Piuttosto preferiva morire. Questa volta tuttavia, o perché in lui gli istinti di vita e di morte si erano entrambi attenuati, o perché era diventato un po’ più saggio, ci si abituò. Nella sua esistenza si stabilì una routine che sarebbe rimasta più o meno immutata nel corso di quegli ultimi anni così poveri di avvenimenti esterni. Lui che aveva traslocato tante volte andò in crisi quando la sua casa-prigione fu messa in vendita: alla fine riuscì a comprare l’appartamento e divenne perfino presidente dell’associazione dei condomini, titolo di cui spesso si vantava per dimostrare fino a che punto fosse cambiato. In quel periodo i soldi non gli mancavano: i suoi vecchi libri continuavano a essere venduti all’estero, la Warner aveva comprato i diritti di Ma gli androidi sognano pecore elettriche?. Lui però non sapeva che farsene di tutto quel ben di Dio: arrivava troppo tardi. Ormai aveva fatto il callo alla sua vita da scapolo e a quell’appartamentino con le persiane sempre chiuse che puzzava di pipì di gatto. Siccome ogni notte sfacchinava sull’Esegesi, la mattina si svegliava tardi, si vestiva alla meno peggio con un paio di jeans e una camicia a fiori spiegazzata, faceva la spesa in un piccolo supermercato a due passi da casa, dove comprava surgelati, dolciumi e scatolette di cibo per gatti. Di pomeriggio leggeva i suoi famosi libri di consultazione, ascoltava musica, scriveva lettere, faceva telefonate, riceveva visite. Nonostante la separazione si era riconciliato con Tessa, che gli portava Christopher diverse volte alla settimana. L’articolo di Paul Williams aveva fatto di lui un soggetto giornalistico alla moda: molti suonavano alla porta attratti dalla prospettiva di un’intervista stravagante, e raramente andavano via delusi. Soprattutto continuava a vedersi con Doris. Poco tempo dopo la fine della loro convivenza, la ragazza ebbe una ricaduta e stette molto male. Un tramezzo sottile separava il suo bagno da quello di Phil, che la sentiva lamentarsi, rantolare e cercare di vomitare per ore. Le propose di tornare a vivere con lui, così avrebbe potuto reggerle la fronte più comodamente, ma Doris rifiutò. Quando la portarono in ospedale, lui passò intere giornate a piangere al suo capezzale tenendole la mano. Seduta sul letto, Doris sembrava un vecchio senza capelli. La chemioterapia l’aveva resa quasi sorda e cieca. Ma quando le chiedeva come stava, lei mormorava: «Sento che Dio mi sta curando». Lui scuoteva la testa disperato, accusava Dio di essere uno schifoso bastardo e se ne ebbe un po’ a male allorché, contro ogni aspettativa, la ragazza guarì.

 

 

Ogni martedì sera Powers riceveva a casa sua un gruppetto di amici, tutti scrittori di fantascienza alle prime armi come lui. Da sposato Dick aveva partecipato di rado a queste riunioni; adesso che era di nuovo scapolo e che abitava lì accanto, non se ne perse una. Le donne non erano ammesse, cosa che un tempo avrebbe trovato insopportabile, ma che ora in un certo senso lo faceva sentire più a suo agio, liberandolo dall’ossessione di dover apparire seducente. Non avendo secondi fini, poteva comportarsi con la massima naturalezza fra quei giovanotti che si atteggiavano ingenuamente a soci di un club dell’epoca vittoriana intenti a confrontare con aria da intenditori le varie marche di whisky o di tabacco aromatico. In quelle degustazioni critiche si alternavano discussioni su libri, film e dischi appena usciti. Con l’arrivo di Dick le serate presero una piega più anomala, arricchendosi di una rubrica inedita, che avrebbe potuto chiamarsi «Bollettino dell’Esegesi». Ogni martedì lui si presentava con una buona bottiglia e una nuova teoria sul significato della sua esperienza, di cui tutti erano stati informati e su cui si erano impegnati solennemente a mantenere il più stretto riserbo. Un giorno appianava la controversia tra pitagorismo e zoroastrismo – questione di cui fino a quel momento i suoi amici ignoravano l’esistenza –, la settimana successiva si metteva a difendere a spada tratta la dottrina dello gnostico Basilide. Influenzati dai suoi discorsi, i membri del gruppo, volenti o nolenti, si trasformarono ben presto in una cerchia di teologi.

