I.
Quel mondo congelato

Anche se assai ridimensionato dal vicino di cresta – il meraviglioso Finsteraarhorn – l’Agassizhorn è una bella montagna. Quando fa bel tempo il corno di Agassiz punta lo scivolo di ghiaccio nel cielo terso dell’Oberland Bernese e sembra una vela spiegata al vento delle altezze. Siccome gli mancano cinquantaquattro metri al quattro con tre zeri è snobbato dai collezionisti di quattromila, tuttavia è più di quanto gli svizzeri potessero dedicare a uno scienziato geniale ma controverso come Jean Louis Rodolphe Agassiz, figlio di un pastore protestante, nato a Môtier il 28 maggio 1807 e morto a Cambridge in Massachusetts il 14 dicembre 1873.

Biologo, paleontologo e geologo di fama internazionale, nella prima parte della vita Agassiz si è occupato soprattutto di pesci e ghiacciai. Di fatto è stato il fondatore della glaciologia alpina, prima di diventare uno dei maggiori zoologi antievoluzionisti. Come altri poligenisti dell’epoca pensava che il Libro della Genesi raccontasse l’origine degli uomini bianchi e che gli animali e le piante della Bibbia si riferissero solo alle specie familiari ad Adamo ed Eva. S’era convinto che la forma ebraica originale del nome Adam provenisse da una radice consonantica riferita al rossore dell’espressione umana, nel senso di «mostrare il rosso della faccia». E dal momento che solo le persone dalla pelle chiara sono in grado di arrossire, aveva concluso che l’Adamo biblico doveva essere per forza caucasico.

Agassiz fu senz’altro uno scienziato brillante, ma non gli si potevano perdonare le teorie razziste e discriminatorie. Dopo oltre un secolo dalla morte ci si è accorti che il professore rappresentava una memoria scomoda. I dubbi hanno minato la sua fama inducendo i critici svizzeri e americani a ridimensionare la figura dell’uomo e denunciare le tesi dello studioso. Nel 2007 il governo svizzero ha ammesso che un’ombra razzista gravava sull’illustre connazionale, rifiutando però di ribattezzare la cima dell’Oberland che gli era stata dedicata. Sono risultate inutili le perorazioni dello storico sangallese Hans Fässler, che proponeva di cambiare l’Agassizhorn in Rentyhorn in onore dello schiavo del Congo che lo scienziato aveva ritratto malignamente nella Carolina del Sud per dimostrare l’inferiorità della razza nera. Il comitato civico «Démonter Louis Agassiz» (smontare Louis Agassiz) ha raccolto 2500 firme per sostenere il cambio di nome della montagna, ma l’appello è stato respinto dai comuni di Grindelwald, Guttannen e Fieschertal nell’estate del 2010.

Anche il Club Alpino Svizzero, con un cavillo verbale, ha evitato di revocare allo scienziato lo status di membro onorario. I dirigenti del CAS hanno detto semplicemente che il titolo era già scaduto con la morte. Tuttavia il 7 settembre 2018 la città di Neuchâtel ha riesaminato la figura del concittadino cancellando l’Espace Louis-Agassiz per ribattezzarlo Espace Tilo-Frey, in ricordo della pioniera nera dell’emancipazione femminile e delle minoranze etniche. «Non stiamo disonorando la memoria di qualcuno», hanno dichiarato per scusarsi i dirigenti della cultura locale; «siamo ben consapevoli del contributo alla scienza da parte di Louis Agassiz, cofondatore dell’Università di Neuchâtel e del Museo di Storia naturale. Ma le autorità cittadine ritengono che a Neuchâtel esistano già numerosi omaggi alla figura dello scienziato, tra cui un busto all’università e un ritratto nel museo». Si poteva dunque cedere una fetta di onore alla donna di colore.

