XIV.
Ghiacci mistici
e crepacci assassini

L’idea dell’Alpe homicide che titola e indirizza i racconti di Paul Hervieu, si è dimostrata, nel tempo, una delle più dure a morire. In verità non è morta affatto, ma si è rinnovata e fortificata nel linguaggio giornalistico e drammaturgico del Novecento, dapprima sorretta dall’immagine eroica della Grande Guerra, del sacrificio degli alpini, dell’identificazione delle Alpi con l’altare della patria, poi sublimata nella fortunata stagione del Bergfilm di Arnold Fanck, Luis Trenker e Leni Riefenstahl, infine banalizzata dalla letteratura alpina e alpinistica del Ventennio, che, sovrapponendo la figura dello scalatore a quella del combattente, ha riacciuffato con la piccozza la retorica perduta del moschetto.

Il Bergfilm nasce in Svizzera durante la prima guerra mondiale, si sviluppa nella seconda metà degli anni Venti e trova spazio nei paesi vicini. In Francia resta un genere marginale, e anche in Italia, ma l’Italia partecipa a produzioni internazionali tra cui Der Kampf ums Matterhorn (La grande conquista, 1928) di Nunzio Malasomma e Mario Bonnard, dedicato alla conquista romanzata del Cervino. In Germania e in Austria il genere assai caro al regime nazista trionfa fino alla seconda guerra mondiale. I primi film sono opera del geniale regista tedesco Arnold Fanck, con titoli come Im Kampf mit dem Berge («Sfida alla montagna»), Der Berg des Schicksals («La montagna del destino») e Die weisse Hölle vom Piz Palü («La tragedia del Pizzo Palù»). Vi lavorano in qualità di attori la futura regista Leni Riefenstahl e talvolta lo stesso Trenker, ottimo alpinista, uomo di cinema e sport, cittadino illustre di Ortisei in Val Gardena.

Christian Arnoldi sintetizza nella triplice simbologia della neve, delle nuvole e del ghiaccio gli ingredienti del Bergfilm. Unendoli si ottiene la bianca metafora:

La neve uniforma il paesaggio – scrive Arnoldi –, elimina le differenze formali assottigliandole e ammorbidendole fino a farle scomparire, modifica le dimensioni spazio-temporali... La neve produce ai nostri occhi un effetto di copertura, di trasfigurazione, di annullamento delle forme in una vaga non-forma priva di significato ma che rimanda a un distacco dalla vita... come i veli della leggenda.

Il ghiaccio è l’altro simbolo del paesaggio d’alta quota, con scenografie indimenticabili, quasi mistiche, spesso realizzate in studio con grande tecnica e gusto estetico. Resta indimenticabile la cattedrale di ghiaccio di Der heilige Berg (La montagna dell’amore), un gelido santuario in cui l’irraggiungibile Diotima (Leni Riefenstahl) porta alla follia e alla morte i due spasimanti.

«Le armonie e le simmetrie del ghiaccio – continua Arnoldi – evocano un ordine e una dimensione surreali, fantastici, legati al duplice carattere dell’acqua che si colloca all’incrocio tra il mondo informale e quello formale, tra il precipitare vertiginoso e la sospensione nel vuoto. Questi aspetti inducono a considerare il ghiaccio una sostanza misteriosa, addirittura magica, e le sue strutture architetture celesti.» Ne consegue che i Bergfilm rappresentino «un terreno privilegiato per l’archeologia dell’immaginario alpino», perché contengono i motivi figurativi e simbolici che stanno alla base «della glorificazione e della mistificazione delle Alpi», generando la curiosità, lo stupore e l’attrazione del pubblico elvetico e tedesco verso l’idea astratta e rarefatta dell’alta montagna. Questo riguarda soprattutto l’ambiente culturale situato tra la Svizzera, la Germania, l’Austria e il Sud Tirolo, mentre altrove i simboli delle Alpi si annacquano in rappresentazioni più prosaiche e commerciali. Il fascino etereo dei ghiacciai non traspare sulle copertine delle riviste illustrate del Novecento italiano, o sui quotidiani ad alta diffusione, perché si crea una frattura irriducibile tra la cultura specialistica, appannaggio degli alpinisti, e la riproduzione della montagna a uso dei grandi media, per nulla interessati alle forme stilistiche dell’alpe e alle relative funzioni etiche ed estetiche, ma molto attratti dai caratteri spettacolari e morbosi delle vette, con una predilezione sempre più spiccata e perversa verso la tragedia: montagne assassine, valanghe killer e crepacci vendicatori.

