XXVIII.
Ghiaccio bollente
Undici anni fa i glaciologi e i climatologi parlavano continuamente di riscaldamento globale. Perlopiù erano presi per allarmisti, o provocatori, o bugiardi. Comunque in Italia non se li filava nessuno. Quando ho cominciato a frequentare, o meglio rifrequentare, i grandi ghiacciai per scrivere il libro Ghiaccio vivo, storia e antropologia dei ghiacciai alpini mi sono accorto che in Svizzera e in Francia il problema era sentitissimo: le librerie di Sion, Martigny e Chamonix erano piene di libri che raccontavano la storia e la malattia dei ghiacciai. A sud delle Alpi invece non c’era attenzione, come se la questione non ci appartenesse. Fondono i ghiacciai? Davvero? Dove? Erano domande lontane nello spazio e nel tempo.
Alla fine il mio libro non ha superato la soglia di attenzione degli appassionati e degli addetti ai lavori: freddi i giornali, freddi i recensori, perfino l’editore guardava con scetticismo alle prove del global warming, nonostante gli allarmi della comunità scientifica internazionale. La maggioranza delle persone pensava di trovarsi di fronte a una semplice fluttuazione storica del clima terrestre: «È sempre successo, l’uomo non c’entra niente». Molti lo pensano ancora. Ma io avevo visto con i miei occhi il ghiacciaio di Aletsch annegato nei suoi rigagnoli, mestamente incassato nell’immenso fiordo di pietra, e avevo scoperto che il parroco di Fiesch non pregava più che il ghiacciaio lasciasse in pace i suoi fedeli. I montanari della Fieschertal si erano rivolti formalmente a papa Benedetto XVI per avere il permesso di modificare il rito di Sant’Ignazio, perché la preghiera storica non aveva più senso. Una volta la processione invocava la ritirata del fiume gelato, adesso volevano pregare Dio che gli restituisse il loro ghiacciaio.
Il 20 agosto 2009 Chamonix era una città rovente. I turisti cercavano l’ombra, al sole non si resisteva. Fissando l’ovatta del cielo potevo immaginare di essere a Bologna, Palermo, Tunisi. Non sulle Alpi. Ferragosto era passato senza un fulmine o una goccia di pioggia, e invece di chiudere l’estate l’aveva rilanciata nella più assoluta e inquietante violenza. Era la bolla africana, spiegavano i meteorologi da una settimana, e da sette giorni l’afa non concedeva tregua neanche sopra i mille metri, con l’isoterma alle stelle, sempre più vicino alla cima del Monte Bianco.
Era un mondo capovolto. Nella capitale dell’alpinismo i turisti cercavano refrigerio nei negozi con l’aria condizionata, dove maneggiavano ramponi e maglioni con le mani sudate, oppure sfogliavano i libri che raccontavano di neve, gelo e seracchi. Alle Aiguilles e ai ghiacciai preferivano le vecchie fotografie. Si era rotta la relazione logica tra i panorami delle pagine illustrate e gli stessi panorami inquadrati dalle finestre, da giorni annegati nella foschia e chiusi in veli di caligine e luci opalescenti. Fuori il sole era talmente bollente che i turisti preferivano rifugiarsi tra gli scaffali del grande magazzino, e alla fine, sfogliando e sfogliando, trovavano più attraenti gli scenari patinati dei libri e delle cartoline dei fondali svaporati della montagna vera.
Chi era salito all’Aiguille du Midi sapeva che faceva caldo anche a tremilaottocento metri e chi era sceso dal Col des Montets aveva notato le tristi scarpate detritiche della Petite Aiguille Verte, proprio sopra l’arrivo della funivia, e lo squarcio bianco sulla parete ovest del Petit Dru, che più che una ferita era un intervento a viso aperto. La mano calda del chirurgo aveva agito sottocute intaccando il permafrost. Dopo le frane del 1987, del 1997 e del 2005 i Drus non erano più i Drus; era cambiato il colore, la fisionomia; la famosa via di Walter Bonatti che nel 1955 fece battere il cuore agli alpinisti e anche a chi di roccia non capiva niente, non era più percorribile. Non per la difficoltà: perché non c’era più.