Il mistero dei massi erratici

Lo storico Tobias Krüger racconta che il parroco di Saint-Esprit de Berne, Samuel Wyttenbach, era un naturalista attratto dai ghiacciai. Nel 1781, probabilmente colpito dall’ennesima avanzata dei ghiacciai alpini, il religioso offrì venti ducati a chi si fosse impegnato a ricostruirne l’antica estensione sulla base dei documenti a disposizione. Ma nessuno si fece avanti. L’aneddoto è riportato dal glaciologo svizzero Amédée Zryd, che ne trae due conclusioni: da un lato, il perdurante e deprimente disinteresse verso le vicende geologiche, sia pure nel cuore dell’Oberland svizzero, terra per eccellenza di monti e ghiacci, e a soli due decenni dalla fine del secolo; dall’altro lato, l’effettiva difficoltà a mettere mano su documenti affidabili, perché la vita dei ghiacciai è sempre stata separata da quella degli uomini.

La rappresentazione cartografica rivela il grado di incertezza dell’epoca: «Sino alla fine del 1700 – notano gli studiosi Laura e Giorgio Aliprandi – i ghiacciai vengono individuati con il nome generico di Glacières, un termine collocato sopra le montagne e soprattutto utilizzato per indicare il massiccio del Monte Bianco, come ad esempio nella carta di Andrew Dury del 1765, che riporta erroneamente il toponimo a est di Chamonix. Nella carta del Vallese di Gabriel Walser del 1768 appare per la prima volta in legenda la segnalazione Mons Glacialis... Solo alla fine del 1700 i ghiacciai cominciano a essere rappresentati nel disegno con un’evidenza diversa dalle montagne». Mentre i cartografi provano a battezzare i fiumi di ghiaccio collocandoli in luoghi più prossimi alla realtà, l’attenzione dei ricercatori si focalizza sul problema dei massi erratici, testimonianze evidenti di corpi venuti da lontano. La domanda è: quanto lontano? Nel 1795, alludendo alle colline moreniche del Salève presso Ginevra, lo scienziato scozzese James Hutton nota che alcuni massi si trovano curiosamente mille metri più in alto degli strati rocciosi dai quali si sono staccati. Nel 1802 John Playfair suggerisce che il motore del trascinamento potrebbe essere stato il ghiacciaio. Tra gli studiosi s’insinua il sospetto che in tempi remoti le fiumane glaciali possano aver trascinato quegli enormi blocchi per distanze inimmaginabili.

L’intuizione è giusta ma ancora approssimativa. Passano altri vent’anni e la curiosità cresce. Dopo la rovinosa tracimazione della diga glaciale del Giétro nel Vallese, cominciano finalmente a delinearsi le vere dimensioni del fenomeno. Il professore emerito di geologia Jean de Charpentier, già docente all’Accademia di Losanna, incontrando sul luogo del disastro un montanaro di nome Jean-Pierre Perraudin racconta che il valligiano e altri cacciatori di camosci fossero convinti che i ghiacciai vallesani, in un lontano passato, avessero raggiunto la piana di Martigny. Altrimenti come si potrebbero spiegare i blocchi erratici sparsi intorno alla città, del tutto simili ai massi depositati sulle morene? Neanche la più spaventosa alluvione sarebbe in grado di trascinare certe porzioni di roccia, e poi – ma questo il Perraudin non lo dice – non si può più ingannare la scienza e umiliare l’intelligenza appellandosi alla favola biblica del diluvio universale, com’è stato fatto per troppo tempo.

L’ipotesi è affascinante ma tutta da dimostrare. In un primo tempo Charpentier è scettico – uno scienziato rispettabile ha bisogno di prove, dopo tutto –, invece l’ingegnere cantonale Ignaz Venetz si appassiona alla teoria, approfondisce lo studio e presenta una memoria alla Società Elvetica di Scienze Naturali in cui enumera molti casi di cordoni morenici e massi erratici lontani dalle fronti glaciali di inizio Ottocento. Nel 1829, dopo ulteriori rilevazioni, Venetz ipotizza pubblicamente che le glaciazioni dell’antichità potrebbero essere state così estese da ricoprire la valle del Rodano e la conca del Lemano, dove attualmente si allarga il grande Lago di Ginevra, fino a raggiungere il massiccio montuoso del Giura. Così, mentre il prudente Charpentier familiarizza con la fantastica ipotesi delle glaciazioni, nel 1836 entra in gioco Agassiz, giovane ricercatore esperto di pesci fossili e ambizioso professore di scienze naturali all’Accademia di Neuchâtel. Anche lui inizialmente respinge la teoria glaciale, ma ben presto cambia idea.