A parte lui, due persone dominavano quella che un sogno lo convinse a battezzare la Rhipidon Society – dal greco rhipis, «pinna», che naturalmente era un’allusione al simbolo del pesce.8 Timothy Powers e K.W. Jeter avrebbero potuto formare un duo comico: il ragazzo perbene e la testa di cazzo. Biondo, paffuto, con gli occhi azzurri, sempre sorridente e servizievole, Powers nei romanzi dava libero sfogo alla sua immaginazione briosa e spontanea. La sua bonomia, unita a una credulità quasi proverbiale, che probabilmente accentuava di proposito, lo rendeva adattissimo al ruolo di confidente alla Watson, quel Watson che il grande detective stupisce continuamente e che, nei giorni di ozio, si diverte a far diventare matto. Nessuno meglio di lui sapeva strabuzzare gli occhi ed esclamare incredulo:

«Phil, questa volta sono sicuro che mi stai prendendo in giro...».

«Purtroppo no, Powers. La CIA ha scoperto una droga disorientante così efficace che chi la prende crede di trovarsi nel suo solito ambiente, di continuare la sua vita di tutti i giorni, mentre in realtà... Non dovrei dirti queste cose, vedo che sei impallidito, ma ci sono buone probabilità che in questo momento i nostri cervelli stiano fluttuando in un barattolo di vetro e che questo nostro mondo sia solo un’illusione creata dalla porcheria che ci ha rifilato Jeter».

«Keidabeliù?» (tutti quanti chiamavano Jeter con le sue iniziali).

«Non ci hai fatto caso? È stato quel farabutto a preparare il caffè ed è l’unico che non l’ha bevuto...».

Nei primi tempi, quando si era da poco trasferito a Fullerton, Dick diffidava di Jeter, che frequentava il corso del professor McNelly e che lui credeva un agente provocatore. Ma poi, con il passare degli anni, aveva smesso di trattarlo con freddezza e anzi aveva cominciato a trovare eccitante avere per amico un personaggio così terribilmente losco. Magro, con gli zigomi sporgenti e gli occhi da rettile, K.W. sembrava un sicario da film western. Anche lui scriveva, perlopiù romanzi del terrore pieni di scene di torture e di mutilazioni così crudeli da dare il voltastomaco. Quelli a cui era simpatico elogiavano il suo umorismo sferzante, gli altri lo trovavano odioso.

Per Jeter la principale preoccupazione nella vita era non farsi fregare. Ascoltava la gente come si ascolterebbe un concessionario che cerchi di piazzare una macchina usata. Sul piano spirituale questa ossessione della truffa si traduceva in un ostinato agnosticismo. Powers, invece, era un cattolico romano estremamente dogmatico. Ed era una vera goduria scandalizzarlo. Al contrario di Doris che, quando sentiva discorsi dissacranti o eretici, passava oltre fingendo indifferenza, come le avevano insegnato a fare se le fosse capitato di incontrare un esibizionista, Powers si indignava, si scaldava, argomentava, assicurava a Phil – certo di fargli piacere – che all’epoca dell’Inquisizione lui stesso, Powers, avrebbe appiccato il fuoco al suo rogo e avrebbe pregato per la salvezza della sua anima.

Era uno di quei cattolici che, non potendosela spiegare, negano l’esistenza del Male. Il Male, dicono, è solo un cammino tortuoso attraverso il quale si afferma il Bene. Una sorta di sferza di cui Dio, da buon pedagogo, si serve per educarci. A questa idea, tanto lineare quanto poco convincente, è pratica comune, a partire da Dostoevskij, contrapporre lo scandalo, ingiustificabile da qualsiasi forma di Provvidenza, della sofferenza dei bambini. Ivan Karamazov ha detto tutto quello che c’era da dire a riguardo, e il ruolo di Ivan spettava logicamente a Jeter. Escluso Dick, che comunque non parlava mai di Christopher se non per addurre come prova la sua guarigione, i membri della Rhipidon Society non avevano bambini, ma gatti, e così correggevano il ragionamento in base alle loro priorità affettive. «E il mio gatto?» tuonava Jeter appena sentiva pronunciare il nome di Dio, il che accadeva spesso in un circolo come quello, in cui, se solo andava via la luce, tutti gridavano per far arrabbiare Powers e Dick: «Cazzo, Dio ha fatto di nuovo saltare i fusibili!».

