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BERKELEY
Il 16 dicembre 1928, a Chicago, Dorothy Kindred in Dick diede alla luce una coppia di gemelli, prematuri di sei settimane ed entrambi molto gracili. Li chiamò Philip e Jane. Non aveva latte a sufficienza per entrambi, e nessuno, né un parente né un medico, le suggerì di integrare le poppate con il biberon, sicché nelle prime settimane lasciò patire la fame ai bambini – per ignoranza, a quanto pare. Il 26 gennaio Jane morì.
Fu sepolta nel cimitero di Fort Morgan, in Colorado, dove viveva la famiglia del padre. Sulla lapide, accanto al nome di battesimo della bambina, i genitori fecero incidere quello del fratello sopravvissuto, con la sola data di nascita seguita da uno spazio bianco. Poco tempo dopo i Dick si trasferirono in California.
Nelle rare fotografie di famiglia Edgar Dick ha il viso affilato e indossa un abito a doppio petto e un cappello di feltro che ricordano quelli degli agenti dell’FBI nei film sul Proibizionismo. E in effetti era davvero un funzionario federale, ma presso il ministero dell’Agricoltura. Il suo compito consisteva nel verificare le dichiarazioni degli allevatori sui capi di bestiame abbattuti, ed eventualmente procedere lui stesso agli abbattimenti: gli allevatori avevano diritto a un premio per ogni animale ucciso, e naturalmente le frodi erano all’ordine del giorno. Così Edgar, al volante della sua Buick, girava per le campagne impoverite dalla Grande Depressione, tra contadini cenciosi e diffidenti, che talvolta gli sventolavano rabbiosamente sotto il naso il topo che stavano arrostendo su un braciere di fortuna. Durante queste peregrinazioni il suo unico motivo di conforto erano gli incontri con qualche altro reduce. Arruolatosi volontario, aveva riportato dalla guerra in Europa una serie di ricordi eroici, il grado di sergente e una maschera antigas, che un giorno tirò fuori dalla custodia per divertire il figlioletto di tre anni. Phil però non si divertì affatto. Di fronte a quegli occhi tondi e opachi, a quella proboscide di gomma nera che penzolava con aria sinistra, si mise a urlare terrorizzato, convinto che un mostro, un insetto gigantesco, avesse preso il posto di suo padre. Per settimane continuò a scrutarne il viso ritornato normale, cercando e temendo di cogliere altri segni di trasformazione. Carezze e moine non facevano che accrescere la sua diffidenza. In seguito a questo incidente, Dorothy, che aveva le sue teorie sull’educazione dei figli, prese ad alzare gli occhi al cielo soffiando rabbiosamente aria dalle narici ogni volta che incrociava lo sguardo mortificato del marito.
Quando, di ritorno dal fronte, Edgar l’aveva sposata, la gente diceva che assomigliava a Greta Garbo. L’età e gli acciacchi l’avrebbero trasformata in una sorta di spaventapasseri destituito di ogni sensualità, ma comunque capace di un certo fascino autoritario. Lettrice bulimica, Dorothy divideva l’umanità in due gruppi: quelli che si dedicano a un’attività creativa e quelli che non lo fanno. E, poiché le pareva inconcepibile che esistessero persone realizzate al di fuori della prima categoria, passò tutta la vita in una sorta di bovarismo puritano, rigorosamente intellettuale, senza mai riuscire a sfondare la porta di quello che, ai suoi occhi, era il circolo eletto degli autori pubblicati. Disprezzava il marito che – questioni militari a parte – si interessava solo al football. Edgar cercò di trasmettere questa passione a Phil portandolo allo stadio all’insaputa della madre, ma il bambino, solidale con lei anche quando era convinto di disobbedirle, trovava incomprensibile che degli adulti si agitassero tanto dietro a un ridicolo pallone.
La sua infanzia assomiglia a quella del Lužin di Nabokov o a quella di Glenn Gould, suo contemporaneo e per certi versi suo cugino spirituale: bambini grassocci e imbronciati, che hanno tutte le carte in regola per diventare campioni di scacchi o pianisti prodigio. Gli adulti lodavano il suo comportamento tranquillo e il suo precoce interesse per la musica. Il gioco che preferiva era nascondersi in vecchi scatoloni e restarci per ore in silenzio, al riparo.
Aveva cinque anni quando i suoi genitori divorziarono per iniziativa di Dorothy, rassicurata da uno psichiatra sul fatto che il bambino non avrebbe sofferto della separazione (in realtà se ne sarebbe lamentato per tutta la vita). Il padre non avrebbe voluto tagliare i ponti, ma le sue prime visite furono accolte con una tale freddezza che si scoraggiò e alla fine decise di trasferirsi in Nevada. Dorothy, dal canto suo, attirata dalla speranza di un lavoro più interessante e remunerativo dell’impiego di segretaria con cui tirava a campare, si stabilì con il figlio a Washington.