Il Glacier du Tour, il Glacier d’Argentière e la Mer de Glace sporgevano appena sugli scivoli morenici; si vedevano a fatica. Le poderose cascate di seracchi che insidiarono gli orti e le case dei montanari di una volta rovesciavano cascate d’acqua sulle rocce grigie e deformi, mentre i pronipoti di quei montanari sguazzavano nelle piscine gonfiabili. Il 20 agosto 2009 l’unico ghiaccio garantito nella valle dell’Arve era quello delle gelaterie. Gli adulti allungavano le code al chiosco dai cento colori e i bambini irriverenti con i sandaletti da spiaggia sfidavano il sole arrampicandosi verso il braccio proteso di Jacques Balmat, che dal 1887, un secolo dopo la conquista, indica al naturalista Horace-Bénédict de Saussure la via del Monte Bianco. È solo un monumento, s’intende, tant’è che quasi nessuno, dalla piazza affollata di Chamonix, allunga più lo sguardo verso il fiume di ghiaccio dei Bossons, che nonostante il riscaldamento climatico continua testardamente a precipitare per tremila metri da cima a valle, tuffandosi nella vegetazione a pochi passi dal tunnel e dai camion.
Dieci anni dopo
Il 26 agosto 2019 sono di nuovo davanti al Monte Bianco. La scena non sembra cambiata, ma è solo un’illusione ottica. È perché in questi anni ci siamo abituati alla perdita. Ogni estate la situazione del ghiaccio peggiora e noi non ci facciamo più caso. Questa mattina sono salito al Mont Chétif, proprio in faccia al Bianco di Courmayeur. La catena sul grande schermo. La vista è sempre meravigliosa, però è un quadro completamente diverso da quello che mi stregò da ragazzo, nei lontani e vicinissimi anni Settanta. Ripasso i versanti con gli occhi e individuo i miei itinerari: la Brenva, il Dente del Gigante, le Jorasses. Restano i profili, tutto il resto è diverso. Quando traversavo dal Pavillon all’Aiguille de la Brenva sentivo il respiro del ghiaccio, adesso potrei farlo in scarpe da ginnastica. Quarant’anni fa scendevo in piena estate il couloir Whymper delle Grandes Jorasses, adesso ci vorrebbero le ali. Il ghiacciaio di Planpencieux scricchiola sotto il rifugio Boccalatte e sporge pericolosamente sulla Val Ferret. Quante volte ho fatto palestra di ramponi e piccozza sulle fronti gelate della Lex Blanche e di Pré-de-Bar. Dio mio dove sono andate a finire?
Nel tempo di sfilare l’imbracatura e bere un sorso d’acqua sulla cima del Mont Chétif, la Brenva rovescia a valle due valanghe di ghiaccio e riempie la valle di polvere. La porzione superiore del ghiacciaio si è completamente divisa da quella inferiore e i bianchi blocchi carichi di detriti sporgono sullo squarcio. I seracchi affacciano nel vuoto come un balcone pericolante e ogni cinque minuti scaricano qualche tonnellata di ghiaccio esausto verso la cappella di Notre-Dame de la Guérison. Silenzio e boato, calma e schianto, sospensione e inquietudine. Le lancette del riscaldamento climatico marcano l’orologio estivo del più possente ghiacciaio meridionale del Monte Bianco.
Che cosa è cambiato veramente?, mi domando. Il paesaggio, la temperatura, la paura? Sì, il paesaggio è diverso. Sì, fa certamente più caldo. Sì, abbiamo più paura di farci del male. Di provocarcelo. Siamo degli stupidi tree climbers che segano il ramo su cui sono appoggiati. Ma non è solo quello. C’è un’ansia più spessa. Un male più profondo. Come un retroterra della paura. Lo squagliarsi delle certezze. Penso che siano cambiati il sentimento e la percezione, che prima erano duri come il granito e adesso sono un gelato al sole. Il gelo era il collante che teneva insieme la vita, la morte e l’immaginario della montagna di cinquanta, cento anni fa. Un gelido silenzio si prendeva le cose e le immobilizzava. Invece la cifra della montagna contemporanea è molle. I ghiacciai si ritirano, il permafrost cede e le cime crollano. Cade tutto e tutto è precario, a cominciare dalle nostre certezze.