Un giorno il gatto di Jeter era stato investito da una macchina. Quando il suo padrone aveva raccolto il corpicino, l’animale era ancora vivo, respirava attraverso la schiuma insanguinata che gli copriva il muso. Dietro quella poltiglia Jeter aveva visto balenare uno sguardo pieno di orrore e di incomprensione, che non era più riuscito a dimenticare.

«Il giorno del Giudizio,» proseguiva «quando arriverà il mio turno, dirò: “Aspetta un momento!”. Tirerò fuori il mio gatto morto da sotto la giacca, rigido come una padella, lo metterò sotto il naso del Grande Giudice tenendolo per la coda e gli chiederò: “Come me lo spieghi questo?”».

«È la domanda più antica del mondo» osservava Powers. «Perché non leggi il Libro di Giobbe?».

«Sì, certo» ridacchiava Jeter. «Io capisco solo che l’universo è fottuto. O Dio non esiste, o è cattivo, o non gliene frega niente. Guarda, penso che mi metterò anch’io a scrivere una mia esegesi».

«Ma Dio non parla con te».

«Lo sapete chi è che parla con Phil? Lo sapete chi gli trasmette le parole greche e la luce rosa? Gli abitanti del pianeta Cretino. Phil, come la chiami tu la sapienza di Dio? Santa qualcosa?».

«Hagia Sophia» diceva cautamente Dick.

«E come diresti Hagia Cretina? Santa Stupida?».

«Direi Hagia Moron... Anche questa è una parola greca. L’ho scoperta cercando oxymoron».

Dick si difendeva sempre cedendo terreno all’avversario. Ed era grato a Jeter per il ruolo che svolgeva immancabilmente nei suoi confronti. Forse non era molto acuto – non si poteva fare affidamento su di lui per intavolare una discussione corretta –, ma con la sua granitica brutalità fungeva al tempo stesso da argine e da elemento di contrasto. Da una parte impediva a Phil di dimenticare che forse il suo incontro con Dio era solo il frutto di un delirio paranoico. Dall’altra non si poteva fare a meno di pensare che, se l’unica alternativa alla follia era la cloaca universale postulata dalla filosofia di Jeter, tanto valeva restare pazzo. E Jeter, che tutto sommato non era un cattivo diavolo, spesso finiva per convenirne: «Ognuno se la sbroglia come gli pare. Magari sei tu che hai puntato sul cavallo giusto».

 

 

Certi giorni si sentiva molto felice. In fondo che cosa gli mancava per esserlo? Aveva una vita tranquilla, serena, il tabacco, la musica, i gatti, un gruppo di amici fidati che pur prendendolo in giro lo ammiravano, e infine la sua Esegesi, in cui a poco a poco si rivelavano i disegni del Signore su di lui e sul mondo. Per il momento erano ancora oscuri, contraddittori, e lui si vedeva perso di fronte alla grande quantità di teorie possibili, ma era convinto che un giorno lo spirito che sonnecchiava dentro di lui si sarebbe scosso, avrebbe deciso che lo scherzo era durato abbastanza e avrebbe messo la parola «fine» al suo gigantesco manoscritto. Lui, Dick, sarebbe stato seduto a scrivere come sempre: «Mi chiedo... Forse... E se?...», quando a un tratto l’entità che era nascosta nel profondo del suo animo avrebbe preso in mano la penna e la situazione, e avrebbe scritto: «Esatto, è così». Allora a tutti sarebbe apparso di un’evidenza lampante che era proprio così. Se Dio l’aveva scelto come scrivano, le cose non potevano andare diversamente. Ma d’altra parte chi può sapere quale sia la volontà di Dio? A credere di averla intuita, non si rischia di contrariarLo? Dick attraversava momenti di terrore puro, era còlto da accessi di sconforto, durante i quali temeva di essere destinato a sguazzare fino alla morte nel suo pantano di carte. Era quasi certo che il segreto dei segreti fosse lì in mezzo, fra quei relitti alla deriva, ma questo non significava che sarebbe riuscito a scoprirlo. Forse era stato deciso in alto loco di destinargli quella crudele vocazione, quell’interminabile supplizio di Tantalo, quella sorta di moscacieca metafisica: una voce gli ripeteva ogni momento «fuochino, fuochino» e intanto continuava a farlo avanzare nelle tenebre. Sarebbe morto senza aver smascherato l’inganno, nell’incertezza. Poteva sempre dirsi che, appena passato dall’altra parte, avrebbe saputo e, come prometteva san Paolo, avrebbe finalmente visto la realtà faccia a faccia. Ma chi poteva garantirglielo?

