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L’INVERNO DELL’ANIMA
Dopo due settimane ritennero che avesse lustrato le latrine a sufficienza e, visto che l’idea di fondo del centro era quella di impiegare al meglio le capacità di ognuno, Dick si ritrovò davanti a una macchina da scrivere. In un curriculum vitae quello che faceva verrebbe definito «pubbliche relazioni»: stendeva rapporti sulle attività di X-Kalay, archiviava ritagli di giornale che trattavano di problemi di droga, redigeva lettere per sollecitare la generosità di eventuali donatori. A tempo perso cominciò a elaborare una sua teoria sul funzionamento del centro, che secondo lui ospitava un laboratorio in cui si produceva eroina. La stessa mano distribuiva il veleno e l’antidoto, allo scopo di creare un nuovo tipo di individuo: docile, alienato, il cittadino-androide della società futura. L’organizzazione ne faceva uno schiavo, prima rendendolo dipendente dalla droga, poi, in modo più subdolo, salvandolo dalla droga, insegnandogli a odiarla e ad amare il padrone che era l’unico in grado di proteggerlo dalla sua nefasta influenza. E lui, Dick, era diventato un ingranaggio di quell’organizzazione: il che gli offriva un osservatorio eccellente.
In camice bianco se ne andava in giro per i corridoi con aria disinvolta, aprendo tutte le porte nella speranza di scoprire un accesso al laboratorio clandestino. Quei sospetti tuttavia non gli impedivano, ogni volta che incrociava un membro del personale, di esprimergli la sua gratitudine con calore e sincerità: per la prima volta in vita sua si sentiva utile; aveva trovato una famiglia; se per loro andava bene, sarebbe rimasto tutta la vita a X-Kalay, a fare quello che poteva per i poveri drogati, suoi simili e suoi fratelli.
Agli amici rispettabili che ancora aveva in America, quelli di prima di Hacienda Way, illustrava questo progetto di redenzione attraverso il lavoro in una lunga serie di lettere esaltate, tanto più sconcertanti perché arrivavano a distanza di un mese dalle esplicite richieste di aiuto che aveva lanciato nei momenti più cupi della delusione canadese, le quali, a loro volta, avevano seguito di poco l’annuncio trionfale del suo trasferimento a Vancouver. Alcune risposte a questi successivi invii di lettere trovarono, dopo una serie di smistamenti, la strada di X-Kalay. La romanziera Ursula K. Le Guin per esempio, pur rammaricandosi che Dick non avesse un posto dove andare, si rifiutò fermamente di ospitarlo. Qualche tempo prima, dalla casa della giovane coppia a cui avvelenava l’esistenza, lui le aveva mandato, senza conoscerla, una lettera in cui le raccontava i suoi guai e le offriva i suoi servigi di ospite o eventualmente di coinquilino modello, cercando di smentire le voci che sospettava circolassero su di lui e che lo dipingevano come un insopportabile paranoico. Altre patetiche richieste di ospitalità, indirizzate a persone che aveva incontrato una o due volte e di cui si era annotato il recapito nella rubrica, rimasero senza risposta. Per la maggior parte non ricordava neanche più di averle scritte. Così fu piuttosto sorpreso quando ricevette una lettera di un certo McNelly, un professore appassionato di fantascienza che in passato gli aveva più volte proposto di andare a incontrare i suoi studenti all’Università di Fullerton, nella California del Sud. Si diceva dispiaciuto di apprendere che il suo autore preferito sentisse la mancanza del proprio paese e lieto – nonché un po’ stupito – che in quel momento difficile gli fosse venuta l’idea di rivolgersi a lui. La comunità universitaria e la piccola cerchia dei fantascientisti di Fullerton lo avrebbero accolto a braccia aperte; magari Dick, dal canto suo, avrebbe potuto fare l’onore alla biblioteca di donarle i manoscritti sopravvissuti al furto... Inoltre due studenti, o più esattamente due studentesse sue ammiratrici a cui aveva letto la lettera, si erano proposte di offrirgli conforto e ospitalità.
Quella prospettiva rese di colpo meno desiderabile agli occhi di Dick l’idea di una vita dedicata a lavare i piedi dei malati e a raccogliere opuscoli contro la droga in un paese gelido come il Canada. Un mese di disintossicazione e di lavori domestici lo aveva quasi rimesso in sesto fisicamente. Il giorno stesso in cui aveva ricevuto la lettera, portò il pigiama in lavanderia, recuperò i suoi vestiti, firmò il foglio di dimissione volontaria e volò a Los Angeles promettendo di ripassare giovedì.