Si sbriciola anche la storia. Appena è finita la fase «fredda» degli anni Settanta sono precipitate due pareti storiche dell’alpinismo come la ovest del Petit Dru e la nord del Monviso. Ecco le testimonianze dei sopravvissuti:
Marco Conti, 21 agosto 1987: «Il cielo si oscura per un istante, dalla parete scende il finimondo, due grattacieli di roccia, sbucati dal versante nord della montagna, si urtano nell’aria, si rigirano più volte toccandosi in volo e andandosi ad infrangere sullo zoccolo iniziale all’attacco della via. La scena è apocalittica.
Afferro Mirella dal bavero del pile, tuffandoci alla bell’e meglio sotto un grosso blocco di granito. Siamo lontani dalla base della parete eppure tutt’intorno comincia un bombardamento, sembra la fine del mondo, restiamo rannicchiati per alcuni istanti in attesa di essere spazzati via anche noi insieme alle pietre che piombano rovinosamente a pochi centimetri...».
Marc Albaladejo e Linda Mons, 6 luglio 1989: «Improvvisamente sussultiamo nel dormiveglia, destati da un possente e sordo rimbombo che rapidamente si intensifica fino a diventare un boato terrificante che si avvicina a velocità vertiginosa. Il couloir nord sta franando con un baccano allucinante. Atterriti, nelle cuccette, con gli occhi sbarrati nell’oscurità, ci aggrappiamo alle nostre povere coperte.
Al passaggio di quello che a noi sembra essere il fronte della valanga, il bivacco si mette a vibrare violentemente e subito si sentono i primi colpi delle pietre che colpiscono con forza il nostro ricovero provocando degli squarci dove entra dell’acqua; pare che tutto debba disintegrarsi...».
Nuovi deserti
L’altra cifra della montagna contemporanea è il deserto. Quando il ghiacciaio lascia il posto alla roccia emerge una specie di terra di mezzo che non è più bianca e non è ancora verde, e neanche marrone, ma è solo roccia martoriata e frantumata. Un limbo inabitabile. Dal suolo da poco liberato dal ghiaccio sale un odore di putrefazione e morte, come quando è venuta a mancare una presenza e non ne è ancora subentrata un’altra a riportare la pace. Per alcuni anni, prima che la vegetazione curi pazientemente le ferite, il sottopelle del ghiacciaio è una rovina inguardabile e impercorribile, con tutti i grigi della scala cromatica e nessuna sfumatura di vita. L’immagine di riferimento è il deserto, ma non lo struggente altopiano calcareo di Dino Buzzati – «Stavo arrampicando col tenente Drogo nel Deserto dei Tartari; la stessa solitudine, la stessa aspettativa sullo sfondo» –, bensì una landa senza forma e senza senso. Il lascito di un ghiacciaio è la più sconfortante espressione naturale che io abbia incontrato nei miei pellegrinaggi alpini. Nichilismo assoluto.
Per trovare il deserto basta salire in automobile a Pré de Madame Carle, nel cuore degli Ecrins. «Questo è il tramonto della Terra!» si pensa camminando tra le rovine di quello che i montanari chiamavano prato, perché oggi il prato della signora Carla è un arido pozzo affondato tra i bastioni del Pelvoux e della Barre des Ecrins, in uno dei luoghi più potenti e desolanti delle Alpi francesi. La prateria non c’è più, alpeggi non se ne vedono e il piano in cui sbocca e riposa la tortuosa strada della Vallouise è solo un grande deposito morenico. Le valanghe impediscono alla foresta di crescere e il torrente di Saint-Pierre si occupa da molto tempo di distribuire le ghiaie, divagando nell’imbuto con le acque di fusione. Le meraviglie di ghiaccio che affacciavano sul Pré sono salite troppo in alto per gli sguardi distratti dei turisti, quasi non si vedono più, così il deserto ha conquistato il paesaggio. Del Glacier Blanc e del Glacier Noir si leggono i nomi evocativi sui cartelli del parco, del fantastico ghiacciaio della Barre sporge solo la cornice a quattromila metri e del prato non resta che la leggenda, una delle varie versioni. Appartengono quasi tutte al filone del Paradiso perduto.