Vissero lì per tre orribili anni. Quando avevano lasciato Chicago Phil era molto piccolo, sicché in pratica conosceva solo il clima mite della costa occidentale, e la pioggia, il freddo, la povertà e la solitudine furono per lui una dolorosa, sconcertante scoperta. Sua madre lavorava tutto il giorno presso l’Ufficio federale per l’Infanzia, dove correggeva bozze di opuscoli pedagogici. Quando usciva dalla scuola quacchera a cui lei lo aveva iscritto e dove i bambini si mettevano in cerchio nella speranza che lo Spirito Santo si degnasse di manifestarsi, Phil la aspettava per ore da solo nell’appartamento buio e triste. E, visto che lei tornava sempre troppo tardi e troppo stanca per raccontargli delle storie, doveva raccontarsi lui stesso quelle che conosceva già. La sua preferita era la fiaba dei tre desideri concessi da una fata a una coppia di contadini. «Quanto vorrei una bella salsiccia!» grida la donna. E subito la salsiccia le compare davanti agli occhi, mandando il marito su tutte le furie: «Sei pazza a sprecare così uno dei desideri? Che quella salsiccia ti penda per sempre dal naso!». Ed ecco che la salsiccia diventa un prolungamento del naso della donna, di cui si potrà liberare solo con il terzo desiderio. Su questo schema il bambino immaginava infinite varianti. Poi imparò a leggere e scoprì Winnie-the-Pooh, e qualche tempo dopo una versione semplificata di Quo vadis? che fu una vera folgorazione. Grazie a questo racconto tutto ciò che apprendeva alla scuola dei quaccheri prendeva vita. Sua madre non seppe mai che per un inverno intero giocò da solo, senza dire niente a nessuno, fingendo di essere un cristiano delle origini rintanato nelle catacombe.
Nel 1938 Dorothy trovò un impiego all’Ufficio forestale della California, che aveva sede all’interno del campus universitario di Berkeley. Dopo il lungo esilio a Washington madre e figlio potevano finalmente tornare a respirare. Si sentivano a casa e al tempo stesso al centro dell’universo, come chiunque abitasse a Berkeley da più di una settimana. Per chi ci viveva, non esisteva altro posto al mondo. Femminista, pacifista, amante della cultura e delle idee d’avanguardia, Dorothy si sentì rinascere in quell’oasi di libertà, dove si poteva essere contemporaneamente impiegata statale e suffragetta senza che nessuno avesse nulla da ridire. Quanto a Phil, a lui piacevano i riflessi luccicanti della baia, i prati e il fiumicello del campus dove i bambini della cittadina giocavano liberamente, le campane della Sather Tower che riversavano sui tetti la loro melodia placida e allegra come per celebrare il proficuo scorrere delle ore. Gli piaceva meno la scuola, ma poiché soffriva di attacchi d’asma e di tachicardia saltava parecchie lezioni, e anche quando stava bene Dorothy era fin troppo indulgente nel giustificare le sue assenze e permettergli di restarsene a ciondolare per casa. In fondo era ben contenta che assomigliasse così poco a suo padre, che detestasse lo sport, il baccano e tutte le varie insulsaggini collettive che plasmavano quei poveri scemi degli americani medi. Il figlio era indubbiamente uno della sua razza, della razza degli artisti, degli albatri impacciati dalle loro ali da gigante.
A dodici anni amava già quello che avrebbe amato per tutta la vita: ascoltare musica, leggere e battere a macchina. Si faceva regalare dalla madre dischi di musica classica – era l’epoca dei 78 giri – e con il tempo acquisì la capacità, di cui andavano entrambi molto fieri, di riconoscere fin dalle prime note qualsiasi opera, sinfonia o concerto suonati o anche solo canticchiati in sua presenza. Collezionava riviste illustrate che, dietro una facciata di divulgazione scientifica, parlavano di continenti sommersi, piramidi maledette, navi misteriosamente scomparse nel Mar dei Sargassi, e nel titolo riportavano epiteti suggestivi come «Astounding», «Amazing», «Unknown»... Ma leggeva anche i racconti di Poe e di Lovecraft, il solitario di Providence i cui personaggi si trovavano di fronte ad aberrazioni talmente mostruose da non poter essere descritte.