Quando scese dall’aereo Dick sembrava piuttosto un uomo caduto da un treno che sia stato costretto a trascinarsi lungo i binari fino alla stazione. Un uomo ormai allo sbando, mosso non da una volontà precisa, ma da un vago, residuo istinto di conservazione, un uomo allo stremo delle forze, così apparve al comitato di accoglienza composto dalle due ragazze, ahimè non molto carine, che si erano lasciate impietosire dalla sua richiesta di aiuto e da un ragazzo con la faccia simpatica di nome Timothy Powers, che voleva diventare uno scrittore di fantascienza.
Non c’erano bagagli da aspettare: una valigetta ammaccata, legata con un cavo elettrico, un impermeabile sul braccio e la Bibbia in mano erano tutti i suoi averi. Per dissipare l’imbarazzo suscitato da quella immagine di povertà, Powers si mise a scherzare sul vantaggio di viaggiare leggeri. Con voce sorda Dick si lanciò allora in un monologo sul furto che aveva subìto: non gli era rimasto niente, gli avevano rubato ogni cosa, ecc. Poi, dal finestrino della macchina, guardò sfilare le autostrade della periferia infinita che si estende a sud di Los Angeles. Quando un cartello segnalò che stavano entrando nell’Orange County, feudo di Nixon e simbolo, per il cittadino di Berkeley, di una bassezza politica quasi sovrannaturale, sogghignò. Non sapeva che ci avrebbe passato i dieci anni che gli restavano da vivere.
Per qualche settimana lasciò che lo trattassero come un soldato tornato dal fronte in stato di shock. Quando era solo si sentiva travolgere da ondate di panico: se una macchina passava nella sua strada procedendo un po’ troppo lentamente, subito lui cominciava a sospettare; teneva d’occhio le antenne radio cercando di individuare le ricetrasmittenti; consultava l’I Ching per scoprire chi fra i suoi nuovi amici fosse un agente delle potenze che tramavano contro di lui. Per fortuna restava da solo molto di rado. Lì tutti lo colmavano di attenzioni. Come capita spesso, da quando aveva smesso di scrivere, la sua fama era cresciuta, facendo di lui un autore di culto – espressione non ancora in voga a quell’epoca. Grazie al professor McNelly era stato accolto da un gruppo di persone che di quel culto erano ministri, ai quali non pareva vero di poter trattare da pari a pari l’autore della Svastica sul sole. Composto anch’esso da giovani e giovanissimi, quel gruppo tuttavia non assomigliava per niente a quello dei freak di Hacienda Way. Tra loro non circolava droga, fatta eccezione per qualche innocuo spinello che fumavano soltanto per stare allegri e apprezzare meglio la musica. Le conversazioni erano rilassate e informali, ma mai prive di un certo interesse culturale. I ragazzi si riunivano ora in una casa ora in un’altra, improvvisavano cene a base di grandi insalate in cui mettevano tutto quello che avevano a portata mano. Erano sempre tutti al verde, ma la loro condizione non aveva niente a che vedere con la sordida miseria dei drogati: formavano una cordiale, amichevole combriccola di studenti bohémien e di artisti in erba, che si mantenevano facendo lavoretti part-time. Quell’atmosfera avrebbe potuto ricordargli Berkeley e la sua giovinezza se a Berkeley non fosse stato così isolato. La vita di gruppo, le comitive di amici che la maggior parte delle persone sperimenta sul finire dell’adolescenza, lui le aveva vissute solo più tardi, e si erano trasformate in un incubo. Era bello, a quarantaquattro anni, scoprirne una versione tranquilla e solare, fatta di serate al cinema, gite in macchina e giri nei negozi di dischi usati.
Per rimettersi davvero in piedi però aveva bisogno di una donna. Intorno a lui i ragazzi e le ragazze, pur senza essere libertini, si accoppiavano con facilità. Solo lui restava scompagnato. Appena arrivato aveva conosciuto una certa Linda, che per il nome e per le guance da bambina gli ricordava il suo nuovo idolo, la cantante Linda Ronstadt, a cui da qualche tempo, con la mediazione della sua casa discografica, mandava montagne di lettere di ammirazione. Ufficialmente «usciva» con Linda, ma il verbo era corretto solo in senso letterale, vale a dire che andavano al cinema insieme, chiacchieravano fino a tardi la sera e lei gli faceva da autista: Phil non aveva ancora la macchina, il che a Los Angeles è un vero e proprio handicap.
