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PRESENZA REALE
Un pomeriggio di novembre del 1963 Phil camminava attraverso i campi trasformati in un pantano dalle piogge incessanti. Negli avvallamenti del terreno si vedevano spuntare qua e là i rami degli alberi sommersi dall’acqua; ancora un po’ e avrebbe dovuto usare una barca per raggiungere il capanno. Quel diluvio gli ricordava uno dei suoi passi preferiti di Winnie-the-Pooh, ma neanche il ricordo del libro che da bambino adorava riusciva a rallegrarlo. Da quando Anne aveva smesso di prendere le medicine prescritte dal dottor Flibe, tutto era tornato come prima, anzi adesso era peggio di prima perché lei ce l’aveva a morte con lui, e lui, che non poteva più illudersi di essere il suo salvatore, si sentiva di nuovo succube. Alla domanda se, stando così le cose, fosse meglio andarsene o restare, l’I Ching gli aveva dato una risposta poco attraente: Ku, l’Emendamento delle cose guaste.
L’esagramma Ku, che rappresenta una scodella brulicante di vermi, rispecchiava bene il suo stato d’animo, il suo matrimonio, la sua vita. La conclusione sembrava evidente: chiunque avesse avuto un briciolo di istinto di conservazione avrebbe dato un calcio a quella scodella e se la sarebbe filata a gambe levate, per evitare di ritrovarsi con il cervello completamente liquefatto a guardare per il resto dei suoi giorni i vermi che si divorano a vicenda. Ma secondo l’I Ching niente è definitivo, tutto cambia: gli esagrammi più ottimistici contengono i germi del declino, mentre i più sconfortanti, come quello che aveva appena ottenuto, annunciano un rinnovamento imminente. «Il ristagno» diceva il commento «comporta al tempo stesso l’invito a eliminarlo. Ciò che fu guastato per colpa degli uomini potrà essere risanato dal lavoro degli uomini. Propizio è attraversare la grande acqua».
In altri termini, invece di fuggire, di liberarsi dalle sabbie mobili in cui Anne lo aveva trascinato, doveva cercare ancora una volta di salvare il loro matrimonio. Forse la traversata della grande acqua stava giungendo al termine. Sarebbe stato sciocco mollare adesso, come se Cristoforo Colombo, scoraggiato, avesse fatto dietrofront a poche gomene dalle coste dell’America. D’altro canto, perseverando nell’errore, si corre il rischio di rovinarsi la vita o addirittura di perderla, e non c’è niente che permetta di sapere se stiamo andando verso la terra o verso la morte.
Sopra di lui un uccello gridò. Phil alzò lo sguardo.
Nel cielo, al posto del cielo, c’era una faccia. Una faccia immensa, metallica, orribile, che, china su di lui, lo guardava.
Spaventato, chiuse gli occhi. Sotto le palpebre gli rimaneva ancora qualcosa di quella visione: non la forma della faccia, ma la sua espressione incredibilmente malvagia, come se là, in quello sguardo che emanava dalle due fessure ai lati del naso, o del posto in cui avrebbe dovuto esserci il naso, si fosse concentrato tutto il male del mondo. Capì che per tutta la vita aveva avuto paura di vedere quella faccia. La maschera antigas del padre, che da bambino lo aveva spaventato tanto, preannunciava esattamente questo. E ora, ecco, l’aveva vista. Non l’avrebbe dimenticata mai più. Mai più avrebbe dormito sonni tranquilli.
Lentamente sollevò le palpebre. Siccome aveva abbassato la testa, per prima cosa vide i suoi scarponi, i suoi grossi scarponi militari, saldamente affondati nella terra fradicia. Era un sollievo la loro presenza, così concreta e reale. Alzò di nuovo lo sguardo.
La faccia era sempre là, lo scrutava.
Questa volta non richiuse gli occhi, ma aprì la bocca e cercò di parlare. Dalla gola gli uscì una voce tremula, che disse: «Non ho paura. Tu non esisti». Non la riconosceva, ma siccome sembrava intenzionata ad articolare proprio le parole che lui aveva scelto, la lasciò proseguire: «Tu non esisti. Sei un’allucinazione prodotta dal mio cervello. Sono stato troppo infelice negli ultimi tempi. Troppa solitudine, troppi dispiaceri, è per questo. Ma tu non esisti».
Ebbe l’impressione che la faccia sogghignasse con aria di scherno. Scherno e morte, ecco cos’era. Dick fuggì via di corsa. Corse fino a casa senza fermarsi, senza incontrare nessuno, senza cercare di evitare le pozzanghere piene di fango che gli schizzava sui vestiti, senza guardare il cielo sopra la sua testa, senza sperare che la faccia potesse essere scomparsa.
Per diversi giorni la faccia nel cielo giocò a nascondino con lui, scomparendo quando lui trovava il coraggio di alzare gli occhi per vedere se era ancora là e insinuandosi nel suo campo visivo quando meno se lo aspettava. Qualsiasi cosa l’occhio riuscisse a captare, compresi i fosfeni sotto le palpebre, la conteneva o la annunciava.