Presto iniziò a imitare questi modelli. A Washington aveva abbozzato qualche lugubre poesia, in cui narrava, per esempio, di un gatto che divorava un uccellino vivo, di una formica che trascinava il cadavere di un calabrone, di una famiglia in lacrime che seppelliva un cane cieco. La macchina da scrivere mise le ali alla sua ispirazione. Non appena ne ebbe una diventò un dattilografo provetto: a detta di quelli che lo hanno conosciuto, era in grado di battere a macchina più velocemente e più a lungo di chiunque altro; sembrava che i tasti andassero incontro alle sue dita. In dieci giorni terminò il primo romanzo, una continuazione dei Viaggi di Gulliver, il cui dattiloscritto è andato perduto. I suoi primi testi pubblicati, dei racconti macabri ispirati a Poe, uscirono nella rubrica «Club dei Giovani Autori» della «Berkeley Gazette». La responsabile letteraria del periodico, che si firmava «Zia Flo», prediligeva il realismo (la linea Cˇechov-Nathanael West) e lo esortava a scrivere di ciò che conosceva, dei piccoli particolari autentici della vita di tutti i giorni, e a tenere a freno l’immaginazione. Sentendosi incompreso, Phil fondò un giornale tutto suo, di cui era l’unico redattore. So che a molti sembrerà un’idea campata in aria, ma mi piace considerare premonitori il titolo di questo giornale – «The Truth» –, la dichiarazione d’intenti che apre l’unico numero uscito – «Giuriamo che questo giornale stamperà solo ciò che, al di là di ogni dubbio, è la verità» – e il fatto che questa intransigente verità consistesse in una serie di avventure intergalattiche, frutto delle fantasticherie di uno scribacchino di tredici anni.
Una notte fece un sogno che poi sarebbe diventato ricorrente. Si trovava in una libreria e cercava un numero di «Astounding» che gli mancava. In quel numero rarissimo, che costava un occhio della testa, era stata pubblicata una storia intitolata L’Impero non è mai cessato. Se fosse riuscito a procurarsela e a leggerla, avrebbe saputo tutto. Il sogno però si interruppe prima che potesse finire di esaminare la pila di riviste malconce fra cui era convinto di trovare il prezioso esemplare. Ne aspettò il ritorno con un’eccitazione ansiosa; quando il sogno si manifestò di nuovo, fu sollevato nel constatare che le riviste erano ancora lì, e si rimise a scartabellarle freneticamente. Notte dopo notte la pila si riduceva, ma lui si svegliava sempre prima di essere arrivato all’ultimo numero. Passava le giornate a ripetersi il titolo della storia, al punto che il suono di quelle parole finì per rimbombargli nelle orecchie come le pulsazioni del cuore quando aveva la febbre. Gli pareva quasi di vedere stampate le lettere che lo componevano, l’illustrazione della copertina. Quell’illustrazione, benché (o proprio perché) sfocata, gli metteva addosso una certa inquietudine. Con il passare delle settimane il suo desiderio si tinse di angoscia. Sapeva che se avesse letto L’Impero non è mai cessato sarebbe venuto a conoscenza di tutti i segreti del mondo; ma intuiva che quel sapere non era esente da pericoli. Lo aveva scritto anche Lovecraft: se sapessimo tutto, impazziremmo dal terrore. Così il sogno cominciò ad apparirgli come una trappola diabolica e il numero sepolto sotto la pila come un mostro pronto a divorarlo, acquattato al termine della discesa su cui era lanciato a gran velocità e che portava dritta nelle sue fauci. Invece di affrettarsi come faceva all’inizio, ora cercava di rallentare il movimento delle dita che, scostando una rivista dietro l’altra, lo avvicinava all’orrore supremo. Cominciò ad aver paura di dormire e a sforzarsi di restare sveglio.
A un certo punto, senza motivo apparente, il sogno cessò. Lui aspettò che tornasse, prima con timore, poi di nuovo con impazienza; dopo due settimane avrebbe dato qualsiasi cosa perché si ripresentasse. Ripensò alla fiaba dei tre desideri, sprecati l’uno dopo l’altro per rimediare frettolosamente alla sconsideratezza con cui era stato formulato il precedente: aveva desiderato leggere L’Impero non è mai cessato ; poi, fiutando il pericolo, aveva desiderato che quella lettura gli venisse risparmiata; ora desiderava di nuovo leggerlo e, chissà, forse questo desiderio non veniva esaudito solo per pietà, perché poi non gliene sarebbe spettato un quarto. Il sogno non tornava, e nonostante tutto lui ne era deluso. Aspettò a lungo. Poi se ne dimenticò.