Linda aveva solo ventun anni e, come in passato Nancy, usciva da un’adolescenza difficile. Era lusingata dall’interesse che le dimostrava quell’uomo brillante, colto, che avrebbe potuto essere suo padre e che tutti intorno a lei veneravano. Si vedeva che era uno che ne aveva passate tante, che aveva attraversato momenti difficili. Anche se aveva messo su pancia, probabilmente sarebbe riuscito a sedurla senza problemi facendo leva sulla travagliata esperienza che lei gli attribuiva. Ma ecco come si comportò.
Una sera la portò a cena fuori con Harlan Ellison e un altro scrittore di fantascienza: un’uscita fra adulti a cui lei era felicissima di essere stata invitata. Prima di entrare nel ristorante, le consegnò solennemente una lettera che richiedeva, disse, una risposta da cui dipendeva la sua vita. Dopodiché la ignorò per tutta la durata della cena e prese a scambiarsi con i due colleghi battute da caserma che sembravano fatte apposta per mettere a disagio una ragazza già piuttosto timida e imbarazzata. Linda si rifugiò in bagno, dove scoppiò a piangere, poi aprì la busta. La lettera, molto lunga, la lasciò stupefatta. Lui l’amava, voleva vivere con lei, voleva sposarla. Se lei avesse rifiutato, sarebbe morto; il mondo attorno a lui si sarebbe sgretolato come in Ubik (a forza di essere circondato da suoi ammiratori, aveva preso l’abitudine di citare le proprie opere, presupponendo che tutti le conoscessero). Sì, lei era per lui come il benefico Ubik, la via, la verità e la vita. Voleva che vivesse o che morisse? In generale era per la vita o per la morte?
«Vedi, dice l’Eterno, io ti ho posto davanti la morte e la vita; scegli» (Deuteronomio, 30, 19).
Scegli, Linda.
Linda tornò a tavola perplessa. Nessuno fece caso a lei. Ma una volta in macchina lui la guardò con aria grave, imponente dietro la barba grigia, e disse: «Allora, Linda?». La ragazza farfugliò qualcosa. Lui ne dedusse che era un no e, con voce di colpo stridula, cominciò a prenderla in giro: doveva essere davvero stupida per prendere sul serio quella lettera! Un giorno lei gli aveva detto di non aver mai ricevuto una proposta di matrimonio, ebbene ora l’aveva ricevuta. Divertente, no?
Il tragitto di ritorno fu tetro. Lei lo fece scendere davanti a casa sua senza dire una parola. Ma, nonostante tutto, si rividero. Phil ricominciò, come se niente fosse, a farle la corte con quell’atteggiamento da adolescente suscettibile, un giorno arrogante e il giorno dopo supplichevole, che mal si addiceva a un uomo maturo e che a Linda faceva l’effetto di una grottesca messinscena. Ignara di quello che lui andava raccontando sul suo conto, la ragazza si accorse di star diventando la favola del loro gruppo di amici, che ormai la consideravano una civetta. Malleabile, disorientata, finì col dare la colpa a se stessa, col dirsi che, se riceveva cartoline in cui lui, sotto un cuore trafitto da una freccia e ornato delle loro iniziali, aveva incollato la definizione del termine masturbazione ritagliata da un dizionario, evidentemente era perché lei, Linda, era immatura. Phil non solo la convinse a partecipare con lui a una serie di sedute di terapia coniugale, quando non erano nemmeno stati a letto insieme, ma riuscì anche a addossarle la responsabilità di tutto quello che non andava nella loro «coppia». Per non parlare di quello che lui pativa per causa sua: doveva essere proprio innamorato se era disposto a subire le conseguenze delle sue nevrosi e a ritrovarsi con lei in mezzo agli svitati, lui che in vita sua non aveva mai avuto né pensava di dovere un giorno avere a che fare con uno psichiatra! (Quando, anni dopo, Linda venne a sapere che ne aveva consultati un bel po’ fin dall’età di quattordici anni e che anche molti dei suoi ammiratori lo consideravano un mezzo matto, si sentì sollevata: quindi non era pazza).