Un lungo inverno siberiano

Agassiz è il primo studioso a dedicarsi a tempo pieno allo studio dei ghiacciai alpini, che diventano la sua passione e la sua ossessione. Per un decennio l’indagine dei flussi glaciali, delle seraccate, dei pozzi, dei crepacci, delle pieghe e dei funghi morenici cattura le energie fisiche e intellettuali del trentenne Louis, uomo intelligente, curioso e sicuro di sé. Dopo appena un anno di osservazioni tra i ghiacciai dei Diablerets e del Monte Bianco, con relativi approfondimenti sulle morene della valle del Rodano e convalli a fianco del maestro Charpentier, è già pronto a tirare le conclusioni. Il 24 luglio 1837, in una sala bollente di Neuchâtel, davanti a studenti distratti e docenti esterrefatti, espone senza mezzi termini la rivoluzionaria teoria dell’era glaciale terrestre: «Un inverno siberiano si è stabilito per una certa durata su un mondo precedentemente ricoperto da fitta vegetazione e popolato da grandi mammiferi, simili a quelli che oggi abitano le regioni calde dell’India e dell’Africa».

Si tratta di un radicale rovesciamento del pensiero. L’idea che la Terra possa essere stata ricoperta di neve e ghiaccio (almeno un terzo della superficie terrestre, chiariranno gli studi successivi) e che l’uomo abbia potuto sopravvivere su un pianeta in buona parte gelato significa riconsiderare le vecchie certezze delle scienze naturali e umane. Davanti alle asserzioni del giovane professore l’esimio Leopold von Buch e altri decani della geologia gridano al sacrilegio, avviando uno dei più interminabili dibattiti scientifici della storia, ma ormai il dado è tratto. Lo spregiudicato Agassiz afferma con assoluta sicurezza che i ghiacciai che disegnano il paesaggio ottocentesco non sono altro che minuscoli residui di estensioni glaciali gigantesche, non solo sulle Alpi ma nell’intero emisfero. I pittoreschi ghiacciai alpini ci ricordano un tempo in cui il mondo fu ricoperto da una smisurata coltre di ghiaccio.

Tuttavia, la teoria della crescita e dello scivolamento dei ghiacciai ha bisogno di conferme sperimentali e Agassiz sa che le prove delle glaciazioni preistoriche vanno cercate nei residui del presente. Dal 1837 al 1846 affronta lo studio sistematico, militante, quasi maniacale dei ghiacciai delle Alpi svizzere, in particolare dell’Oberland orientale, mettendo insieme un’équipe di ricercatori coraggiosi e appassionati.

Sulla schiena e nella pancia del drago

Nell’estate del 1840 i ricercatori guidati da Agassiz piazzano un campo di fortuna sotto un masso morenico: l’Hôtel des Neuchâtelois. Vogliono rubare tutti i segreti possibili al severo ghiacciaio di Unteraar, un fiume gelato che scende dal Lauteraarhorn nella propaggine orientale dell’Oberland.

Costruiscono una tettoia di pietra sotto la roccia, il pavimento viene livellato con lastre piatte e protetto da una tenda all’ingresso. Una nicchia all’esterno funge da cucina e una piccola fossa sotto un masso è usata come dispensa. Le provviste arrivano con regolarità dal vicino ostello di Grimsel. I sei uomini sono attrezzati con strumenti scientifici – barometri, termometri, igrometri, ipsometri e microscopi – e un macchinario per le perforazioni nel ghiaccio. Triangolano la posizione di diciotto massi appoggiati sul ghiacciaio e ne registrano i movimenti nel corso delle stagioni. Misurano il tasso annuale di disgelo. Piantano pali in vari punti del ghiacciaio per calcolare la velocità di spostamento. Versano acqua colorata sulla superficie e fanno dei fori nelle pareti dei crepacci per misurare il tempo di scorrimento dell’acqua nei capillari del ghiacciaio. Inoltre – nel primo anno e nei successivi – scalano tutte le cime circostanti per ricavare un’immagine più esatta del drago di cui si stanno occupando. Per cinque anni vivono sul ghiaccio.