Con i nervi a fior di pelle, Phil andò a San Rafael per consultare il dottor Flibe, che gli chiese con aria sospettosa se per caso non avesse preso quella droga allucinogena di cui i giornali parlavano sempre più spesso. Aveva letto (e la cosa lo aveva lasciato perplesso) di una cura a base di LSD che gli psicoanalisti più chic di Los Angeles proponevano ai più chic tra i loro pazienti per duecento dollari a seduta. L’attore Cary Grant aveva confessato alla rivista «Time» che da un anno ne faceva uso tutte le settimane, abitudine che aveva cambiato radicalmente il suo modo di pensare e di recitare: dopo averlo scoperto il dottor Flibe era andato a vedere il suo ultimo film, Sciarada, sperando di notare il cambiamento e, in effetti, a saperlo, qualcosa si notava. La moda non aveva attecchito solo tra i buontemponi di Hollywood, ma anche negli ambienti accademici più rispettabili: un professore di Harvard era stato licenziato per aver raccomandato ai suoi studenti l’uso intensivo di quella droga. Sosteneva di aver vissuto esperienze sbalorditive sotto l’effetto dell’LSD...
Dick alzò le spalle: sì, ne aveva sentito parlare, aveva letto Huxley, che diceva più o meno le stesse cose; ma non aveva mai provato l’LSD, non era facile procurarsi roba del genere a Point Reyes, e certo la sua esperienza non somigliava a quella del professore di Harvard. Altrimenti non si spiegava perché mai quest’ultimo tentasse di fare proseliti. Se la visione fosse stata la stessa, quella faccia mostruosa nel cielo che cercava qualcuno da divorare, senz’altro non avrebbe incoraggiato i suoi studenti a imitarlo. A meno che non fosse il più abietto degli individui: sì, un servo di Satana, che attira le prede verso il suo padrone. E, a pensarci bene, in fondo era possibile. Possibile ma spaventoso: se quel Leary stava davvero facendo una cosa del genere, Adolf Hitler al confronto era un angioletto...
Calma, calma, disse il dottor Flibe, sempre più innervosito dal suo paziente. Credendo di ripiegare su un terreno più sicuro, cercò di giustificare l’allucinazione con la stanchezza, l’ansia, l’internamento di Anne, ma Dick non si lasciò convincere: in primo luogo non lo rassicurava affatto pensare che un simile orrore non fosse nella realtà ma nel suo cervello, per cui, se questa spiegazione doveva servire a tranquillizzarlo, spiacente, ma cadeva nel vuoto; in secondo luogo, sapeva benissimo cosa gli era successo e non si trattava di un’allucinazione, anzi era l’esatto contrario. Per varie ragioni – la fatica, certo, le anfetamine, l’infelicità e forse anche una particolare predisposizione interiore – in lui si era inceppato il meccanismo psichico deputato a filtrare la realtà. Il velo che la nasconde e ci permette di sopportarla si era strappato: aveva visto, e adesso il suo problema era sopravvivere a quella visione.
«Sa che cosa diceva John Collier?» chiese. «L’universo è una pinta di birra con molta schiuma, e il nostro mondo non è che una bolla in mezzo a tutta quella schiuma. Può capitare che alcuni, dall’interno della loro bolla, intravedano il volto di quello che versa la birra, e da quel momento per loro niente è più come prima. Ecco cosa mi è successo».
«Vuole dire» azzardò il dottor Flibe «che ha visto Dio?».
Da San Rafael guidò fino a Inverness, dove si trovava la chiesa frequentata da Maren Hackett. Era un grazioso edificio di legno sulle rive di un fiordo e, pur essendo consacrato al rito cattolico episcopale, evocava come Maren l’immagine di una austera serenità nordica. Entrò e chiese di confessarsi. Il prete gli sembrò meno ottuso dello psichiatra: perlomeno ascoltava quello che aveva da dire. A più riprese la sua faccia si contrasse in una smorfia di dolore, come se capisse. Faceva pensare a un vecchio cacciatore che in passato ha avuto a che fare con un lupo mostruoso ed è convinto di aver liberato il mondo da quella belva, fino al giorno in cui il racconto di un giovanotto sgomento gli fa capire che il suo avversario è tornato e che ancora una volta dovrà combattere. Alla fine della confessione disse semplicemente: «Lei ha incontrato Satana».
La diagnosi confortò Dick: la Chiesa lo prendeva sul serio, conosceva il problema. Anche se, pensò, in un certo senso faceva in modo di eluderlo rifiutandosi di considerare l’ipotesi che avesse incontrato Dio in persona, che quella visione terrificante fosse Dio e non un suo malefico sottoposto. In fondo, il mondo era fatto davvero così bene da poterne senz’altro attribuire il merito a una divinità benigna? Nel sentirgli formulare quell’ipotesi, il prete parve ancora più amareggiato, ma non stupito. Niente lo stupiva, o almeno così sembrava. Probabilmente anche le peggiori bestemmie gli avrebbero fatto solo scuotere la testa con tristezza, come un medico esperto davanti a un sintomo allarmante ma banale. Era snervante e al tempo stesso rassicurante. Dick non era più solo di fronte alla faccia metallica che riempiva il cielo. Altri, pur senza vederla, sapevano della sua esistenza e avrebbero pregato con lui, per lui.
Quando le annunciò che aveva intenzione di entrare in seno alla Chiesa cattolica episcopale, la reazione di Anne lo sorprese. Kleo sarebbe scoppiata a ridere, e tutta Berkeley con lei; qualche mese prima lui stesso sarebbe scoppiato a ridere. Anne invece ne fu commossa. Lo abbracciò. Mormorò che si sarebbe fatta battezzare insieme a lui e avrebbe fatto battezzare anche le figlie. L’infelicità attenua il senso del ridicolo, avvicina a Dio: è proprio a questo che serve, secondo i cristiani. Dick capì che agli occhi di Anne la conversione era un estremo tentativo per salvare il loro matrimonio o sopportarne il naufragio. Si ripromise di non sprecarlo.