Il calvario di Linda ebbe fine quando, una sera, Phil conobbe Tessa, che accettò di passare la notte con lui e, già la mattina dopo, di trasferirsi nel suo appartamento. Tanta condiscendenza gli fece supporre, in un primo momento, che fosse stata assoldata dai suoi nemici. Conoscendo il tipo di donna da cui era attratto, avevano organizzato la cosa per bene: Tessa era minuta, aveva lunghi capelli neri, un corpo esile e flessuoso, che teneva in forma praticando il kung fu. Voleva fare la scrittrice. Aveva diciotto anni. Lui non aveva mai incontrato una persona così meravigliosamente empatica.
In mancanza di uno sfogo letterario, la sua tendenza a teorizzare si esercitava su due argomenti: il furto in casa, a proposito del quale ogni giorno elaborava una nuova spiegazione, e la sua vita sentimentale, in cui si contrapponevano, secondo lui, due opposti tropismi. Il primo lo aveva spinto verso donne tiranniche, castratrici e schizoidi, come Anne; il secondo verso dolci e fragili ragazze con i capelli scuri. Purtroppo però il più delle volte anche queste ultime, come Nancy e Linda, si rivelavano poi tiranniche, castratrici e schizoidi. Ma stavolta – si ripeteva, ripeteva a quelli che gli stavano intorno e faceva ripetere al conciliante I Ching –, stavolta aveva fatto la scelta giusta: era riuscito a sfuggire a quel copione. Dopo anni di vagabondaggi aveva raggiunto un porto sicuro, aveva trovato Tessa, il modello ideale di ragazza con i capelli scuri, non una delle tante contraffazioni che lo avevano ingannato: affettuosa e umana, capace di amare un uomo per quello che era e non per quello in cui intendeva trasformarlo. A lui piaceva guardarla mentre, in calzamaglia, faceva i suoi esercizi: i gesti lenti e precisi, il respiro regolare. Gli piaceva andare a fare spese con lei, guardare la televisione con lei, ascoltare la musica con lei. Gli piaceva leggerle ad alta voce qualche capitolo del Don Chisciotte che avevano avuto in regalo da Tim Powers. Gli piaceva che lei gli servisse i pasti a letto quando non era dell’umore di alzarsi. Non gli piaceva stare senza di lei, non voleva che si allontanasse neppure per un minuto.
In autunno Tessa si accorse di essere incinta. Per avere qualcosa da dedicarle, e anche per guadagnare un po’ di soldi, Phil riprese in mano il manoscritto di Scorrete lacrime, deciso a finirlo. Visto che non prendeva più anfetamine, non scriveva più alla velocità di un tempo, sicché quel lavoro gli richiese diversi mesi, durante i quali l’indagine su un’effrazione avvenuta l’estate prima a Washington prese una piega inattesa.
Il caso, sul principio, sembrava banale: un brutto tiro come ne capitano quasi inevitabilmente in periodo elettorale e, benché gli scassinatori arrestati mentre rovistavano nella sede del Partito democratico affermassero di essere legati al comitato per la rielezione del presidente, ciò non impedì al presidente di essere rieletto trionfalmente a novembre. Dick, nauseato, cambiava canale appena si parlava di politica. Gli tornò la curiosità quando, all’inizio del nuovo anno, cominciò il processo ai sette imputati del Watergate, che tutti i giornalisti, sulle orme del «Washington Post», chiamavano ormai gli «idraulici». Il termine ebbe un successo straordinario. Nella sua minacciosa banalità simboleggiava tutto quello che, nel corso del processo e poi durante le udienze della Commissione Ervin trasmesse alla televisione, l’America andava scoprendo sui metodi dei suoi governanti: le intercettazioni telefoniche, le perquisizioni illegali, l’utilizzo di fondi segreti, le montature dell’FBI contro quelli che il vicepresidente Spiro Agnew chiamava gli «energumeni della politica» e gli abusi della CIA sul territorio federale. A poco a poco cominciò a farsi strada l’idea che, dalla fine degli anni Sessanta, una grave minaccia pesava sulle libertà civili garantite dalla migliore Costituzione del mondo.