La versione più diffusa racconta che l’alta Vallouise fosse un luogo verdeggiante all’inizio del Cinquecento, quando Geoffroy Carle, capo del parlamento del Delfinato, lo ricevette in dono da re Luigi XII. Un brutto giorno monsieur Carle morì lasciando i beni alla moglie Louise, donna dall’etica discutibile per qualcuno e signora assai sensibile per qualcun altro. Louise s’innamorò del luogo e legò il suo nome all’alpeggio più bello: il Pré de Madame Carle.
La leggenda contemporanea racconta un’altra storia: carovane di turisti che salgono in auto per vedere un prato leggiadro, e non lo trovano. I turisti si accontenterebbero dei ghiacciai, ma sono scomparsi anche quelli. C’è ancora un piccolo nevaio nascosto in un canale a nord, la neve d’estate!, ma è troppo ripido per scivolarci sopra, ed è troppo distante, e ci vorrebbero un buon binocolo e la vista più allenata per scorgere i camosci che prendono il fresco. Ogni tanto una marmotta si alza sulle zampe, fischia, si abbassa e torna nella tana. Sparita anche lei. Un piccolo larice mette radici tra i sassi. Qualche ciuffo di fiori magri, ghiaia di torrente, bibite da rifugio. C’è del ghiaccio per la Coca Cola? No madame, oggi è finito anche quello.
In morte
Quando è morto il ghiacciaio Okjokull gli islandesi hanno celebrato il suo funerale. Il 18 agosto 2019, per la triste occasione, si sono riuniti i cittadini, gli intellettuali e i politici della regione. Dopo i discorsi di rito la giovane premier Katrin Jakobsdóttir ha posato sul posto una targa commemorativa:
Questo è il primo ghiacciaio islandese a perdere il suo status. Ci aspettiamo che nei prossimi duecento anni tutti i nostri ghiacciai facciano la stessa fine. Questa targa testimonia che siamo coscienti di ciò che sta accadendo e di ciò che è necessario fare per evitarlo. I posteri sapranno che cosa abbiamo fatto.
La coscienza italiana è molto diversa da quella islandese, anche se cominciano a nascere manifestazioni inedite. Per esempio, in una cornice ancora piuttosto iniziatica e con un riverbero mediatico più da evento folcloristico che da allarme epocale, il 20 luglio 2019 si suona un requiem ai piedi del ghiacciaio dei Forni in alta Valtellina. Siccome servono musicisti amanti della montagna e dediti alla causa, un curioso bando seleziona l’orchestra di violini, viole, corni, contrabbassi, fagotti, trombe e tromboni. Si garantisce il trasporto degli strumenti più pesanti alla capanna Branca, ma è preferibile che le persone salgano a piedi «in segno di coerenza al tema dell’iniziativa». Recita l’appello:
Il caldo sta «sciogliendo» il ghiacciaio dei Forni seracco per seracco... Abbiamo un sogno: dedicare al grande vecchio adagiato fra le tredici cime del Cevedale le armonie delle più straordinarie note musicali dell’umanità, che compongono il Requiem di Wolfgang Amadeus Mozart e l’Halleluja di George Friedrich Händel. Tristezza e speranza. Un atto d’amore per cui chiamiamo a raccolta gli orchestrali volonterosi, disposti a percorrere insieme il sentiero che porta al Rifugio Branca e accompagnare il coro in un evento che sarà memorabile. Ai trasporti, al vitto, a rendere appassionante la giornata penseremo noi. A voi le armonie degli archi, dei fiati e dei timpani, cui faranno eco i fischi delle marmotte, il tonfo dei seracchi e il fruscio del vento.
L’orchestra prende corpo. Il 20 luglio la carovana di appassionati s’incolonna di buon’ora sul sentiero e si raduna alla capanna Branca, proprio in faccia alla morena. Qualcuno è un musicista, anche se non lo dà a vedere finché non si veste di bianco e solleva il suo strumento sulla terrazza del rifugio. Gli orchestrali indossano una maglietta candida come il ghiacciaio, anzi ben più candida. Più che uno sfondo il ghiaccio è un monito. Un’ombra fragile. Magre e secche come non mai, le nevi dei Forni ricordano ai musicisti e al pubblico perché sono saliti a duemilacinquecento metri e perché per la prima volta nel cielo della Valfurva stanno per alzarsi le solenni note di Mozart e Händel. Non i soliti cori alpini, che non aggiungerebbero molto al sentimento della montagna, ma musiche ben più gravi e definitive. In morte e in lode, come nel ciclo della vita. D’altra parte il giovane Mozart se ne andò prima di finire il suo Requiem e in un certo senso musicò la propria morte.