Sono stagioni esaltanti, tra emozioni, entusiasmi, delusioni e scoperte fantastiche; gli scienziati operano in pieno isolamento, ad alcune ore di cammino dall’ospizio di Grimsel, l’ultimo avamposto abitato. Estate dopo estate (compreso un test invernale), con il bello e il cattivo tempo, per settimane soggiornano sul ghiacciaio, lo spiano, lo traguardano e lo disegnano, esplorandone le profondità. Nelle varie campagne affrontano le questioni fondamentali della glaciologia, dalle modalità dei flussi ai bilanci di massa, dalla permeabilità del ghiaccio all’idrologia interna, dalla crosta di superficie ai pozzi glaciali. Alla fine il ghiaccio svela i suoi segreti.

Nel settembre 1841 Agassiz si fa calare in un pozzo:

Vado a raccontare in poche parole questa discesa che i miei compagni di viaggio hanno più tardi chiamato la mia discesa agli inferi. Era verso la fine della nostra permanenza sul ghiacciaio, quando, discutendo come al solito sui fenomeni che andavamo osservando, un membro del gruppo fece osservare che forse sarebbe stato facile farsi calare senza pericolo in uno dei pozzi: forse avremmo visto cose inattese! Tutti applaudimmo alla proposta e senza indugio ci mettemmo alla ricerca di un pozzo adatto alla prova...

Trovano un budello di ghiaccio a non molta distanza dal loro rifugio, un buco di otto piedi che sembra scendere verticalmente a grande profondità. Agassiz decide di tentare l’esplorazione subglaciale, ma prima è necessario deviare il ruscello che annega il pozzo scavandogli un altro letto. È un lavoro complesso e faticoso che richiede l’impegno di tutta la squadra, scienziati compresi. Infine drizzano il treppiede e si affacciano nel pozzo; le guide legano l’esploratore alla corda di canapa e fissano alla stessa corda l’asse di legno che servirà da sedile. Per proteggere lo scienziato dall’acqua di fusione gli coprono le spalle con una pelle di capra e gli mettono in testa un berretto di pelliccia di marmotta.

Agassiz è il primo uomo a calarsi nella pancia di un ghiacciaio, ma l’esperienza non gli basta. L’anno successivo, il 7 agosto 1842, assiste alla nascita di un crepaccio:

Udii vicino a me un rumore come se diversi fucili sparassero tutti assieme. Mentre mi affrettavo verso il luogo da cui proveniva il rumore, esso si ripeté sotto i miei piedi con un movimento simile a quello di un leggero terremoto. Il terreno sembrava spostarsi e cedere. Ora però il rumore era diverso dal precedente e assomigliava a quello di massi che si sgretolano, senza che tuttavia la superficie franasse. Il ghiacciaio nondimeno tremò perché un blocco di granito di un metro di diametro posato su un piedistallo di mezzo metro cadde all’improvviso. Nello stesso istante, tra i miei piedi si aprì una crepa che corse rapidamente in linea retta attraverso il ghiacciaio.

Fu come assistere a un parto, l’esperienza di condivisione più intima che uno scienziato possa chiedere alla sua «creatura».

L’ultima glaciazione

Quando nel 1846 saluta le Alpi e s’imbarca per il nuovo mondo, Agassiz ha aperto la strada a una nuova interpretazione della storia della Terra, convincendo se stesso e pochi altri scienziati elvetici che la Svizzera un tempo sia stata un posto simile alla Groenlandia dei loro giorni. Un’enorme coperta di ghiaccio formatasi sulle vette si è inspessita e allargata al punto da occupare la porzione nord-occidentale dell’altipiano. Il fronte congelato ha raggiunto i versanti meridionali del Giura, che forse sono riusciti ad arginarne la cavalcata.