Per prepararsi al battesimo, seguirono un corso di catechismo. Né l’uno né l’altra avevano ricevuto un’educazione religiosa, ma il prete preferiva l’ignoranza alle vaghe e copiose nozioni teologiche di Phil, sempre incline alla riabilitazione degli eresiarchi e a sostenere la superiorità dei Vangeli apocrifi, prima ancora di aver letto quelli canonici.
Le bambine non riuscivano a capire bene il principio della comunione. Ne erano scioccate. Trovavano disgustoso che Gesù esortasse i suoi seguaci a mangiare il suo corpo e a bere il suo sangue, ai loro occhi era come una forma di cannibalismo. Anne, per rassicurarle, disse che andava inteso in senso figurato, un po’ come nell’espressione «bere le parole di qualcuno», ma Phil protestò: non aveva senso diventare cattolici se poi dovevano razionalizzare e banalizzare tutti i misteri.
«Non ha senso nemmeno» replicò Anne «diventare cattolici per trattare la religione come se fosse una delle tue storie di fantascienza».
«È proprio qui che volevo arrivare» disse Phil. «Se prendiamo sul serio le parole del Nuovo Testamento, siamo costretti a credere che da più di diciannove secoli, da quando Cristo ci ha lasciato il Paracleto, l’umanità stia subendo una sorta di mutazione. Forse non si vede, ma è così; e se non ci credi, non sei cristiana, tutto qua. Non sono io che lo dico, è san Paolo, e non posso farci niente se sembra una storia di fantascienza. Il sacramento dell’eucarestia è l’agente di questa mutazione, quindi non presentarlo alle tue povere figlie come una specie di stupida commemorazione. Statemi a sentire, bambine. Vi voglio raccontare la storiella del gatto e della bistecca. Una donna invita gente a cena e ha una bella bisteccona di tre chili sopra la credenza della cucina che aspetta solo di essere cotta, mentre lei sta in soggiorno a chiacchierare con gli ospiti e a bere un paio di Martini. Ma quando va in cucina per cuocere la bistecca, si accorge che non c’è più. E in un angolo c’è il gatto di casa che si lecca placidamente i baffi».
«Il gatto si è mangiato la bistecca» disse in tono solenne la figlia più grande.
«Dici che è stato lui? Be’, sei sveglia, ma aspetta. Gli ospiti accorrono e commentano l’accaduto. Sono spariti tre chili di bistecca e il gatto se ne sta lì accucciato, con l’aria sazia e allegra. “Pesate il gatto” dice qualcuno. Hanno tutti un po’ bevuto; sembra una buona idea. Così vanno in bagno e mettono il gatto sulla bilancia. Pesa esattamente tre chili. Ciascuno può vedere cosa segna la bilancia, e un ospite fa: “Ecco. La bistecca è lì”. Sono tutti soddisfatti per aver capito cos’è successo, adesso che ne hanno la prova empirica. Poi a uno viene uno scrupolo e chiede perplesso: “Ma allora il gatto dov’è?”».
Venne Natale. Le piogge finirono, la faccia nel cielo scomparve. Sotto l’albero Phil e Anne si scambiarono libri devozionali. La figlia maggiore ricevette una Barbie con vari vestiti, gli accessori per i capelli e per il trucco, e un fidanzato di nome Ken. A prima vista quell’incarnazione al tempo stesso idealistica e caricaturale del sogno americano non poteva che suscitare un moto di sarcasmo in uno che era cresciuto a Berkeley, ma dopo un po’ anche Dick si lasciò affascinare da Barbie e Ken. Immaginava gli archeologi del futuro, o i marziani, intenti a ricostruire la nostra civiltà a partire da quegli unici reperti. Come chiunque osservi una riproduzione in miniatura, non smetteva di studiarne i dettagli, ora precisissimi, ora piuttosto lacunosi. L’asciugacapelli di Barbie sembrava più sofisticato e più realistico di quello di Anne. Il reggiseno si agganciava come quelli veri ed era altrettanto difficile da sganciare, ma conteneva seni senza capezzolo e senza areola, e se Anne era girata dall’altra parte e lui sbirciava sotto le mutandine, ta-dan, non c’erano peli, nemmeno uno: gli archeologi del futuro non avrebbero mai scoperto come si riproducevano gli uomini del ventesimo secolo. Ma forse gli archeologi del futuro non si sarebbero meravigliati di niente, dal momento che sarebbero stati identici a Barbie e Ken. Barbie e Ken prefiguravano l’umanità del domani, destinata a sostituirci. Oppure – perché no? – erano l’avanguardia di un’invasione extraterrestre.