Dopo tre, quasi quattro anni, l’Esegesi sembrava sempre più lontana dal poter diventare un libro. Dick scherzava volentieri sull’argomento con Powers e gli altri, ma in realtà cominciava a sentirsi piuttosto a disagio. Aveva riempito migliaia di pagine, che probabilmente nessuno avrebbe mai letto, aveva formulato teorie, collazionato citazioni, e ogni giorno quel lavoro immenso si allontanava un po’ di più dalla meta: spiegare pubblicamente quello che era successo nella primavera del 1974. Per ottenere degli anticipi aveva buttato giù le sinossi di diversi romanzi, che tutti, lui compreso, trovavano estremamente promettenti. Ma né il seguito della Svastica sul sole, né un progetto intitolato To Scare the Dead, che avrebbe dovuto raccontare di un uomo d’affari californiano dalla mente infestata dallo spirito di un Esseno del primo secolo dopo Cristo, avevano visto la luce. Un tempo, quando era uno scrittore prolifico, lo assillavano chiedendogli quando si sarebbe deciso a scrivere qualcosa di serio. Adesso era peggio: gli chiedevano se scrivesse ancora. Alcuni sostenevano che la sua celebre immaginazione si era esaurita, ma lui sapeva bene che non era quello il punto. Non aveva mai avuto immaginazione. I suoi erano semplici resoconti. Per sicurezza era stato a lungo tenuto all’oscuro della verità, e quindi aveva creduto che le sue storie fossero inventate, come Ragle Gumm credeva di rispondere alle domande di un concorso organizzato dalla gazzetta locale. Fino al giorno in cui i suoi desideri erano stati esauditi, il velo delle apparenze si era dissipato, e una colonia di tarli metafisici aveva cominciato a scavare gallerie nell’Esegesi. Una storia deve avere un senso, un significato ultimo, e tutti i sensi gli erano stati riversati nella testa contemporaneamente. Con pazienza, da anni, catalogava e selezionava, ma sapeva in cuor suo che più andava avanti, meno progrediva. Il mistero cresceva insieme alla pila di pagine illeggibili.

 

 

A volte pensava che nella primavera del 1974 avrebbe dovuto morire. Quella era la scadenza inserita nel suo programma, e probabilmente, in tutti gli universi compossibili tranne uno, le cose erano andate come previsto, e lui era stato trasformato in cenere o in luce. Ma c’era una variante in cui si era verificata un’anomalia: invece di avere l’illuminazione ultima e morire, aveva avuto l’illuminazione ed era sopravvissuto. Per un motivo o per un altro, il Programmatore gli aveva rivelato quello che normalmente rivela il passaggio dall’altra parte e poi lo aveva lasciato in questa valle di lacrime. Da ciò derivava la sensazione che non potesse succedergli più niente, che la vita stesse continuando senza di lui. Philip K. Dick, in un certo senso, era morto a quarantacinque anni. Nel marzo del 1974 era stata scritta la parola «fine» in fondo all’ultima pagina della sua storia. Gli era stato concesso un rinvio perché potesse rileggerla e coglierne il senso alla luce di quello che aveva intravisto. Prima o poi ci sarebbe riuscito, e allora lo avrebbero lasciato morire sul serio.

Dal punto di vista del Programmatore probabilmente l’esperimento non era privo di interesse. Dick invece lo vedeva nell’ottica del topo da laboratorio imprigionato in un labirinto. «Sono diventato» si lamentava «una macchina che pensa e non fa altro che pensare. Mi sono posto, o mi è stato posto, un problema che non posso dimenticare ma neppure risolvere, per cui sono in trappola. Ogni giorno il mio mondo si restringe. Lavoro di più e vivo di meno. Questo mi spaventa, ma immagino che sia il mio karma».

Non sarebbe successo più niente. Non avrebbe mai più scritto libri, né conosciuto altre donne. Era condannato a rileggere i suoi vecchi romanzi, a ripensare alla vita di un tempo, a riempire il testo di inutili note a margine senza mai riuscire a condensarne il senso in un epilogo soddisfacente.

E invece all’improvviso nella sua vita sopraggiunse qualcosa. Qualcosa, o meglio qualcuno.

 

 

8. In realtà rhipis in greco significa «ventaglio»; l’errore, già presente in Dick, deriva probabilmente da una confusione tra fin (pinna) e fan (ventaglio) [N.d.T.].