Ogni nuova rivelazione aumentava il prestigio di Dick fra i suoi amici di Fullerton: lui lo aveva detto! Lo avevano preso in giro, trattato da paranoico. Avevano sorriso sentendogli ripetere per l’ennesima volta che il furto in casa sua era opera di servizi talmente segreti che nessuno ne aveva mai sentito parlare. Ma ora sì che ne sentivano parlare, non si parlava quasi d’altro, e bisognava ammettere che Phil ci aveva visto giusto.
Con grande sorpresa di tutti lui non se ne compiaceva più di tanto. Don Chisciotte non è certo contento che gli altri continuino a vedere mulini a vento dove lui sa che ci sono dei cavalieri armati, ma lo sarebbe ancora meno se di punto in bianco tutti gli dessero ragione. E a Dick non era mai piaciuto che in una discussione i suoi interlocutori fossero d’accordo con lui: in quel caso si affrettava a cambiare opinione. Così, più gli amici rendevano omaggio alla sua chiaroveggenza, più lui diventava evasivo, misterioso, come se gli sembrassero ancora più ciechi adesso che credevano di aver aperto gli occhi. Quando lo interrogavano, ansiosi di sapere qualcosa sul suo nuovo romanzo, che immaginavano sarebbe stato una bomba lanciata contro Nixon, lui alzava le spalle e diceva che quella ormai era una storia vecchia, che c’erano cose più urgenti di cui occuparsi.
Nella primavera del 1973 intraprese quella che sarebbe stata la sua grande opera, la summa delle sue esperienze nel mondo sregolato e infido in cui era sprofondato dopo che Nancy se n’era andata. I libri sulla droga che aveva scritto in precedenza adesso gli sembravano ingenui. All’epoca non conosceva l’ambiente dei drogati. Ma ora che ne era uscito poteva darne una testimonianza diretta.
Così si mise a scrivere Un oscuro scrutare in una disposizione d’animo simile a quella di Dostoevskij all’epoca dei Demòni, quando decise di trarre insegnamento dall’utopia terrorista che lo aveva fatto finire ai lavori forzati dopo una finta esecuzione. Avrebbe dedicato il libro a Donna e ai suoi amici di Hacienda Way e di X-Kalay, molti dei quali nel frattempo erano morti, oppure si erano trasformati in vegetali o in grumi di eterno terrore. Dopo anni passati a interpretare il ruolo del tossicodipendente sovversivo e a rincarare le dosi di Leary, aveva maturato su qualsiasi tipo di droga un punto di vista esattamente opposto, tanto da ipotizzare di aggiungere alla già nutrita schiera dei dedicatari il procuratore generale Richard Kleindienst, in omaggio alla sua lotta contro il narcotraffico. Questo proposito suscitò lo sdegno dei suoi amici, e così, alla fine, Dick si limitò a mandargli diverse lettere di solidarietà quando fu costretto alle dimissioni insieme a Dean, Haldeman ed Ehrlichman, i principali consiglieri di Nixon – lettere che, se mai gli arrivarono, probabilmente lo lasciarono molto sconcertato.
Scriveva di notte mentre Tessa dormiva. Gli tornavano in mente tutti i particolari di quel periodo vissuto in un clima di confusione e di sgomento: le conversazioni infinite, il piacere di stare insieme, la diffidenza, le barzellette che si arenavano o degeneravano, le risate irrefrenabili, i sorrisi sornioni e gli sghignazzi idioti, i momenti di estraniamento, le crisi di terrore, i pomeriggi passati a cercare qualcosa che stava proprio davanti ai loro occhi, la paura della polizia, i vuoti di memoria, la sensazione di vedere un film proiettato a ripetizione, con piccoli cambiamenti inquietanti, che si avvertono ma che non si riescono a identificare. E intanto, con le cuffie sulle orecchie, ascoltava ininterrottamente Linda Ronstadt e le Lachrimae di Dowland. Non sentiva la mancanza delle anfetamine come aveva temuto. Spesso però, all’alba, Tessa lo trovava immobile alla scrivania, con gli occhi aperti, fissi e pieni di lacrime.
Dick sapeva che, se voleva venderlo, doveva scrivere un romanzo di fantascienza. Quell’obbligo gli pesava un po’ con una materia così evidentemente realistica, ma finì per ispirargli una trovata brillante.