Era un argomento affascinante, ma lo aveva sfruttato già abbastanza, in particolare in un racconto scritto subito dopo un altro Natale, il primo che aveva trascorso con Anne e le figlie. Nel racconto, dei doganieri esaminano sospettosi una batteria di giocattoli con cui Ganimede vorrebbe inondare il mercato terrestre. Giocattoli apparentemente pacifici e educativi, ma considerato il leggendario espansionismo dei ganimediani, la prudenza non è mai troppa. Il timore è che possa trattarsi di una subdola forma di invasione, come già ne hanno progettate in passato per conquistare altri pianeti senza colpo ferire. La cosa più semplice, naturalmente, sarebbe rifiutare in blocco tutti i prodotti provenienti da Ganimede, ma la legge lo vieta: bisogna quindi aprire bene gli occhi per identificare un eventuale cavallo di Troia. Dei tre casi sottoposti ai test, due sembrano chiari e uno dubbio. Non c’è bisogno di essere un genio per respingere con orrore un costume da cowboy concepito in modo da confondere le percezioni di chi lo indossa e favorire lo sdoppiamento della personalità. Né per autorizzare la distribuzione di una variante banalissima, e neanche bellica, del Monopoli. Ma c’è anche una curiosa cittadella con dei soldatini robot che, a quanto pare, hanno il compito di assediarla. Senonché ogni tot di tempo si apre un varco, un soldato si avvicina, lo attraversa, il varco si richiude, e del soldato non c’è più traccia. Aprire la cittadella è impossibile, ma si può sempre pesare il tutto, e con ciò si constata che il peso complessivo del gioco è immutato, anche dopo la scomparsa di parecchi soldati. L’interesse ludico e educativo di questo meccanismo al tempo stesso complicato e apparentemente privo di scopo è tutt’altro che evidente. Dove vuole andare a parare? Dov’è il pericolo, ammesso che ce ne sia uno? Ma d’altra parte come potrebbe non essere così? Gli esaminatori si chiedono che cosa contenga la misteriosa cittadella e che cosa succederà quando si arriverà all’unica possibile conclusione del «gioco», ovvero quando ciascun soldatino sarà stato inglobato. Per saperlo bisogna aspettare, non senza una leggera inquietudine; e, mentre gli esaminatori aspettano, propongo di tornare alla nostra storia, quattro anni più tardi. (Rivelerò il risultato dei test alla fine del capitolo).
A Dick venne in mente un’altra idea per utilizzare Barbie e Ken: un’idea marziana. Marte, dove aveva già ambientato due o tre romanzi, è descritto come un pianeta particolarmente inospitale, su cui gli uomini emigrano solo se sono costretti. Gli sfortunati coloni vivono in cubicoli sotterranei, in mezzo a un deserto abitato quasi esclusivamente da orde di sciacalli telepatici, e marciscono nella noia, nell’abbandono e in una fiacca promiscuità. Naturalmente in condizioni del genere qualsiasi divertissement – nel senso allargato di Pascal, che include la religione – è benvenuto, il che apre sbocchi succulenti alle industrie terrestri capaci di offrirne. L’oppio dei popoli, su Marte, sono le bambole prodotte dalla Plastici P.P.
Lo scenario in cui si muovono Perky Pat e il suo fidanzato Walt, cloni di Barbie e di Ken, è la Terra, o più precisamente la California. È possibile procurarsi innumerevoli accessori in miniatura per ricreare con il massimo realismo la loro invidiabile esistenza. Una volta acquistati i componenti base – casa, giardino, automobile, costume da bagno sexy, tagliaerba –, gli abitanti dei cubicoli, incoraggiati nella loro febbre di consumo da una coppia di disc-jockey planetari al soldo della Plastici P.P., continuano a ingrandire e migliorare l’universo delle loro bambole: strade, bar, salone di bellezza, ex compagne di scuola con cui spettegolare, centro commerciale, spiaggia contornata da palme, psicoanalista con tanto di studio, lettino, pipa e opere di Freud rilegate – un articolo magnifico, quest’ultimo, molto richiesto. In teoria i coloni dovrebbero provare un incomparabile senso di benessere nell’azionare il costoso sistema automatico di apertura di cui hanno munito il loro garage in miniatura, per poi condurre Perky Pat in città, al volante della sua nuova Ford decappottabile, e farle inserire nel parcometro in miniatura una minuscola moneta da un dollaro, comprata per dieci dollari perché la miniaturizzazione e il trasporto costano cari. In realtà non sono certo stupidi e non si illudono di tornare davvero sulla Terra grazie a questi giocattoli infantili, proprio come i bianchi dei romanzi coloniali non ritrovavano la Parigi in cui erano nati annusando un vecchio biglietto del métro. Ma i plastici di Perky Pat sono la copertura legale di un traffico illecito, anche se tollerato. La società di Leo Bulero, che li commercializza, vende infatti anche una droga, un lichene proveniente da Ganimede chiamato Can-D,5 che dà al consumatore l’illusione di essere realmente Pat o Walt, di spogliarsi del proprio corpo miserabile per indossarne uno perfetto. Sebbene si trovi nell’angolo di un lurido cubicolo marziano, inerte, con le dita strette intorno a una bambola di plastica senza peli pubici, la sua mente riesce a evadere, a prendere il volo. Nel peggiore dei casi resta solo un vago ricordo della personalità in cui dimorava: qualcosa di molto simile a una confusa reminiscenza di una vita precedente. Liberatosi dalla sua crisalide e assunta l’identità gratificante di Pat o di Walt, può vivere insieme ai suoi compagni esperienze illimitate e svincolate da qualsiasi morale. Il concubinato, l’incesto, l’omicidio, tutto è lecito, come nei sogni o nei desideri. La differenza è che in questo caso si tratta di sogni condivisi, di desideri che si realizzano in un’altra dimensione. Meglio – o peggio ancora: se diverse persone prendono la droga contemporaneamente, possono ritrovarsi nello stesso corpo e condividerne le sensazioni. Così, in una delle prime scene del libro, vediamo sei persone, che abitano nella stessa topaia, partecipare al lussurioso bacio che Walt e Pat si scambiano su una spiaggia assolata. «I loro due corpi abbronzati racchiudono le essenze di sei persone. Due in sei, sei in due. Il mistero che si ripete».