Era un ragazzo un po’ sovrappeso, sempre con il fiato corto, che viveva da solo con la madre. Fra loro si chiamavano Philip e Dorothy, e praticavano uno strano rituale. La sera, dopo essersi messi a letto, si parlavano da una stanza all’altra attraverso le porte lasciate aperte sul corridoio. I loro argomenti di conversazione preferiti erano i libri, le malattie e le medicine che avrebbero dovuto alleviarle. Ipocondriaca matricolata, Dorothy aveva una collezione di farmaci ampia quanto la discoteca del figlio e altrettanto aperta alle novità: quando apparvero, dopo la guerra, i primi tranquillanti, lei fu tra i pionieri di questo nuovo Eldorado chimico: via via che venivano messi in commercio, sperimentò Torazina, Valium, Tofranil e Librium, confrontando il tipo di torpore che procuravano e decantandone gli effetti presso amici e conoscenti.
Di tanto in tanto Phil rivedeva suo padre, che si era risposato e viveva a Pasadena, dove conduceva un programma per una radio locale. Un mestiere del genere esercitava un grande fascino su quel ragazzo timido che sognava di avere un forte ascendente sugli altri. Durante le guerra nutrì, come tutti, sentimenti patriottici, ma era attratto dalla propaganda di Goebbels. Si compiaceva di saper ammirare l’esecuzione impeccabile di un piano che pure giudicava deplorevole. In lui sonnecchiava un tribuno, un leader, che però, non riuscendo a trascinare nessuno dietro di sé, se ne restava rincantucciato in un angolo.
Sì, in mancanza di meglio, la cosa che gli piaceva di più era proprio quella: restarsene rincantucciato in un angolo e accatastarvi ciò che possedeva. Periodicamente la madre lo pregava di mettere a posto la sua stanza, in cui regnava il tipico disordine maniacale di chi è capace, come Sherlock Holmes, di dedurre la data di un fascicolo dallo strato di polvere che lo ricopre, e ama essere l’unico che sa raccapezzarsi nel suo caos: un’accozzaglia, schedata secondo un invisibile sistema di catalogazione, di modellini di aerei e carri armati, di scacchiere, di dischi, di riviste di fantascienza, e anche, più nascoste, di foto di ragazze nude.
Certo, perché ormai Phil cominciava a interessarsi alle ragazze. Senza grandi risultati per via della sua insicurezza, ma quanto bastava per incrinare il rapporto osmotico che lo univa a Dorothy. Disorientata, lei si accorse di colpo che l’apatia scolastica, l’introversione e gli attacchi d’ansia di suo figlio richiedevano l’intervento di uno psichiatra. Phil aveva quattordici anni quando lei lo portò dal primo dei tanti che si susseguiranno quasi ininterrottamente fino alla sua morte.
Già dopo poche sedute, consolidate dalla consultazione di libri annotati con zelo da sua madre, il giovane Dick parlava con la massima disinvoltura di nevrosi, complessi e fobie, e si divertiva a sottoporre i suoi compagni a test di personalità da cui, senza svelare il segreto del suo sapere, traeva per ognuno conclusioni più o meno lusinghiere e più o meno apprezzate.
Lo sviluppo di questi test, verso la fine degli anni Trenta, aveva notevolmente modificato le idee dell’americano medio riguardo a ciò che accadeva nella sua testa e in quella del suo prossimo. Grazie al loro impiego era emerso che, al momento della dichiarazione di guerra, più di due milioni di soldati di leva, su un totale di quattordici milioni, soffriva di disturbi neuropsichiatrici invalidanti. Davanti a quelle cifre, che nessuno avrebbe mai potuto immaginare prima che fossero accertate con strumenti considerati scientifici, il paese era piombato nel panico, aveva investito ingenti somme di denaro nel campo della salute mentale e favorito la diffusione della psicoanalisi, che si sperava potesse trasformare quella massa di spostati in cittadini equilibrati e responsabili.
Tanta fiducia può sembrare ingenua, e faceva sorridere il vecchio Freud, che si vantava di aver portato la peste nel Nuovo Mondo con il suo sbarco a New York. Ma gli psichiatri e gli psicoanalisti americani, meno rigidi di quelli europei nella distinzione fra le rispettive discipline, avevano adeguato le teorie freudiane alla loro ottica pragmatica e miravano non tanto alla conoscenza e all’accettazione di sé, eccentricità comprese, quanto all’adattamento alle norme sociali. I test che somministravano ai loro pazienti avevano il fine di valutarne i progressi rispetto a questo obiettivo: funzionare come persone normali. O almeno: dare l’impressione di funzionare come persone normali.