Bob Arctor, il protagonista, un drogato che vive in un’infame topaia assieme alla maggior parte dei personaggi del libro, in realtà lavora per la Narcotici, sotto il nome di Fred. Difficile dire se si tratti di un poliziotto totalmente assorbito dalla sua identità di copertura o di un freak divenuto informatore, ma questa difficoltà è così comune che la polizia, per proteggere i suoi uomini dagli agenti dei cartelli della droga infiltrati nelle sue file, impone loro un anonimato che giustifica l’invenzione di una «tuta disindividuante». Questa consiste in una membrana sottilissima che il poliziotto deve indossare prima di avere qualsiasi contatto con i suoi superiori e che è collegata a un computer la cui banca dati contiene più di un milione di caratteristiche fisiche. Utilizzando questa banca dati, il computer proietta in sequenza ogni sorta di colore di occhi e di capelli, ogni forma e tipo di naso, tutte le possibili dentature e configurazioni ossee del viso, sicché a ogni nanosecondo la membrana prende un nuovo aspetto, per poi passare subito al successivo. La voce subisce lo stesso trattamento. Ciò rende impossibile descrivere, identificare o registrare chi la indossa, che, grazie all’incessante avvicendamento di dati informatici, diventa un perfetto Signor Chiunque.
La trama del libro si complica quando Fred viene incaricato dai suoi superiori di indagare su Bob Arctor, vale a dire, ma loro non lo sanno, su se stesso. Senza battere ciglio, Arctor piazza in casa sua olocamere e registratori tenuti costantemente in funzione. Era il sogno di Dick, ma non solo il suo: il 16 luglio 1973, in uno dei più sensazionali colpi di scena del Watergate, un consigliere della Casa Bianca rivelò che da anni il presidente registrava, all’insaputa dei suoi interlocutori, tutte le sue conversazioni. Appena nello studio ovale risuonava una voce, i registratori si azionavano automaticamente. Questa scoperta, che fece inorridire l’America, non stupì più di tanto Dick e suscitò in lui un moto di simpatia per il suo vecchio nemico. In quello che l’opinione pubblica giudicava un sistema ricattatorio, lui vedeva il segno di una preoccupazione che conosceva bene: secondo lui Nixon intendeva conservare traccia non tanto di quello che dicevano i suoi visitatori, ma soprattutto delle sue stesse parole. Spiava se stesso almeno quanto spiava gli altri. Avrà riascoltato i suoi nastri o gli bastava sapere della loro esistenza? Si registrava anche mentre li ascoltava? Faceva come Arctor che, ogni due o tre giorni, indossa la tuta disindividuante e va a piazzarsi davanti alla sfilza di schermi che mostrano quello che succede ed è successo in casa sua? Il problema è che le olocamere producono ventiquattr’ore di filmato al giorno, per cui, se anche Arctor potesse smettere di dormire e restare ventiquattr’ore su ventiquattro a fissare gli schermi, il tempo non gli basterebbe comunque, perché è previsto che sia lui stesso il protagonista del filmato, sicché deve passare gran parte della giornata sullo schermo e non davanti allo schermo. Per aggirare l’ostacolo è costretto a rinunciare alla visione esaustiva dei nastri e a procedere per campioni, come si fa quando si cerca una determinata scena su una videocassetta: avanzamento veloce e ogni tanto un’occhiata qua e là. Di una conversazione fra drogati si possono sentire due minuti ogni tre ore senza rischiare di perdere granché, tanto li si ritrova sempre allo stesso punto. Le intercettazioni telefoniche in uno Stato di polizia seguono lo stesso criterio: si registra ogni cosa e, siccome il personale è insufficiente – perché la polizia non può reclutare tutti –, si ascolta un po’ a casaccio. Ma ciò non basta a rassicurare Arctor. E se l’informazione cruciale si trovasse proprio nel pezzo saltato? Il dubbio lo attanaglia anche perché le informazioni non riguardano una persona qualsiasi, ma se stesso, e il sospetto suscita in lui una curiosità sempre più logorante.
Che cosa fa Bob Arctor quando è solo e pensa di non avere testimoni?, si chiede Fred. Non sarà per caso, come sospetta qualcuno, una maglia più importante di quanto non sembri nella rete del narcotraffico?
Che cosa fa il presidente?, si chiedeva senza dubbio Richard Nixon. Lavora per Mosca? Ha commissionato di persona l’effrazione nel Watergate? Ha manipolato il nastro che lo prova? Esiste un nastro che lo riprende mentre manipola il nastro?
