IX.
Il Titanic,
gelida disillusione

Frederick Hamilton-Temple-Blackwood, marchese di Dufferin e Ava, è un diplomatico britannico discendente da una nobile famiglia scozzese. Nel 1856, a trent’anni, si regala un viaggio nel Nord Atlantico. Lord Dufferin salpa con lo schooner Foam, sale verso le latitudini fredde e naviga le coste dell’Islanda e della Norvegia fino all’isola Spitsbergen. Al ritorno pubblica un racconto di viaggi, Letters From High Latitudes, in forma di «dramma nautico». Il libro ottiene un enorme successo di pubblico ed è tradotto in francese e in tedesco. Sprofondati in poltrona con le pantofole ai piedi e una caramella in bocca, i lettori vivono le avventure e immaginano i paesaggi di un mondo gelato:

Ciò che colpiva erano l’immobilità di morte – scrive il marchese – e l’irraggiungibilità del nuovo mondo in mezzo a quei ghiacci, a quelle rocce e alle acque che ci circondavano. Neanche il più piccolo suono spezzava il silenzio; il mare non si frangeva sulla costa; non si vedeva un uccello o forma di vita alcuna; il sole di mezzanotte velato da una foschia trasparente conferiva a monti e ghiacciai un lustro misterioso e terribile; non un atomo di vegetazione parlava di vita sulla terra; torpore e stupore sembravano pervadere la solitudine.

Attraverso i racconti di lord Dufferin e di altri viaggiatori narratori prende corpo il fascino delle regioni polari, avvalorato a breve dalle esplorazioni dei pionieri. I lettori si creano un’immagine del mondo completamente opposta al sogno della civilizzazione, che proprio per questo attira le fantasie borghesi tra Ottocento e Novecento. Il mito della wilderness e il mito del progresso crescono su binari paralleli fino alla vigilia della prima guerra mondiale, quando si scontrano inesorabilmente in un punto della rotta nord-atlantica, qualche minuto prima della mezzanotte di domenica 14 aprile 1912.

Lo scontro ha la pesantezza di un iceberg staccatosi dalla fronte di un enorme ghiacciaio groenlandese: lo Jakobshavn glacier. Ci sono molti altri blocchi di ghiaccio che galleggiano sulla rotta inaugurale del favoloso Titanic, la nave del futuro, la meraviglia della tecnologia, il gioiello britannico salpato in gran pompa da Southampton e diretto a New York, ma basta un iceberg a colpire a morte il transatlantico affondandolo come un fuscello. Millecinquecento persone non vedono l’alba del lunedì.

La montagna galleggiante

L’iceberg che affondò il Titanic avrebbe potuto benissimo ignorare la grande nave, oppure colpirla in pieno. Dipendeva solo dalla casualità delle correnti. Invece la prese di striscio, trafiggendola al fianco.

Nella primavera del 1912 erano almeno due anni che l’iceberg, cioè la «montagna di ghiaccio», navigava nei mari del Nord. Un giorno qualunque di due o tre anni prima si era staccato dal suo ghiacciaio e dalla terraferma, affrontando il mare aperto. Galleggiando sull’invisibile corpo sommerso aveva cominciato ad andare alla deriva negli stessi mesi in cui il transatlantico prendeva forma, lasciava il cantiere navale e scivolava anche lui in mare per collegare l’Europa e l’America.

La prima parte del viaggio era andata via liscia e spensierata. Era una notte stellata. Calma piatta fino all’ora dell’incidente. «Non c’era la luna – ricorda un passeggero nel resoconto di Geoffrey Jules Marcus – e non avevo mai visto le stelle brillare più luminose; sembrava che volessero staccarsi dal cielo. Era una di quelle notti in cui ci si sente felici di essere al mondo.»

Da quando era scesa l’oscurità i piloti del Titanic stavano procedendo a vista in alto mare, senza binocoli. Sapevano quanto fosse difficile indovinare un fantasma di ghiaccio in una notte senza luna e cercavano di tenere gli occhi aperti. Non potevano fare altro che confidare nella buona sorte, non nella certezza della tecnica, perché gli armatori della nave non avevano mai assicurato che il Titanic fosse inaffondabile. Lo credevano i passeggeri, s’era sparsa quella voce, ma era una falsa notizia. L’aveva strombazzata qualche giornale per vendere più copie, enfatizzando i sedici compartimenti stagni e altre magie dell’ingegneria navale. Probabilmente i passeggeri pensavano che fosse la nave più sicura del mondo e l’equipaggio non si faceva troppe domande. In verità, il transatlantico era un gigante di cristallo e non poteva competere con l’iceberg che gli veniva incontro.

Quando la vedetta avvista una silhouette minacciosa che si staglia contro il vago profilo dell’orizzonte è ormai troppo tardi per deviare la rotta.

«Iceberg dritto a prua! Iceberg dritto a prua!», urla l’uomo di guardia.