Da bambino, e già miope, ricordo di aver lasciato di stucco un oculista recitando a memoria le lettere del tabellone che doveva servire a misurarmi la vista: speravo che, se avessi dimostrato di saper leggere tutto, inclusi i caratteri minuscoli delle ultime righe, non avrebbero avuto modo di appiopparmi gli occhiali (non funzionò). Nell’adolescenza, Dick acquisì con i test psicologici un’analoga familiarità, che però impiegò in modo ben più virtuoso. Grazie al suo intuito, alla sua esperienza precoce e alla rigidità del sistema, imparò a evitare i trabocchetti nascosti nelle domande e a indovinare le risposte che ci si aspettava da lui. In breve, siccome ormai sapeva benissimo, come uno scolaretto che si è procurato il libro del maestro, quali caselle doveva barrare per ottenere un risultato soddisfacente nel Woodworth Personal Data Sheet o nel Minnesota Multiphasic, quale figura doveva individuare in una certa macchia di Rorschach per suscitare perplessità, poteva risultare, a suo piacimento, normalmente normale, normalmente anormale, anormalmente anormale, anormalmente normale (suo massimo trionfo) e, a furia di cambiare sintomi, finì che il suo primo psichiatra diede di matto.
Gli subentrò uno psicoanalista di San Francisco decisamente più intelligente: era di orientamento junghiano, ovvero, secondo la vulgata corrente di Berkeley, il non plus ultra, prerogativa degli spiriti creativi. Così, due volte alla settimana, Phil prendeva il traghetto per attraversare la baia. A un compagno che si meravigliava di questi insoliti spostamenti raccontò che stava seguendo un corso per ragazzi superdotati dal QI eccezionalmente elevato e che – non avrebbe dovuto dirlo – aveva barato per superare i test. Il compagno sghignazzò come si sghignazza fra i somari irriducibili, ma Phil, in tono arrogante, gli fece notare che un impostore capace di spacciarsi per un genio era ancora più geniale di un genio autentico. L’altro lo guardò pressappoco con la stessa espressione con cui lo aveva guardato, verso la fine, il suo primo psichiatra. E da quel momento cominciò a evitarlo.
Nel corso della seconda terapia Phil scoprì l’effetto straordinario che la storia di Jane produceva sugli individui dediti alla psicologia e la particolare considerazione di cui godeva, agli occhi degli esperti, un trauma di così ampia portata. Capì che parlare della gemella morta lo rendeva interessante e passò lunghe sedute a chiedersi chi e in quale occasione lo avesse messo al corrente del dramma della loro nascita. Probabilmente sua madre, e probabilmente molto presto. Aveva l’impressione di averlo sempre saputo. Si ricordava, nella sua prima infanzia, di un’amica immaginaria di nome Jane, con i capelli e gli occhi neri, che riusciva a tirarsi fuori dalle situazioni più complicate con una sfrontatezza indiavolata: tutto il contrario di lui che, goffo e impacciato, passava ore nascosto nei suoi vecchi scatoloni. Sosteneva anche di ricordare che sua madre, in un momento di rabbia, aveva gridato che sarebbe stato meglio se fosse morto lui, anziché Jane.
Quando apprese che la sua era una madre castratrice, la rivelazione gli suonò un po’ come un tradimento (Dorothy pagava quel tipo perché parlasse male di lei), ma non lo lasciò indifferente e presto divenne motivo di preoccupazione. Con una madre del genere, un padre assente, un gusto così pronunciato per le cose artistiche e spirituali, non aveva tutti i requisiti per diventare omosessuale?
Questa fu una delle ossessioni della sua adolescenza, ma non l’unica. Soffriva di vertigini e di agorafobia. Era terrorizzato dai mezzi pubblici e in presenza d’altri non riusciva a mandare giù neanche un tramezzino. A quindici anni ebbe un attacco di panico durante un concerto sinfonico: gli sembrava di essere sprofondato sott’acqua e di vedere il mondo attraverso il periscopio di un sottomarino.
Un’altra volta si sentì male al cinema durante un cinegiornale in cui si vedevano le truppe americane, su un’isola del Pacifico, che sterminavano con i lanciafiamme un gruppo di soldati giapponesi. Il peggio in realtà non era neanche il supplizio dei giapponesi, ma l’entusiasmo del pubblico in sala, che si esaltava nel vedere gli odiati musi gialli trasformati in torce. Dovette uscire di corsa, seguito da Dorothy spaventatissima, e per anni non mise più piede in una sala cinematografica.
Simili attacchi non facilitavano certo la sua carriera scolastica. Non seguiva più le lezioni, ma studiava a casa ascoltando i suoi dischi. La materia che preferiva, forse proprio perché si intonava con il sottofondo musicale, era il tedesco, che aveva scelto come lingua straniera verso la fine della guerra per puro spirito di provocazione e di cui apprezzava il lirismo, che la rendeva perfetta per essere cantata. Entrarono così nella sua vita le melodie di Schubert, Schumann e Brahms. Ascoltarle gli sembrava il modo migliore di impiegare il proprio tempo, e a sedici anni decise di farne un mestiere.