Che cosa faceva Philip K. Dick, si chiedeva Philip K. Dick, mentre svaligiavano la sua casa di San Rafael?
Più ci rifletteva, meno inverosimile gli sembrava la versione della polizia secondo cui era stato lui stesso a compiere il furto. Non se lo ricordava, ma sapeva che ciò non provava un bel niente. I suoi amici, che all’inizio sospettavano di lui, ora respingevano quel sospetto in modo troppo unanime perché lui non fosse tentato di dissotterrarlo. Tuttavia, dal momento che non esisteva una registrazione filmata, o se esisteva non gli era accessibile, si era rassegnato all’idea di non poter conoscere la verità e più che altro si chiedeva che cosa significasse, in termini di equilibrio mentale, la capacità di considerare freddamente una simile ipotesi. Aveva fatto un altro passo verso la follia o al contrario era diventato abbastanza lucido da prendere finalmente coscienza delle sue follie passate?
Pur sapendo che nemmeno questo provava un bel niente, tutto sommato si sentiva più lucido di un tempo. Ora che la paranoia stava diventando la passione più condivisa d’America, lui respingeva la propria come un esteta rinuncia a una raffinatezza quando diventa alla portata di tutti e, riducendola a mero sintomo, cercava di ricostruirne l’eziologia. Così come riteneva di aver individuato il meccanismo ripetitivo che, almeno fino all’incontro con Tessa, aveva fatto della sua vita sentimentale un lungo disastro, ora cominciava a mettere a fuoco anche quello che aveva dominato la sua vita intellettuale e psichica.
Per quanto indietro risalisse nel tempo, ricordava di aver sempre respinto con tutto se stesso l’idea che quello che gli accadeva fosse frutto del caso, di un balletto di elettroni privo di un coreografo, di combinazioni aleatorie. Per lui tutto doveva avere un senso, e aveva vissuto e interpretato la sua vita in funzione di questo postulato. Ebbene, dall’idea che ci sia un significato nascosto dietro quello che succede al credere che tutto sia frutto di un’intenzione il passo è breve. Quando si cerca di individuare un disegno nella propria vita, presto si comincia a pensare che si tratti di un disegno prestabilito e a chiedersi chi ne sia l’autore. Questa sensazione che, con più o meno imbarazzo, sperimentiamo tutti trova la sua espressione più compiuta in due sistemi di pensiero: il primo è la fede religiosa, il secondo la paranoia, e Dick, che era passato per entrambe, dubitava sempre più fortemente che fra le due ci fosse differenza.
Scottato, non voleva più credere che la realtà fosse una copertura di qualcos’altro, una specie di arazzo di cui, tessendo, vediamo solo il rovescio, ma che un giorno ci sarà gloriosamente mostrato nel verso giusto. Si era lasciato trascinare troppo ingenuamente dalle fandonie di san Paolo e di Winnie-the-Pooh: «Ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo e saremo visti faccia a faccia... Ci incontreremo di nuovo in un’altra parte della foresta, dove un bambino e il suo orsacchiotto giocheranno per sempre...». Era il momento di aderire all’amara saggezza di Lucrezio: «Non sentiremo niente, perché non saremo più»; non ci sarà nessuno da vedere faccia a faccia, in piena luce, e quello che adesso crediamo di vedere come in uno specchio, in modo oscuro, è solo la nostra immagine riflessa deformata dalla paura della morte e dal sospetto di aver sofferto senza motivo. Benché, nel generale agnosticismo delle società moderne, questo materialismo passi per l’espressione ufficiale del buonsenso, Dick sapeva che pochi uomini, in cuor loro, vi si rassegnano realmente, tanto poco corrisponde ai loro desideri. Gli uomini vogliono credere in qualcosa, nonostante tutto, vogliono che ci sia un senso. Lui aveva imparato a proprie spese a che cosa porti quel desiderio: adesso si sentiva in dovere di avvertire i suoi simili.