Venne improvviso un gelo che intorpidiva ogni cosa vivente – scrive il padre della glaciologia –. Non v’era più luogo ove la Terra offrisse protezione alle sue creature contro l’onnipotenza del gelo. Ovunque fuggissero, nei recessi delle montagne in cui prima usavano rintanarsi e trovare rifugio, nel cuore folto della foresta, dappertutto soccombevano alla potenza dell’agente sterminatore... In breve una coltre di ghiaccio ricoprì le superfici della Terra e avvolse nel suo rigido sudario i resti degli organismi che fino a un attimo prima vivevano lieti sulla sua pelle.

Non solo le Alpi, ma anche estese terre oggi verdi e boscose come le isole britanniche, la Scandinavia e il Nord America sarebbero state ricoperte da spesse coperte bianche. La teoria svizzera si allinea alle intuizioni di studiosi europei contemporanei come il geologo danese-norvegese Jens Esmark, altro pioniere della glaciologia, il botanico svedese Göran Wahlenberg e il botanico e poeta tedesco Karl Friedrich Schimper, che è il primo a introdurre il termine Eiszeit per definire un’«era» o un’«epoca glaciale». Nella seconda metà dell’Ottocento, approfondendo l’osservazione dei terrazzi alluvionali e dei sistemi morenici, gli studiosi della Terra capiscono che non si è trattato di un singolo evento ma di ripetute fasi di espansione e contrazione del ghiaccio. Gli strati dei suoli recano testimonianze alterne di piante e animali appartenenti ad ambienti prima freddi e poi temperati, chiaro indicatore dei ciclici cambiamenti del clima. Non c’è dubbio che siano esistite fasi gelide interrotte da periodi più caldi, ma come stabilire i tempi delle ere glaciali e degli intervalli miti? E come rapportarli alle glaciazioni vere e proprie?

Già nel 1842, grazie al matematico francese Joseph-Alphonse Adhémar, si è fatta strada l’ipotesi di un legame tra le mutazioni del clima e l’irraggiamento solare condizionato dall’attrazione dei pianeti sulla sfera terrestre. È stato il primo approccio a un rebus vertiginoso, uno dei grandi misteri della Terra e del cosmo, un problema scientifico ancora non del tutto risolto. Per quasi due secoli i ricercatori hanno indagato le cause, le dinamiche e i tempi delle ere glaciali e delle cicliche espansioni dei ghiacciai. Si sono formulate molte teorie e sono state esplorate diverse piste di ricerca, elaborando complessi calcoli senza arrivare a conclusioni univoche. Gli studi hanno stabilito che nell’andirivieni dei ghiacciai esistono fattori determinanti come la variazione dei gas serra nell’atmosfera, i movimenti delle placche tettoniche, l’attività vulcanica, l’inclinazione dell’asse terrestre, l’oscillazione dell’orbita solare e altre influenze cosmiche. Nel 1909 il geografo tedesco Albrecht Penck ha finalmente proposto una cronologia delle quattro glaciazioni pleistoceniche alpine, all’incirca tra 680.000 e 15.000 anni fa, battezzandole Günz, Mindel, Riss e Würm. La classificazione di Penck ha avuto molta fortuna in Europa, anche se oggi mostra dei limiti perché non rende conto delle differenze a livello planetario. Dopo quasi due secoli di ricerca si sanno moltissime cose sui ghiacci del passato e altre restano da dimostrare. Il glaciologo artico Peter Wadhams, uno dei più autorevoli studiosi degli ultimi decenni, ammette onestamente che «dai dati in nostro possesso sembra che il punto di partenza delle glaciazioni moderne risalga alla fine del Pliocene (intorno a 2,6 milioni di anni fa), tuttavia non siamo esattamente sicuri di quante glaciazioni vi siano state. I dati provenienti dall’analisi delle carote di ghiaccio, che coprono un milione di anni, contengono sei o sette glaciazioni, il che ci fa ipotizzare che possano essercene state fino a venti in totale...».