Trovò un impiego part-time in un negozio chiamato University Music, in cui si vendevano radio, dischi, giradischi e le prime televisioni. Nel negozio si aggiustavano anche apparecchi guasti, e i tecnici delle riparazioni formavano un’aristocrazia di cui il giovane Phil invidiava la competenza. Il verbo inglese to fix, che significa al tempo stesso «sistemare», «preparare», «raffazzonare», «mettere assieme», e che inoltre dà, molto più del francese fixer e dell’italiano fissare, l’idea di una stabilità conquistata a fatica, quel verbo racchiudeva in sé tutto ciò che lui stimava di più nell’ingegno umano; i protagonisti dei suoi romanzi saranno spesso abili riparatori tuttofare o piccoli artigiani che non si schiodano dal banco da lavoro. Una simile predilezione può sembrare strana in un ragazzo che leggeva come un forsennato e che cresceva nella più intellettuale delle cittadine universitarie, ma lui aveva scelto prestissimo, quando nessuno poteva ancora accusarlo di disprezzare l’uva che non era in grado di raggiungere, da che parte schierarsi. Il suo ambiente ideale non sarebbe mai stato né quello universitario né quello dei caffè dove studenti boriosi passano il tempo a discettare su come cambiare il mondo, ma piuttosto la piccola impresa, la bottega davanti alla quale il negoziante spazza il marciapiede ogni mattina, prima di alzare la saracinesca e accogliere i clienti.
Il suo lavoro consisteva nel tirare fuori i dischi di musica classica dagli scatoloni spediti dai distributori, nel sistemarli negli appositi scomparti, esitando a lungo sulla loro collocazione quando comprendevano pezzi di compositori diversi, nell’acquistarne alcuni a prezzo scontato per la sua collezione personale, nel discutere con i clienti o con gli altri commessi sui pregi di ciascuna versione del Flauto magico, nello spazzare il pavimento e cambiare il rotolo della carta igienica nel bagno dietro la cabina di ascolto numero 3. La University Music era il suo mondo, un mondo stabile e familiare, dove non poteva succedergli niente di spiacevole. Lì dentro si sentiva al riparo dagli attacchi d’ansia e di agorafobia. Acquisiva sicurezza. Quando una cliente gli piaceva, la invitava in una cabina per farle ascoltare i primi album di un giovane baritono eccezionale, Dietrich Fischer-Dieskau, che cantava i Lieder di Schubert come nessuno aveva mai fatto. Mentre il disco girava, Phil puntava sulla ragazza i suoi occhi di un azzurro intenso e canticchiava il motivo con la bella voce profonda, un po’ roca, che da qualche tempo aveva preso il posto del falsetto dell’adolescenza.
Per ampliare il suo armamentario di tecniche seduttive, sognava di presentare la trasmissione sponsorizzata dal suo capo, che andava in onda su una radio locale. Ma, ahimè, gli era concesso soltanto di stabilire la scaletta dei brani; il microfono era monopolio di un tizio con i capelli impomatati, la giacca a quadri e le scarpe bicolori, che lui odiava con tutto il cuore. In una delle sue fantasticherie preferite immaginava di essere un astronauta in orbita attorno alla Terra devastata da una catastrofe atomica. Dal satellite su cui era condannato a girare fino alla morte in mancanza della tecnologia necessaria per il rimpatrio, riceveva i messaggi radio dei superstiti disseminati per il pianeta semidistrutto. Ne trasmetteva a sua volta, e gli uomini, laggiù, si sforzavano di captarli, più o meno come i francesi durante l’Occupazione ascoltavano Radio Londra. Metteva dischi, leggeva libri, diffondeva informazioni. Grazie a lui permaneva un legame fra quei gruppi isolati che, sentendo la sua voce amichevole, trovavano la forza di tenere duro. Per ascoltarlo gli uomini si riunivano attorno a vecchie radio a galena riparate con scrupolosa devozione, che consideravano il loro bene più prezioso. Senza quelle radio, senza il disk-jockey solitario che, da lassù, vegliava su di loro, si sarebbero abbrutiti. Se la civiltà era destinata a risorgere, lo avrebbe fatto sotto la sua egida. Il culmine di questo sogno a occhi aperti era il momento in cui si ritrovava a resistere alla tentazione di lasciarsi adorare dagli uomini come un dio. Alla fine ci riusciva, ma solo per un pelo.