Se il motivo ispiratore degli scrittori e dei registi di montagna mantiene un robusto cordone ombelicale con la radice romantica, in una perenne e irrisolta contrapposizione tra il mondo delle altezze e il mondo della città, nell’immaginario collettivo prevale la montagna eroica o spettacolarizzata, forse altrettanto finta di quella romantica, ma per ragioni opposte. Predominano gli elementi esasperati dello sfarzo, del bel gesto, della velocità, del rischio a buon mercato. Le nevi e i ghiacciai diventano i set di vicende divertenti e improbabili, come nelle ambientazioni di certi film di James Bond o nei dozzinali lungometraggi dedicati all’abominevole uomo delle nevi e a mostri similari, ignari portatori di ogni sorta di luogo comune:

... la solita spedizione vola in Tibet per cercare l’uomo delle nevi – ironizza Leonardo Bizzaro –, che nel frattempo rapisce la moglie di una guida locale, portandola chissà dove. Se ne perdono le tracce sui ghiacciai e nella sceneggiatura. Inseguito dagli esploratori, il bestione si appoggia ansante alla montagna e provoca un terremoto. Catturato, finisce impacchettato, ma riesce a liberare una zampa... Una bastonata lo tranquillizza. Si parte per Los Angeles, a mollo nel ghiaccio lo portano al museo. Ma il freddo è il suo ambiente naturale, la snow creature si sveglia e se ne va. Per strada rispetta il solito copione della Bella e la Bestia, seduce un paio di fanciulle, si rifugia in un altro frigorifero, finché tre colpi di pistola accomunano il suo destino a quello di King Kong.

La prigione di ghiaccio

Sorretta da alcune storie veramente accadute, la trappola del crepaccio è una situazione molto cara alla letteratura alpina e al cinema. Si inizia con il più classico e il più discusso degli sprofondati, Eugen Guido Lammer, il professore viennese mitizzato dalle generazioni eroiche e sbeffeggiato dalla contestazione degli anni Settanta, che un giorno cade in un crepaccio delle sue montagne e ne esce solo, senza aiuti esterni, più forte ed esaltato che mai. Si continua con la guida alpina della Valfurva Severino Compagnoni, che sopravvive quattro giorni e quattro notti nel fondo di un crepaccio del Cevedale, e che tutti danno per morto, finché i colleghi lo trovano e lo salvano increduli, come in un miracolo.

La trappola del crepaccio «scalda» le trame di alcuni racconti di genere, a cominciare dal romanzo per ragazzi La piccola guida alpina di James Ramsey Ullman, che è stato ripreso dalla Disney nel film La sfida del terzo uomo. Anche la copertina del libro ha un taglio hollywoodiano in cui campeggia un ragazzo biondo con gli occhi azzurri, piccozza in pugno e corda a tracolla, sullo sfondo di un picco roccioso con bandiera rossa spiegata al vento dei quattromila. Non si tratta di una rivisitazione marxista dell’alpinismo, bensì dell’ennesima versione romanzata della conquista del Cervino, con alcuni riferimenti alla storia vera, alcuni errori e molta fiction. Il protagonista del romanzo è inventato e si chiama Rudi Matt, che è un’abbreviazione di Matterhorn, il nome svizzero del Cervino. Nelle prime pagine del libro Rudi tira fuori un certo John Winter (Edward Whymper) da un crepaccio del Gornergletscher. L’indomito figlio della montagna lega la camicia al bastone ferrato per sollevare l’incauto straniero, e siccome camicia e bastone non bastano si toglie anche i pantaloni e si sporge nel vuoto seminudo, stravolto, a pancia molle sulla neve...

La situazione si ripete ne La grande crevasse di Roger Frison-Roche, che è il seguito di Premier de cordée, uno dei più fortunati romanzi di montagna del Novecento. Un milione di copie vendute. Primo in cordata racconta il duro percorso di formazione della guida alpina nel tradizionale milieu di Chamonix, ai piedi del Monte Bianco, e nel seguito della storia l’autore inscena la morte del protagonista in fondo a un buco di ghiaccio: «Sporgendosi sul bordo del buco i soccorritori sondano il vuoto... Paul Mouny si è chinato su Zian, passa la mano sui vestiti duri e gelati, tocca la carne fredda, gli cerca il cuore...».