Rispetto al mistero della «traslazione» che si compie ogni volta che assumono il Can-D, i coloni si dividono in «credenti» e «non credenti». Per questi ultimi i plastici sono solo una rappresentazione simbolica del mondo da cui sono stati esiliati, e l’identificazione con Pat o Walt è un’illusione che li aiuta a resistere. I primi, al contrario, sono convinti che ci sia davvero un momento sacro in cui i manufatti miniaturizzati del plastico non si limitano più a rappresentare la Terra ma diventano la Terra.
L’eucarestia è solo una commemorazione o invece evoca la presenza reale del Salvatore? Solo poche settimane prima Dick avrebbe preso questa domanda come pretesto per una divertente disputa teologica, uno spartiacque fra due diverse scuole di pensiero. Ma quell’inverno il problema che lo assillava era un altro: che cosa succederebbe se la presenza reale fosse quella dell’essere che aveva visto nel cielo e che ora sembrava scomparso, sebbene lui preferisse evitare di alzare lo sguardo per accertarsene?
«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» (Giovanni, 6, 56). Che cosa accadrebbe a chi, in buona fede, mangiasse la carne e bevesse il sangue di Palmer Eldritch?
Nei racconti di Lovecraft, che da bambino Dick divorava e che mi piace pensare abbiano determinato la sua vocazione così come hanno determinato la mia, si parla sempre di cose talmente orribili che l’autore rinuncia a descriverle. Tra i tanti aggettivi di cui si serve ritualmente per giustificare questa sua ostentata ed efficace tendenza a voltare la faccia, ce n’è uno, più caratteristico dei consueti eerie, uncanny e hideous, ed è eldritch. La parola eldritch, per Dick, racchiudeva tutto ciò a cui Freud fa riferimento quando parla dell’Unheimlich, il perturbante, ma con in più una dimensione panica. Alludeva infatti alla natura subdola, perfida, falsamente familiare delle cose, ma anche al terrore, quello che ci fa gridare, come gridiamo per svegliarci da un incubo. La verità, però, è che siamo già svegli, che non c’è scampo: l’orrore è qui.
Quando aveva iniziato a scrivere il libro Dick sapeva in che direzione stava andando. Ma aveva paura di andarci, una paura atroce. Tra Natale e Capodanno terminò le prime cento pagine, concepì l’ambientazione marziana, i cubicoli, Perky Pat, il Can-D. Mise a capo della Plastici P.P. e del traffico di droga di cui era la copertura una simpatica canaglia di nome Leo Bulero, affiancandogli come assistente un certo Barney Mayerson, depresso, incline a colpevolizzarsi e a rimpiangere all’infinito di aver preso la strada sbagliata a tutti i crocevia decisivi della sua vita. Avrebbe potuto accontentarsi, fare interagire tra loro quegli elementi sfruttando i paradossi prodotti dalla traslazione: aveva materia a sufficienza per un romanzo dignitosissimo. Ma aveva anche introdotto, qua e là, inquietanti accenni a un possibile ritorno di Palmer Eldritch.
Palmer Eldritch è stato un pescecane dell’industria, partito una decina d’anni prima per il sistema di Proxima, e di cui da allora non si è saputo più niente. Tutti lo credono morto, o peggio. Ma a un certo punto comincia a correre voce che sia tornato, qualcuno dice di averlo rivisto, di averlo riconosciuto dalle sue tre protesi: braccio artificiale, denti di acciaio inox e, al posto degli occhi, due sottili fessure dotate di una lente grandangolare. Dalla sua spedizione oltre i confini dei mondi conosciuti, Eldritch – o, come ben presto si sospetterà, la cosa che ha preso il suo posto – ha riportato una nuova droga destinata a soppiantare il buon vecchio Can-D. È il Chew-Z,6 pubblicizzato con lo slogan: «Dio promette la vita eterna. Noi la consegniamo a domicilio».
Il decimo giorno Dick scrisse la scena in cui Leo Bulero arriva sulla Luna per incontrare Palmer Eldritch e negoziare con lui – così pensa, povero ingenuo – un accordo commerciale. Quando si interruppe, all’ora di cena, sapeva che l’indomani avrebbe fatto provare il Chew-Z al suo eroe. Durante la notte si chiese cosa sarebbe successo se fosse morto nel sonno, come avrebbe fatto Eldritch a sbrogliarsela da solo. Ma non morì, non dormì nemmeno. Alla fine si alzò senza fare rumore. Entrò in bagno e, prima di aprire l’armadietto dei medicinali, si guardò a lungo allo specchio per poter ricordare più tardi la sua faccia. Poi si vestì e uscì. Quando passò davanti al recinto, il cavallo nitrì debolmente e si avvicinò. Sbuffava vapore dalle narici umide. Dick lo accarezzò, poi si allontanò nella notte. Con un senso di straniamento vedeva se stesso camminare verso il capanno. Gli tornarono in mente frammenti di un sogno che aveva fatto da bambino, in cui costruiva uno scivolo, saliva gli scalini e alla fine doveva lanciarsi, lasciarsi andare, scendere giù sempre più veloce verso un cielo senza stelle, fino in fondo, dove lo aspettava Palmer Eldritch per divorarlo.