La veglia del Lys
Il 27 settembre 2019 il rito si sposta alle sorgenti del Lys, davanti ai seracchi del Monte Rosa e alle televisioni d’Italia. Fino all’altro ieri dei ghiacciai non importava niente a nessuno, ma in due giorni sono capitate delle cose, e sono successe così a tempo da drizzare l’attenzione. Mentre Greta Thunberg all’Onu strigliava i potenti del mondo – «È tutto sbagliato. Io non dovrei essere qui. Dovrei essere a scuola dall’altra parte dell’oceano. Eppure venite tutti da me per avere una speranza. Come osate! Avete rubato i miei sogni e la mia infanzia!» – il ghiacciaio di Planpencieux incombeva sulla Val Ferret minacciando alcune case. Niente di nuovo, succede da decenni, ma i giornali e le televisioni hanno fatto «Greta più ghiacciaio uguale audience» e hanno mandato i cameramen e i cronisti a raccontare il crollo del mostro. «È questione di giorni, no, abbiamo poche ore, forse pochi minuti, state sintonizzati!» L’allarme ambientale è all’ordine del giorno dall’altro ieri e da due giorni l’Italia è un paese di climatologi allarmati ed ecologisti lungimiranti. Prendendo la parola al Consiglio dell’Onu il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte cita il ghiacciaio del Monte Bianco per sottolineare l’emergenza.
Il Monte Rosa non ha mai goduto dell’audience del Monte Bianco, ma dalla Val Ferret a Staffal c’è solo un’ora e mezza di automobile e il Bianco e il Rosa non sono mai stati così vicini. Alle sorgenti del Lys c’è un bel sole, l’aria è quasi ferma e fa un caldo innaturale per la fine di settembre. In due ore siamo saliti in cento sulla morena, fermandoci su un terrazzo a sbalzo. Sotto c’è il vuoto lasciato dal ghiacciaio, sopra volano due gipeti in amore, davanti si allarga la montagna. Guardo il Rosa e penso al nome roisa, che vuol dire ghiacciaio. Ogni tanto uno sbuffo del Lys ricorda la solennità del luogo.
Il Lys è il paziente più osservato delle Alpi fin da quando l’eroico Umberto Monterin, negli anni Venti del Novecento, cominciò a misurarne gli sbalzi d’umore e i regressi della fronte. Monterin era un precursore, lavorava già sulla relazione tra le variazioni glaciali e climatiche. Se il vecchio Umberto fosse qui ci spiegherebbe sbigottito quello che è successo, ma basta ascoltare Davide Camisasca, guida e fotografo di Gressoney, per capire che la situazione è precipitata con gli anni Novanta. Quando io e Davide cominciavamo a scalare le montagne qui in basso arrivava la lingua gelata del Lys, adesso ci sono due laghi verdi che bevono e sputano acqua sporca. Per trovare il ghiaccio bisogna salire sotto lo sperone di roccia del Naso del Lyskamm, dove convergono le due seraccate senza toccarsi neanche più.
Alla veglia del Lys partecipa Antonio Beck Peccoz, un discendente della nobile casata. Antonio è un grande estimatore della valle, ed è un ambientalista. Conosce gli animali ma non li caccia. Ama le montagne come fanno quelli che si sono allontanati un po’, aggiustando il sentimento. Invece dei banali bastoncini retrattili degli escursionisti da supermercato, Peccoz maneggia un bastone di legno chiaro con un setter intagliato sulla cima. Dice che con il bastone di legno riesce ad andare dappertutto, e che il cane gli porta fortuna. Quando Vanda Bonardo di Legambiente gli ha chiesto di partecipare non ha dubitato un istante.
Marco Giardino insegna Scienze della Terra all’Università di Torino. Nonostante lo zaino ingombrante sale come un furetto e parla del ghiacciaio. Dice e ripete agli studenti che tutto quello che si vede e si tocca è opera del ghiaccio. Ci sono i segni, come stigmate. Giardino indica le linee di scorrimento, i residui minerali, le morene, i circhi glaciali, i massi erratici, e quando gli organizzatori gli mettono in mano il megafono spiega «che in trent’anni il ghiaccio è arretrato di quasi cinquecento metri, ma noi non siamo qui per un requiem, piuttosto una veglia per ricordare ciò che di buono ci ha lasciato il ghiacciaio».