Quando andavano a intervistarlo, esponeva con fierezza la sua nuova teoria sulla realtà, secondo la quale tutte le teorie sulla realtà sono inutili, false e puramente sintomatiche. La realtà è semplice, ecco tutto, compatta e stupida come una pietra. Non ha nessun doppio fondo. Bisogna osservare le cose che si ripetono e dedurne le regole necessarie per affrontare efficacemente la vita di tutti i giorni, ma a quel punto bisogna fermarsi, ammettere che la maggior parte degli eventi accade per caso. Con l’accanimento con cui gli ex stalinisti e i preti spretati denunciano le loro rispettive Chiese, Dick elencava centinaia di esempi di errori provocati dalla mania di cercare un senso in ciò che non ne ha. Una ragazza che conosceva aveva tratto dai suoi studi biblici la convinzione che Cristo vivesse al centro della Terra, in una bara di vetro destinata a proteggerlo dai maghi. Lui stesso, influenzato da un uomo pure così pregevole come il defunto vescovo Pike, aveva creduto a cose quasi altrettanto stravaganti. Ma ne era venuto fuori, come dall’inferno della droga, e ora poteva fornire una testimonianza di ciò che aveva vissuto. Tra il serio e il faceto, proponeva di creare un gruppo di pentiti del senso, sul modello degli Alcolisti Anonimi. Almeno, sosteneva, io saprei di cosa sto parlando, non come quei tizi che fanno discorsi contro la droga senza averla mai presa e senza avere la minima idea del piacere che procura.
Lui conosceva il brivido che avverte chi cerca la verità quando, per l’ennesima volta, pensa di essere vicino alla rivelazione ultima; gli capitava persino di avvertirlo ancora, il che dava più valore alle sue affermazioni. Non era guarito, ma almeno sapeva di essere malato. Periodicamente aveva delle ricadute. Ogni anno, all’avvicinarsi del 17 novembre, anniversario del furto in casa sua, cominciava a essere nervoso e passava la fatidica giornata barricato nel suo appartamento insieme a Tessa. Il terrore che lo invadeva in quell’occasione era reale, ma non intaccava la sicurezza nella sua capacità di giudizio: erano attacchi di paranoia e niente di più. Si rivedeva, grondante di sudore, rintanato dietro le tapparelle abbassate, come Fred il poliziotto vedeva Bob Arctor; e, paragonando se stesso al suo sfortunato personaggio, perfezionava la diagnosi: dissociazione della personalità.
Come certi malati gravi, aveva acquisito una lucida familiarità con il suo male, ed era ormai in grado di distinguere nettamente fra: 1) scrivere che organizzazioni come X-Kalay gestiscono in realtà laboratori di droga clandestini o che Nixon è comunista; 2) crederci; 3) credere che sia vero. Giudicava ammissibile scriverlo nella misura in cui era un autore di fantascienza e il suo mestiere consisteva proprio nell’immaginare ipotesi di questo tipo, ma deplorevole crederci. Soprattutto aveva capito che poteva credere qualcosa senza che questo qualcosa dovesse per forza essere vero, perché lui non era solo un autore di fantascienza, ma anche un paranoico matricolato e tendeva a confondere il mondo reale con quello dei suoi libri. Era fiero della lucidità che aveva raggiunto e deciso a non perderla, ma ciò non toglie che, come capita a tutti quelli che si sono liberati di un vizio, trovasse piatta quella sua nuova vita virtuosa.
L’ultimo capitolo del Don Chisciotte mostra il Cavaliere dalla triste figura guarito dalla follia, ma moribondo per via della guarigione stessa. Durante l’agonia fa discorsi commoventi quanto assennati, esalta il buonsenso di Sancio Panza e maledice i romanzi cavallereschi. È uno dei capitoli più tristi della storia della letteratura.
Verso la fine del 1973 la vita di Dick a Fullerton ricordava quel capitolo. Non stava morendo. Si era trovato una nuova moglie, che gli aveva dato un figlio di nome Christopher. Aveva nuovi amici. Si era rimesso a scrivere. La scottante attualità sembrava confermare le sue intuizioni. Cominciava a ricevere i primi riconoscimenti letterari. Aveva smesso di scambiare i mulini a vento per cavalieri e, quando ci ricascava, sapeva di avere torto. Si vedeva come un Don Chisciotte della mente, che aveva vissuto un’avventura non meno esemplare, ma che ormai era consapevole della fine di quell’avventura, da cui aveva già tratto la morale. Era arrivato all’ultimo capitolo e, senza fretta né drammi, assaporando piccoli piaceri da invalido, aspettava la parola «fine».