Leo è seduto su una sedia in una stanza bianca e spoglia. Da un congegno elettronico poggiato su un tavolino esce la voce di Eldritch che gli annuncia la sua intenzione di invadere il sistema solare in un modo molto particolare, mai visto prima. Leo non lo prende sul serio. È venuto per parlare d’affari, per vedere se è possibile trovare un’intesa o se dovrà prepararsi a lottare con tutte le sue forze contro la concorrenza del nuovo lichene extraterrestre. Comincia a innervosirsi.
Allora la stanza gli scoppia davanti agli occhi.
Si ritrova su un pendio erboso. Accanto a lui c’è una bambina che gioca con uno yo-yo. Tutto è al tempo stesso normale e strano. L’atmosfera potrebbe essere quella di Alice nel paese delle meraviglie, ma non lo è: c’è qualcos’altro, qualcosa di molto più sgradevole.
Eldritch.
Inequivocabilmente e inspiegabilmente la bambina è Eldritch. L’erba del prato è Eldritch. Lo yo-yo, l’aria che si respira, ogni cosa è intrisa di Eldritch. Leo capisce che il posto in cui si trova è quello «dove vai quando ti danno il Chew-Z» e che devono averglielo fatto assumere a sua insaputa. Verosimilmente sulla Luna, nella stanza bianca e spoglia in cui è stato rinchiuso. Ma forse quella stanza bianca e spoglia faceva già parte dell’allucinazione. Allora deve essere successo prima: prima che sbarcasse sulla Luna? O prima, ancora prima, non c’è modo di provare che non fosse già cominciato, che Eldritch non si stesse divertendo a fargli credere che la sua vita fosse reale, a illuderlo, come un pescatore crudele che dà lenza al pesce che ha preso all’amo, prima di tirarlo verso di sé con un colpo secco. Ed è proprio ciò che avviene. Eldritch in persona, con le sue tre protesi, si presenta a un incrocio del labirinto in cui ha attirato Leo e, con lo stesso zelo con cui il pescatore esporrebbe al pesce le regole fondamentali della pesca con la lenza, gli illustra le virtù del «prodotto autentico», di cui il Can-D non è che un surrogato.
«Tra poco, quando torneremo ai nostri corpi precedenti (e sottolineo l’uso della parola “precedente”, un termine che non applicheresti al Can-D), scoprirai che il tempo non è affatto trascorso. Potremmo restare qui per cinquant’anni, e sarebbe la stessa cosa: riemergeremmo sulla Luna e troveremmo tutto immutato, e un ipotetico osservatore non noterebbe nessuna perdita di coscienza».
«Da cosa è determinata la durata della nostra permanenza qui?» chiede Leo.
«Dalla nostra volontà».
«Non è vero. Perché è da un po’ che io voglio andarmene».
«Ma non l’hai costruito tu il luogo in cui ci troviamo; l’ho fatto io, è mio. Compreso il tuo corpo».
«Il mio corpo?» dice Leo inorridito.
«È la mia volontà che ti fa esistere qui tale e quale a come sei nel nostro universo. Ma quello che è più importante è che questo è un universo autentico, non un’allucinazione».
«Molti hanno la stessa sensazione con il Can-D. Per loro il fatto di essere Pat o Walt e di trovarsi davvero sulla Terra è un articolo di fede».
«Fanatici» commenta Eldritch con disprezzo. «Ma tu faresti meglio a credermi, perché altrimenti non uscirai vivo da questo mondo».
«Non si muore in un’allucinazione. Me ne torno alla Plastici P.P.».
E salendo su per una rampa di scale che la sua volontà ha fatto comparire, Leo lascia l’insidioso universo di Palmer Eldritch. Si ritrova sulla Terra, nel suo ufficio, circondato dai suoi collaboratori. Tutto eccitato, comincia a descrivere la sua esperienza con la droga rivale che, dichiara, è decisamente inferiore al Can-D:
«L’effetto non è per niente realistico. Si capisce subito che si tratta di un’allucinazione... Ma che cosa c’è, signorina Fugate? Perché mi guarda così?».
«Mi scusi, signor Bulero,» mormora la signorina Fugate «ma c’è qualcosa sotto la sua scrivania».
Qualcosa? Leo si china. In effetti c’è una cosa che lo guarda. Una cosa informe. Una cosa scura e ghignante.
«Be’, signorina Fugate,» sospira Leo «non ha senso discutere delle azioni da intraprendere per contrastare l’imminente comparsa sul mercato del Chew-Z. Perché non sto parlando con nessuno. Sono da solo, nel mondo in cui Eldritch mi tiene prigioniero. Se non avesse creato quell’essere immondo per mostrarmi fino a che punto mi tiene in pugno, avrei potuto andare avanti all’infinito. Vivere per cent’anni in questo surrogato di universo da cui non so come uscire.
«Maledizione, sono spacciato.
«Dio, aiutami. Se lo farai, se puoi arrivare fin dentro questo mondo, farò qualunque cosa Tu voglia».
Il battesimo, previsto da diverse settimane, fu celebrato il giorno dopo.