Nel 1999 una pregevole produzione transalpina propone la versione televisiva, con il vecchio Giuliano Gemma degli spaghetti western. La miniserie s’intitola Tormenta d’amore e si basa su un ragionevole intreccio tra sentimenti, ambienti e azioni. Bianca Ruspoli è una ricca ragazza di città, Zian Servettaz è un’ottima guida come suo padre, ma l’invidia dei montanari semina zizzania tra i giovani sposi e li separa. In un impeto di rabbia lui parte per cacciare lo stambecco tra le Aiguilles de Chamonix e il ghiacciaio lo inghiotte. Gli amici impiegano dei giorni a scoprire dov’è sepolto, perché il ragazzo è partito solo e ha cambiato strada all’ultimo momento. Dopo essere precipitato nel crepaccio ha provato due volte a scalare le pareti di ghiaccio, e per due volte è ripiombato nella neve a faccia in giù. Nel film lo trovano che è sera: Bianca si cala a corda doppia nel vuoto per abbracciare il marito congelato.

Il crepaccio vendicatore

Il gioco si fa duro, ma anche imprevedibile e originale, nel racconto Pitzadura bat elur izoztuan (Un crepaccio nella neve ghiacciata) del poeta e drammaturgo basco Bernardo Atxaga, al secolo Joseba Irazu. Il crepaccio himalayano ai piedi dell’Everest e del Lhotse diventa lo strumento di una terribile vendetta amorosa:

A Philippe Auguste Bloy facevano male sia la gamba rotta sia la profonda ferita al costato. Ma, anche così, stava per addormentarsi; il sonno provocato dal freddo all’interno del crepaccio era più forte del dolore, più forte di lui. Non riusciva a tenere gli occhi aperti. E sentiva già quel senso di calore che sempre precede la morte dolce dei congelati...

Preoccupato di non riuscire a distinguere l’oscurità del crepaccio dall’oscurità del sonno, non si accorse delle corde che, gettate dall’alto, erano cadute sui suoi scarponi. E nemmeno vide l’uomo che, dopo essersi calato, si era inginocchiato accanto a lui.

Quando questi lo illuminò con la torcia, Philippe Auguste si sollevò con un grido...

Il «salvatore» è Mathias Reimz, un alpinista ginevrino che compare in tutte le enciclopedie per aver scalato il Dhaulagiri. In realtà Reimz non intende affatto soccorrere Bloy, al contrario gli rivela di averlo sorpreso molte volte in compagnia della moglie Vera, in fotografia. Li ha colti mano nella mano all’hotel Ambassador di Monaco, al Tivoli di Zurigo, a Ginevra e sul Lago di Losanna.

Ci ho pensato su parecchio, Phil. Non sono un assassino. Stavo male ogni volta che pensavo di ucciderti. Fui sul punto di farlo a Kathmandu. E anche dopo l’atterraggio a Lukla. Ma quelli per me sono luoghi sacri, Phil, e non volevo sporcarli col tuo sangue. Senza dubbio, la Montagna ti ha giudicato al posto mio, Phil, ed è per questo che adesso ti trovi qui, perché ti ha condannato. Non lo so se ti ucciderà, non lo so. Magari resisti fino all’alba e gli altri della spedizione riusciranno a salvarti. Ma credo di no, Phil, credo che tu rimarrai dentro questo crepaccio per sempre. Per questo sono venuto, perché non lasciassi questo mondo senza sapere quanto ti odio.

Detto questo Mathias risale verso la superficie del ghiacciaio, abbandonando la sua vittima nell’abisso, tra buio e disperazione. Sapendolo ferito e indebolito, diabolicamente lascia le corde fisse nel crepaccio. Vuole ucciderlo anche con l’illusione.

Le ferite lo facevano gemere, ma sapeva che una sofferenza ben più grande, la più terribile, lo aspettava là nel fondo. Stringendo i denti, Philippe Auguste agguantò le corde e cominciò a salire, lentamente, cercando di non urtare le pareti ghiacciate.

La descrizione si fa alpinistica, con gli elementi classici del genere: la slavina che fa perdere l’equilibrio al malcapitato, il dolore, le mani gelate, la rabbia, le allucinazioni, e poi finalmente il cielo.

Un nuovo giorno stava illuminando il Nepal... Philippe Auguste, respirando l’aria tersa del mattino, sentì i polmoni tornare in vita. Spalancò le braccia al cospetto di quell’immensità e, sollevando le braccia verso il cielo azzurro, mormorò parole di ringraziamento alla Montagna.

Lieto fine? Giudicate voi:

Gli parve che le braccia che aveva spalancato si contraessero nuovamente e che, senza volerlo, lo abbracciassero. Ma chi lo stava abbracciando?

Abbassò lo sguardo per vedere e una smorfia di terrore gli si dipinse in volto. Mathias Reimz stava di fronte a lui. E stava ridendo.

– Non bisogna ingannare le persone, Phil, – gli udì dire poco prima di sentire la spinta.