Allora l’addetto di turno suona tre volte la campana e il primo ufficiale ordina una virata estrema a sinistra, «macchina indietro tutta!», «macchina indietro, per Dio!», santo cielo si va a sbattere. Eppure, quando la fiancata destra sfiora l’isola galleggiante i manovratori respirano: «Forse ce l’abbiamo fatta», sussurra un marinaio. Ma l’iceberg non è quello che emerge dall’acqua: il novanta per cento naviga sotto il livello del mare. Così la montagna subacquea taglia i pannelli d’acciaio del Titanic e l’imbarcazione comincia a imbarcare acqua gelida, mentre qualche passeggero si diverte a giocare con le palle di ghiaccio rotolate sul ponte e qualcun altro usa il ghiaccio per rinfrescare l’ultimo drink.

Fino al momento dell’impatto gli ignari viaggiatori, e forse perfino i responsabili della navigazione, non s’erano accorti di navigare in un labirinto di ghiacci. Adesso non si accorgono che il ghiaccio è entrato nella pancia del transatlantico e ha superato le paratie impermeabili. Invece è già dentro la nave e al fondo dei loro destini. La tragedia del Titanic è una drammatica storia di ghiaccio, o meglio di sottovalutazione del ghiaccio da parte di protagonisti e vittime: armatori, capitani, ufficiali e naviganti tutti. Abbagliati dalle meravigliose sorti della tecnica, si sono scordati le leggi della natura.

«Era una di quelle notti in cui ci si sente felici di essere al mondo...» C’è una sospensione ambigua e fantastica nell’istante dell’impatto. Come lo stupore di un incontro irreale. Lo storico inglese Richard Davenport-Hines nota che non si trattò certo di un momento eccezionale, e che «non aveva l’aria di un evento storico. Un grosso blocco di ghiaccio si staccò da un ghiacciaio e con un potente boato precipitò in un fiordo... inclinandosi e capovolgendosi sulle acque fino a stabilizzarsi in posizione di equilibrio». Davenport-Hines precisa che la deriva degli iceberg «è determinata moltissimo dalle correnti e pochissimo dai venti. Di quelli partiti dall’Islanda alcuni vengono spinti dalla corrente groenlandese orientale oltre Capo Farewell, dove insieme a migliaia di altri, generati dai ghiacciai occidentali, prendono a navigare verso la Baia di Baffin, dove vengono intercettati dalla Corrente del Labrador che li trascina a sud...». Di solito a sud di Terranova navigano fra i trecento e i trecentocinquanta iceberg e solo una cinquantina supera i bassi fondali dei Grandi Banchi. I più imponenti percorrono anche 2500 miglia prima di consumarsi al sole del 40° Parallelo.

L’inverno artico a cavallo tra il 1911 e il 1912 fu eccezionalmente mite e il caldo favorì il distacco degli iceberg dai ghiacciai affacciati sulla costa occidentale della Groenlandia. In mare navigavano iceberg più grandi del solito e fondevano più lentamente del previsto. «Nell’aprile del 1912 l’Atlantico era particolarmente ricco di montagne galleggianti – scrive ancora Davenport-Hines –. Nei mesi di febbraio e marzo violente tempeste avevano flagellato il versante atlantico settentrionale di Terranova: l’Erna, una nave da tremila tonnellate specializzata nella caccia alle foche, era scomparsa con a bordo trentasette uomini, e dopo due mesi di lotta per raggiungere Terranova dal Portogallo il Maggie, uno schooner semidistrutto, pieno di falle e con un morto a bordo, era rimasto miseramente imprigionato e schiacciato dal pack alla deriva.» Ai primi di aprile l’oceano è disseminato di relitti fluttuanti e almeno un migliaio di iceberg ha raggiunto i Grandi Banchi di Terranova. I più resistenti corrono a venticinque miglia giornaliere verso le rotte navali del Nord Atlantico.

Un piccolo sobbalzo

Insomma, il Titanic si è trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato, anche se si è molto discusso sul fatto che furono ignorati i segnali di allerta e che il comando non prese abbastanza sul serio il potenziale pericolo. Anche dopo l’impatto con la montagna di ghiaccio si sottovalutò la gravità del danno e non si ordinò tempestivamente l’evacuazione della nave. Le scialuppe di salvataggio erano insufficienti. La maggior parte dei passeggeri stava dormendo o si stava preparando alla notte. Qualcuno nelle cuccette percepì una scossa sul fianco del transatlantico, solo un piccolo sobbalzo, ma quasi nessuno si rese conto di avere urtato un iceberg. Quasi nessuno era addestrato ad abbandonare la nave in tempi rapidi. La visibilità era scarsa a causa del buio. Sul ponte e nei corridoi esterni del transatlantico faceva molto freddo. L’acqua del mare era gelida e un uomo moriva assiderato in pochi minuti. L’insieme di questi elementi portò alla tragedia: delle 2200 persone che si trovavano a bordo morirono oltre 1500 persone, di cui oltre 700 passeggeri.