La famiglia al completo andò in chiesa, tutta in ghingheri. Phil portava la cravatta e una giacca di tweed con delle toppe di pelle ai gomiti, che, a detta di Anne, gli dava l’aria di un vero scrittore. A quanto poteva giudicare, considerata la sua poca familiarità con le cerimonie religiose, tutto stava andando per il meglio. Il prete recitava le rassicuranti parole della liturgia. Le bambine, Anne e Maren Hackett, che si era offerta di fare da madrina, avevano un’aria concentratissima. La piccola Laura si comportava bene. Nella chiesetta di legno c’era una bella atmosfera, ci si sentiva al riparo. Eppure Phil aveva paura. La scena gli sembrava una sorta di parodia sacrilega. Da un momento all’altro, in modo eclatante o con discrezione, Eldritch avrebbe potuto manifestarsi. Avrebbe potuto, per esempio, spostare un elemento insignificante della scenografia che lui stesso aveva allestito oppure far levitare il prete e scagliarlo con violenza contro il muro. Avrebbe potuto trasformare l’acqua battesimale in vetriolo. O semplicemente strizzargli l’occhio come a un caro amico, senza che nessuno se ne accorgesse. Per farlo si sarebbe servito dell’occhio del prete, sicché Phil evitava di incrociare il suo sguardo, per timore di riconoscervi quello della faccia nel cielo.
Cantarono il salmo 139, quello che dice così:
Signore, tu mi scruti e mi conosci,
tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo,
intendi da lontano i miei pensieri,
osservi il mio cammino e il mio riposo,
ti sono note tutte le mie vie.
La mia parola non è ancora sulla lingua
ed ecco, Signore, già la conosci tutta.
Alle spalle e di fronte mi circondi
e poni su di me la tua mano.
Dove andare lontano dal tuo spirito,
dove fuggire dalla tua presenza?
Se salgo in cielo, là tu sei,
se scendo negli inferi, eccoti.
All’uscita dalla chiesa Phil assunse l’aria mefistofelica che divertiva tanto le bambine e disse che aveva visto un diavoletto con le corna e una lunga coda biforcuta, palesemente infastidito dalla loro visita, sgattaiolare fuori dal fonte battesimale. Ma lo disse per scherzo. A ogni buon conto, era battezzato.
Quando si reimmerse nel calderone del libro, sentì il bisogno di nuove leve. Occorreva un testimone del suo battesimo, un ministro del Dio d’amore in cui era appena rinato da acqua e da Spirito che accompagnasse Barney, il suo alter ego, in prima linea. Per quanto in teoria fosse un po’ tardi per introdurre un nuovo personaggio, fece sì che, durante il viaggio verso Marte, Barney incontrasse una giovane neocristiana di nome Anne, candidamente vestita di probità e di lino, convinta che una realtà miserabile fosse migliore dell’illusione più esaltante e che il ricorso alle droghe fosse la prova della profonda sete spirituale dei coloni, della loro aspirazione a ciò che solo la Chiesa poteva dare. Ahimè, se c’era una cosa di cui Dick era assolutamente incapace, nonostante le sue buone intenzioni, era creare un personaggio positivo: figuriamoci una santa... Appena arrivata su Marte, la missionaria galattica ha un crollo e per sfuggire alla disperazione che l’attanaglia non trova niente di meglio che mandare giù una dose di Can-D. Perché è l’unica alternativa alle tenebre. E sa che quando arriverà il Chew-Z, cosa che succederà molto presto, pregare non le servirà a niente e soccomberà a quella terribile tentazione. Lo slogan di Eldritch, «Dio promette la vita eterna. Noi la consegniamo a domicilio», l’ha già conquistata, sebbene sia perfettamente consapevole che è una bugia e che, se non lo fosse, sarebbe ancora peggio.
«Un visitatore malvagio che cala su di noi dal sistema di Proxima e ci offre ciò per cui preghiamo da millenni. È davvero una cosa tanto terribile? Non so, ma sento che è così. Forse perché significa legarsi a Eldritch. Eldritch sarà costantemente con noi d’ora in poi, si insinuerà nelle nostre vite. Ogni volta che entreremo in traslazione – e chissà se dopo essere entrati riusciremo mai a tornare indietro – non vedremo Dio, ma Palmer Eldritch».
Ed è ciò che comincia ad accadere. Anche Barney prende il Chew-Z e, visto che Dick si identificava in lui ben più che nel suo capo, il libro intero precipita nel regno di Eldritch. Barney annaspa, barcolla, passa attraverso innumerevoli realtà alternative, universi matrioska sempre nuovi e sempre più insidiosi, in cui è sufficiente cominciare a fidarsi di qualcuno per vedere la sua immagine che si sgretola lasciando apparire gli occhi a fessura, il braccio artificiale e i denti d’acciaio: le tre stimmate di Palmer Eldritch (da cui il titolo del romanzo). Quando si risveglia dall’incubo, Barney trova al suo capezzale Anne, la neocristiana, ma lo scintillio dei suoi denti, il suo ghigno silenzioso, gli tolgono subito ogni illusione: non è ancora finita. Chi ha preso il Chew-Z vive per l’eternità in Palmer Eldritch, non può più uscire dal suo mondo: è una strada a senso unico. Il peggio è che tutti stanno cadendo nella rete e che una volta dentro non è più possibile avvertire gli altri. Fuori nessuno sospetta niente. Eldritch divorerà a uno a uno tutti gli uomini, tutti gli esseri viventi. Diventerà un pianeta e tutti gli abitanti di quel pianeta. Sarà l’anima della loro civiltà e l’anima di ognuno di loro. Sarà la loro civiltà e sarà ognuno di loro, e non ci sarà più niente, forse già adesso non c’è più niente all’infuori di Palmer Eldritch. Forse anche i pensieri confusi di Barney Mayerson, trascritti da Phil Dick e parafrasati da me, che si stanno facendo strada in quello che voi credete essere il vostro cervello, esistono solo in Palmer Eldritch, che si serve di noi, creature illusorie, per animare il suo eterno teatrino di marionette.