Le evidenze scientifiche crescono avvicinandosi agli ultimi centomila anni e si concentrano sulla più recente discesa dei ghiacci, la cosiddetta glaciazione di Würm, di cui leggiamo ancora i segni impressi sul territorio. È stata la quarta del Pleistocene, prima epoca del Quaternario; iniziata circa 110.000 anni fa, si è esaurita da circa 15.000 anni, toccando l’apice cinque millenni prima. Un recente studio genetico dell’Università di Uppsala ipotizza che sia costata l’estinzione all’Uomo di Neanderthal.

Würm prende il nome dal fiume della Germania meridionale che avrebbe segnato l’estrema avanzata del ghiaccio in Centro Europa, durante il lungo inverno che segnò temperature così basse da spingere i ghiacciai nell’attuale zona temperata, soprattutto nelle distese continentali dell’America e dell’Eurasia. L’America del Nord e il Canada furono quasi completamente ricoperti dal ghiaccio e l’Oceano Artico rimase imprigionato da un sottile strato di ghiaccio, anche se probabilmente non gelò mai del tutto. L’ingente quantità d’acqua evaporata dagli oceani e depositatasi per millenni sulla terra sotto forma di neve e ghiaccio, perdendo volume con le basse temperature provocò un abbassamento dei mari.

In Scandinavia emergevano solo le zone occidentali dello Jutland. La maggior parte delle isole britanniche era sepolta. Le pianure dell’Europa occidentale e centrale avevano assunto l’aspetto nordico della steppa o della tundra. Le Alpi mostravano compatte calotte glaciali e allungavano i loro fiumi di ghiaccio per centinaia di chilometri; tutte le valli erano coperte dai ghiacciai, che talvolta superavano i mille metri di spessore. Il ghiacciaio del Rodano copriva l’altipiano occidentale della Svizzera, raggiungendo gli attuali cantoni di Soletta e Argovia; il ghiacciaio del Monte Bianco riempiva la Valle d’Aosta e colmava l’anfiteatro di Ivrea; i ghiacciai meridionali preparavano i bacini dei grandi laghi, con un paesaggio simile alle attuali isole Svalbard e alle lagune patagoniche. La Pianura Padana era coperta di arbusti e conifere, diventando steppa ai piedi delle Alpi. Ovunque il ghiaccio rimodellava i territori e cancellava le tracce superficiali delle precedenti glaciazioni, scavando nuovi solchi, costruendo morene e ridepositando le ghiaie attraverso i torrenti e i fiumi.

La glaciazione si è esaurita intorno a 14.700 anni fa, quando le temperature hanno cominciato a risalire. Dopo una fredda recrudescenza di circa 1300 anni, il Dryas recente, il disgelo ha imposto la sua legge provocando valanghe d’acqua. Con la fusione dei ghiacci i fiumi hanno assunto dimensioni e portate apocalittiche, l’acqua ha invaso le terre basse e su molte regioni si è rovesciato il diluvio. «Secondo alcuni modelli matematici – afferma Henry Patton dell’Arctic University – l’acqua che arrivava in mare era il doppio di quella del Rio delle Amazzoni, forse anche molta di più». Parte dei ghiacci è confluita direttamente nei mari e negli oceani, ma la parte che si è fusa sulla terraferma ha originato disastrose inondazioni. In pochi secoli il livello dell’acqua marina si è alzato di circa venti metri e molte coste sono state sommerse. Come i ghiacciai avevano rimodellato le valli e le pianure, la forza trascinatrice delle acque è riuscita a disegnare nuove geografie.

Con l’Olocene, l’ultima epoca della Terra prima del cosiddetto «Antropocene», che è il tempo attuale, il clima si stabilizza e garantisce le premesse per una nuova civiltà. I ghiacciai si ritirano sulle cime delle montagne, la natura inventa inattesi habitat e l’uomo prende possesso di territori sconosciuti.