Esattamente com’era avvenuto molti anni prima con i ghiacciai alpini, l’affondamento del Titanic suggerì alcune letture moralistiche. Era fin troppo facile attribuire la disgrazia alla lussuria e all’ignavia dei passeggeri, inventando resoconti intransigenti e castigatori: mentre gli ospiti della lussuosa e per molti versi scandalosa nave britannica, tra i più ricchi al mondo, bevevano, fumavano, ballavano e facevano l’amore... un iceberg colpiva la loro indifferenza e in una notte buia e senza Dio il Titanic, già soprannominato l’Inaffondabile, colava a picco seppellendo centinaia e centinaia di vite nelle acque dell’oceano.

Eppure c’erano molte creature innocenti a bordo. Per esempio, Elizabeth Gladys «Millvina» Dean era solo una neonata, la più giovane passeggera del Titanic, e certamente non stava né bevendo né ballando. Sopravvissuta al naufragio, ha vissuto quasi cent’anni, fino al 31 maggio del 2009. Nel 1912 i genitori di Millvina avevano deciso di lasciare l’Inghilterra per cercare fortuna a Wichita, nel Kansas, dove speravano di aprire una tabaccheria e fare un po’ di fortuna. Si erano imbarcati sul transatlantico come passeggeri di terza classe; Millvina aveva due mesi, suo fratello Bertram due anni. Quando il padre avvertì la collisione capì che c’era qualcosa che non andava; fu tra i pochi passeggeri a intuire la gravità della situazione. Ritornò in cabina e disse alla moglie di vestire i bambini e salire immediatamente sul ponte. Millvina, la madre e il fratello furono imbarcati su una lancia di salvataggio e lasciarono in tempo la nave, salvandosi. Il padre morì in mare. I tre superstiti arrivarono in America senza vestiti, senza un soldo e nemmeno una valigia. Madre e figli vennero ricoverati all’ospedale di San Lucas a New York, dove la mamma di Millvina decise di tornare in Inghilterra. Qualche giorno dopo salirono a bordo dell’Adriatic e ripresero il mare.

La punta dell’iceberg

Probabilmente il mondo scoprì l’esistenza degli iceberg con la tragedia del Titanic e li conobbe nei giorni del disastro, quando gli esperti spiegarono al grande pubblico che si trattava di creature misteriose e insidiose perché nascondevano la maggior parte di loro stesse. Da allora gli iceberg entrarono nell’immaginario collettivo, si istituirono delle unità di vigilanza per la navigazione e si monitorarono le montagne galleggianti. Il più grande iceberg avvistato nell’Artico misurava 168 metri sopra il livello del mare ed era alto quanto un edificio di 55 piani, che vuol dire che sott’acqua nascondeva circa un chilometro e mezzo di ghiaccio e che complessivamente la dimensione della «montagna» si avvicinava alla massa del Cervino, anche se il ghiaccio emergente era inferiore al tratto di cresta che dalla spalla italiana, il Pic Tyndall, porta alla cima. Affiorava solo il triangolo sommitale della famosa piramide rocciosa. Solo gli ultimi passi dell’ascensione, dove la guida alpina dice al cliente «tieni duro, ancora un piccolo sforzo e ci siamo». Soltanto la punta dell’iceberg.

Da allora s’insegnò ai bambini che l’iceberg è una cosa che si vede e non si vede, un trucco da prestigiatore, e l’immagine ha avuto successo perché in fondo è la metafora della vita. Ognuno di noi è un iceberg, tutti mostriamo solo una piccola porzione di noi stessi, e come i blocchi di ghiaccio che navigano i mari gelati esibiamo la parte più svettante e accattivante, che è anche la più ingannatrice: la punta dell’iceberg. Il vero di solito si cela sotto la superficie delle persone e delle cose, non si mostra in pubblico, non si legge sui giornali, non appartiene alla sfera del visibile ma a quella dell’invisibile.

C’è un altro argomento che rende misteriosa e fatale la vita di un iceberg: l’effimerità. Come ogni oggetto di ghiaccio, anche l’iceberg più gigantesco è destinato a fondere e scomparire dalla faccia del mare, a tornare acqua, come se il Cervino un giorno si trasformasse in aria dileguandosi nel cielo della Valle d’Aosta e del Vallese. Alla vista gli iceberg sembrano cristalli, e infatti la parola cristallo viene dal greco κρύσταλλος, krýstallos, che vuol dire «ghiaccio», tuttavia sono dei liquidi allo stato solido.

La grandezza di un iceberg, la meraviglia, dunque anche la bellezza, sono contrapposte alla caducità di una materia effimera e transitoria. Le montagne galleggianti ci appaiono come sculture fantastiche, composizioni verdi azzurre d’incomparabile bellezza, possenti espressioni della natura estrema, ma sono pur sempre dei fantasmi. Basta il calore del sole primaverile a riportarli allo stato liquido e a cancellarli del tutto e per sempre senza lasciare traccia.