Martin Mayes è inclassificabile. Sembra un buontempone scozzese dedito alla birra e invece si muove come un gatto, corre, salta, porta pesi e soffia. Non per la fatica: Mayes soffia perché è il suo mestiere. Di solito soffia musica nel corno delle Alpi, il tubo di quattro metri che accoglie i turisti nelle più famose località svizzere e li strega con suoni ancestrali. Dicono sia il suono della tradizione. Martin, che ama ogni genere di musica a fiato e crede nella tradizione in movimento, ha progettato un alphorn in fibra che pesa pochissimo, così può portarlo in cima alle montagne. Lo chiamano corno moderno, un nome stupido; per Martin è lo strumento che accende il dialogo tra gli ambienti e le persone, a cominciare dai bambini.
Quando lo scozzese allunga il suo tubo alle sorgenti del Lys, una nuvola sta passando sopra le cornici dei Lyskamm a quattromila metri e un gregge di nebbie s’è attaccato alla seraccata. Il ghiacciaio va e viene come una chimera. I cameramen gli puntano addosso gli obiettivi e Martin alza al cielo il corno lunghissimo e comincia a estrarre musiche sacre e profane, improvvisando e stremando i suoni. Si può credere che la valle dei Walser aspettasse le note da secoli, questi lamenti senza età, anche se siamo qui per una funzione ipercontemporanea. Nessun Walser al tempo dei coloni si sarebbe preoccupato per l’anoressia di un ghiacciaio e nessun suonatore si sarebbe spinto a duemilacinquecento metri per una celebrazione laica. Il suonatore intona lo stupore impacciato del terzo millennio e alza note che non sanno dove atterrare, su questa montagna al contempo austera, contaminata e sconsacrata. Anche l’applauso non sa dove andare, perché non si applaude un mea culpa.
A metà pomeriggio le televisioni depongono gli obiettivi e Martin smonta lo strumento. Adesso il Rosa sembra più alto e freddo, è ora di scendere.
Sono passate le quattro quando ci mettiamo in cammino; siamo gli ultimi a raggiungere la morena ripida e stretta. Veleggia qualche nebbia e si è alzato un filo d’aria. Martin ha le scarpe basse e gli è rimasta poca suola. Non piove da qualche giorno, la terra è secca, c’è molta polvere posata sul sentiero. I sassi rotolano per niente. Su una scorciatoia una gamba di Martin scivola a valle e l’altra resta indietro, avvitandosi in un gesto scomposto. Lui frana salvando il corno.
«Ti sei fatto male?», chiedo un po’ troppo presto.
«Te lo dico quando mi sono fermato.»
«British», penso, «un vero british».
Quando si ferma prova ad alzarsi in piedi e miagola. Si è fatto male, «ma non troppo», precisa. Gli prendiamo il corno magico e cominciamo a scendere al ritmo del ghiacciaio, guardando le nebbie e la notte che salgono dal fondovalle. Adesso il Monte Rosa non si vede più, l’autunno se l’è mangiato. Il suonatore ferito si appoggia sui bastoncini e saggia i sassi con il piede buono prima di mettere giù la caviglia rotta. Non si lamenta mai, tribola, suda e pensa a farci ridere: «A Joe Simpson era andata molto peggio».
Reggendolo sulle spalle scopriamo che il suonatore pesa, anche se lo spirito è leggero. Dopo quattro ore di discesa, e discesa non è la parola giusta per descrivere la nostra progressione, penso che la caviglia gli debba fare un male del diavolo, tuttavia sono sicuro che Martin continui a vedere il cielo azzurro del Lys dentro cui volavano i gipeti innamorati, il cielo dell’alta montagna che adesso sta diventando ogni minuto più blu sopra questa nebbia e questo buio che puzzano d’autunno.
Alle otto di sera siamo finalmente in fondo al sentiero, anche se non c’è un’anima in giro. Mentre con l’occhio punto le luci dell’automobile che ci è venuta incontro nel parcheggio, con l’altro occhio, l’occhio artista di Martin, controllo il nastro di ghiaccio dei Lyskamm che diventa viola e si spegne come la lampada di scena.