Forse Barney, Anne e gli altri coloni di Marte sono ancora nell’universo mentale di Palmer Eldritch quando si scambiano le loro impressioni, credendo che la traslazione sia terminata. Benché sia stata un’esperienza affascinante, tutti concordano sul fatto che c’era, come dire... qualcosa di strano, di spiacevole, «una presenza strisciante, come un’ombra che guastava le cose»...
«Quell’ombra, quella cosa» dice Barney «ha un nome che riconoscereste se ve lo dicessi. Anche se non userebbe mai quel nome per sé. Siamo noi ad averglielo dato. Prima o poi dovevamo trovarcela davanti».
«Ti riferisci a Dio? A un Dio... malvagio?» sussurra Anne.
«In parte. È l’esperienza che ne abbiamo noi. Niente di più».
Dick era cattolico episcopale. Da poco e a modo suo, ma era cattolico. Dopo aver scritto questo scambio di battute, pensò che non poteva concludere il libro così e aggiunse un dialogo teologico tra Anne e Barney, al tempo stesso molto bello e molto strano. Entrambi sanno che ormai, fino alla fine di quella che crederanno essere la loro vita, e forse anche dopo, Eldritch abiterà in loro. Tutto sembra tornato alla normalità, ma lui c’è, ci sarà sempre. Forse Dio è proprio questo, questo incubo. Eppure sanno anche che Eldritch è diverso da «quello che è venuto duemila anni prima». In lui, infatti, si manifesta il desiderio tipicamente umano di crescere a dismisura invece di ridimensionarsi, di immolare invece di essere immolato, l’amore per se stessi, ottuso, animalesco, prevaricatore: è un Dio predatore e proprio per questo perfettamente naturale. L’altro invece, quello che è sceso sulla Terra duemila anni fa, umile e puro di cuore, si mortifica, dà invece di prendere, dà perfino la vita: è un essere sovrannaturale e, paradossalmente, ben più reale di Eldritch.
Dick era cattolico ma era anche Dick il Ratto, e non poteva fare a meno di dare ogni volta un nuovo giro di vite ai suoi romanzi, motivo per cui aveva enormi difficoltà a terminarli. Concludere il libro su Palmer Eldritch evocando la figura di Cristo andava bene. Ma una volta scritto il capitolo, non riuscì a resistere alla tentazione di lasciare, nonostante tutto, l’ultima parola a Eldritch. All’origine di una simile tentazione c’erano da un lato l’orrore meramente filosofico che suscitava in lui la parola «fine», dall’altro un amore più antico, infantile e perverso per le storie con ribaltamento finale, per quel tipo di retorica che caratterizza i film horror, in cui il conclusivo ritorno alla calma – il mostro è morto, la vita può riprendere il suo corso e tutti tirano un sospiro di sollievo, i sopravvissuti e il pubblico – è solo apparente. Come sanno gli spettatori più accorti, il regista, se conosce il suo mestiere, tiene in serbo un atroce colpo di scena, un’ultima inquadratura destinata a ribaltare di nuovo la situazione e a inchiodarli alla sedia. Sebbene Dick fosse cattolico, per lui l’ultima parola spettava necessariamente al mostro, alle tenebre, all’orrore. E infatti Leo, nel razzo che lo riporta sulla Terra, si accorge che tutti i passeggeri, lui compreso, hanno le tre stimmate di Palmer Eldritch, che l’epidemia si è diffusa anche in chi non ha mai preso la droga. «E se il contagio» pensa preoccupato «raggiungesse la nostra mente? Se avessimo non solo le caratteristiche anatomiche della cosa ma perfino il suo modo di pensare, che ne sarebbe dei nostri piani per ucciderla?».
Il libro si chiude così. Trovo più raffinata la conclusione dei test descritti qualche pagina addietro. La cittadella misteriosa, una volta divorati tutti i soldatini, si apre e li lascia uscire. Non esplode, non si trasforma in un’altra cosa, non fa più niente. Il gioco sembra finito. L’enigma resta, irrisolto e sconcertante. Nel dubbio i doganieri ne proibiscono la distribuzione sulla Terra, così come avevano deciso di vietare la distribuzione del costume da cowboy che diffondeva la schizofrenia. Danno invece il via libera all’innocua variante del Monopoli la cui regola principale, si scoprirà ben presto, è «chi perde vince». Il gioco riscuote un successo straordinario. I giovani terrestri ne sono affascinati al punto da iniziare a seguire questa regola in ogni momento della loro vita. L’inquietante cittadella e il costume che fa diventare pazzi erano solo un diversivo; era questa la vera macchina da guerra. Quando verranno attaccati, i terrestri si lasceranno sconfiggere, porgeranno l’altra guancia, vittime meravigliosamente consenzienti di un’inedita forma di conquista che consiste, tutto sommato, nel renderli cristiani: agnelli pronti per il mattatoio. E il messaggio non viene da un Dio d’amore ma, si suppone, da un bellicoso popolo di conquistatori. Chissà, magari anche Gesù era solo un agente di Palmer Eldritch.