Sulle circostanze in cui lasciò la casa di sua madre le testimonianze divergono: Phil sosteneva che Dorothy l’avesse presa malissimo, che avesse minacciato di chiamare la polizia per impedirgli di andarsene e di diventare omosessuale, come sarebbe sicuramente accaduto se lei non avesse più vegliato sulla sua condotta; Dorothy invece assicurava di averlo dovuto mettere alla porta, perché ormai non aveva più l’età per vivere con lei. Quel che è certo è che lui portò le sue collezioni di libri, dischi, riviste e il suo prezioso giradischi Magnavox in un appartamento occupato da un gruppo di studenti bohémien, la cui frequentazione ebbe una certa influenza sull’evoluzione dei suoi gusti letterari. In quell’ambiente ostentatamente colto aveva diritto di cittadinanza soltanto la «grande letteratura»: non si era ancora diffusa la moda di guardare con occhio benevolo ai generi popolari. E così Dick, con il suo innato mimetismo, smise di leggere libri di fantascienza, nascose le riviste dozzinali che tanto lo avevano affascinato da ragazzo e si immerse nella lettura di Joyce, Kafka, Pound, Wittgenstein e Camus. Per lui, la serata ideale consisteva ormai nell’ascoltare Buxtehude o Monteverdi in compagnia di poeti d’avanguardia, citando a memoria interi brani di Finnegans Wake e ritrovandovi riferimenti e allusioni a Dante. Tutte le persone che frequentava si cimentavano nella scrittura e, in un frenetico name-dropping culturale, si scambiavano manoscritti e consigli. Oltre a un gran numero di racconti, che cercò invano di piazzare su diverse riviste, Dick in quel periodo scrisse due romanzi di cui sappiamo soltanto ciò che lui ha voluto dirne in seguito.1 Il primo era un lungo monologo interiore, che parlava di un’impossibile conquista amorosa e di archetipi junghiani; il secondo, ambientato nella Cina maoista, descriveva il complicato intreccio di bugie e omissioni all’interno di un ménage à trois.
Fu anche l’epoca in cui perse la verginità, e la paura di essere omosessuale, grazie a una cliente del negozio, che un collega più smaliziato di lui lo aveva incoraggiato ad abbordare. Rifiutandosi di venderle gli sdolcinati canti natalizi che era venuta a comprare, Phil la accompagnò nella cabina d’ascolto e le fece sentire i suoi dischi preferiti, poi la portò di sotto, nel laboratorio, dove all’ora di pranzo non c’erano i tecnici addetti alle riparazioni, e una settimana dopo la sposò, inaugurando senza clamore una lunga carriera di monogamo compulsivo. Assieme affittarono un tetro monolocale, dove Phil scoprì quanto fosse opprimente la vita di una coppia povera e quanto poco avesse in comune con sua moglie. Quando le leggeva Le varie forme dell’esperienza religiosa di William James o i racconti che lui stesso scriveva, lei si addormentava, trovava incomprensibile Finnegans Wake e non sopportava i dischi che lui ascoltava ininterrottamente. Nel giro di qualche settimana minacciò addirittura di spaccarli: la rottura divenne inevitabile. Il giudice, a quanto dicono, trovò piuttosto futile questa causa di divorzio, ma l’episodio ossessionò Dick a lungo. In 1984 Orwell immagina che la polizia, per esercitare una pressione personalizzata su ciascun individuo, cerchi di scoprire ciò che più spaventa i singoli cittadini: uno ha paura di essere sepolto vivo, un altro di essere divorato da un topo. Per Dick, l’idea che qualcuno potesse rompere i suoi preziosi dischi aveva il medesimo carattere di orrore assoluto. Di libro in libro mogli crudeli giocano questo brutto tiro ai poveri mariti e, nel suo penultimo romanzo, Yahveh in persona ricorre a questa minaccia pur di mobilitare l’eroe protagonista, restio ad assecondare la Sua volontà.
Il pericolo fu scongiurato con la seconda moglie, conosciuta anch’essa nel negozio di dischi, mentre era impegnata a rovistare tra gli scaffali dell’opera italiana. Scottato dalla precedente esperienza, Dick volle testare i suoi gusti e, prima di farle la corte, si accertò che apprezzasse le stesse esecuzioni che piacevano a lui. Kleo Apostolides aveva diciannove anni. Era una studentessa di origine greca, bruna, piuttosto graziosa, grande lettrice e, se si considerano i futuri standard dickiani in materia di mogli, eccezionalmente equilibrata. Si sposarono nel giugno del 1950 e accesero un mutuo per comprarsi una casa scalcinata nella parte bassa, popolare, di Berkeley. Il tetto perdeva, la pittura si scrostava e nel periodo delle piogge invernali dovevano piazzare bacinelle dappertutto per evitare l’allagamento. Né Phil né Kleo presero in considerazione l’idea di fare dei lavori: lui per incuria, perché impiegava la maggior parte del suo denaro per comprare dischi e quasi tutto il suo tempo libero per ascoltarli, lei per scelta deliberata, per amore della vita bohémien e di tutto ciò che si opponeva alle consuetudini borghesi. Ardimentosa esponente del radicalismo locale, Kleo portava jeans e occhiali di corno, intonava canti delle Brigate Internazionali che esortavano a marciare su Madrid con il cuore pieno d’odio e parlava di qualsiasi argomento con la stessa veemenza, sia che ne fosse entusiasta, sia che ne fosse indignata. Le piaceva particolarmente indignarsi.
Per pagarsi gli studi di scienze politiche faceva diversi lavoretti. Phil, dal canto suo, ormai passava le giornate alla University Music. A differenza della stragrande maggioranza degli abitanti di Berkeley, non era uno studente. Aveva provato a iscriversi a dei corsi sullo Sturm und Drang e sulla filosofia di Hume, ma dopo qualche giorno un attacco d’ansia particolarmente severo aveva messo fine alla sua carriera accademica. Non essendo roso dal tarlo dell’ambizione sociale – e questo è il meno che si possa dire –, ci aveva messo una pietra sopra senza troppi rimpianti. Ma una volta diventato commesso di dischi a tempo pieno, con l’unica prospettiva – remota, fra l’altro – di assumere un giorno la gestione del negozio, cominciò a pentirsi di quella scelta che, con il passare degli anni, rischiava di ridurlo a personaggio folkloristico di Berkeley, trattato con amichevole disinvoltura da diverse generazioni di studenti: il vecchio venditore della University Music, così colto e sempre pronto a lanciarsi in lunghe disquisizioni se solo qualcuno accennava all’idealismo tedesco o al do sovracuto che Elisabeth Schwarzkopf aveva intonato al posto di Kirsten Flagstad nel Tristano di Furtwängler.
In quello stesso periodo, sempre alla University Music, Dick fece un incontro decisivo: conobbe uno scrittore chiamato Anthony Boucher, una sorta di factotum della letteratura popolare che, sotto vari pseudonimi, scriveva, recensiva, pubblicava romanzi gialli e di fantascienza. Il fatto che un adulto, un melomane esperto, un uomo pregevole sotto tutti i punti di vista, non disprezzasse il genere che lui si era sentito costretto ad abbandonare per non apparire una specie di subnormale fu prima motivo di stupore, e poi di sollievo. La timidezza gli impediva di partecipare al corso di creative writing che Boucher teneva a casa sua una volta alla settimana, ma ci andò Kleo portando alcuni testi del marito, fra cui un racconto di fantascienza. Seconda sorpresa: fu proprio quel racconto a essere giudicato il più promettente. Incoraggiato, Dick accantonò gli esperimenti di raffinato psicologismo e i monologhi interiori, e lasciò spaziare liberamente la sua immaginazione. Così, nell’ottobre del 1951, la rivista di cui Boucher era caporedattore acquistò il primo testo da «professionista» di Philip K. Dick: Roog. Era la storia di un cane che abbaia furiosamente contro gli spazzini perché ha capito che non sono veri spazzini, ma alieni venuti a prelevare e analizzare i rifiuti dei terrestri, per poi – si intuisce – prelevare anche gli stessi terrestri.
Il racconto gli fu pagato poco, ma almeno gli fu pagato. Dick ne dedusse di potersi guadagnare da vivere con la scrittura. Lasciò il posto alla University Music e, in un misto di angoscia e di esaltazione, prese a fare lo scrittore a tempo pieno. Si trovò un agente. Nel 1952 vendette quattro racconti, nel 1953 trenta, nel 1954 ventotto e nel 1955 la prima antologia e il primo romanzo.
1. Rispetto al 1993 – anno in cui apparve la biografia di Carrère – le cose sono cambiate: del primo di questi libri oggi sappiamo che esistono alcuni capitoli e degli appunti di Dick sull’insieme del romanzo (cfr. L. Sutin, Divine invasioni. La vita di Philip K. Dick, trad. it. di A. Marti, Fanucci, Roma, 2001, p. 84), mentre il secondo – Gather Yourselves Together – è stato pubblicato nel 1994 presso WCS Books, Ashville (N.C.) [trad. it. di C. Pagetti, Il paradiso maoista, Fanucci, Roma, 2007] [N.d.T.].