VI.
L’infatuazione romantica

Caspar David Friedrich è il figlio di un saponaio. Nato il 5 settembre 1774 in una decaduta cittadina del regno di Svezia, sesto di dieci figli e orfano di madre in tenera età, Friedrich è cresciuto sotto la rigida educazione protestante. La vita non gli ha fatto molti sconti. Nel 1794 si è iscritto all’accademia di Copenhagen e ha preso la strada della pittura, utilizzando l’arte del pennello per dare forma e colore alla ricerca dell’infinito: «Devo concedermi totalmente a ciò che mi circonda, unirmi alle mie nuvole e alle rocce per riuscire a essere quello che sono. La natura mi serve per comunicare con la natura e con Dio». Il pennello e la natura sono gli strumenti che usa per esplorare l’inesplorabile. «Fedele al vero sin nel minimo particolare, i suoi paesaggi hanno una religiosità malinconica e misteriosa. Colpiscono l’animo più dell’occhio», scrive di lui Schopenhauer.

Friedrich dipinge Il mare di ghiaccio tra il 1823 e il 1824, immaginando la poppa di una nave schiantata dal gelo. Il quadro è terribilmente angosciante e s’ispira alla fallita spedizione di sir William Edward Parry in cerca del passaggio a Nord-Ovest, un evento di cui si sono occupati i giornali di mezza Europa. A Friedrich interessa la simbologia del disastro, tanto che il sottotitolo dell’opera è Naufragio della speranza. Secondo Laura Messina «il Polo Nord, luogo inteso come succedersi di cicli vitali sempre uguali, come ossessiva reiterazione di giorni, stagioni, anni e secoli, diventa metafora dell’eternità di Dio. La ripetizione come annullamento temporale e spaziale. Il tentativo umano di penetrarne il mistero, quindi, è destinato a fallire».

Nella fantasia del pittore il mistero è incarnato dal gelo, e questa è la novità. Che sia la forza deflagrante de Il mare di ghiaccio in cui l’uomo si smarrisce fino alla follia, oppure la meravigliosa chimera innevata appesa al cielo del Watzmann dell’altro celebre dipinto di Friedrich, non c’è dubbio che la montagna e il ghiaccio siano diventati protagonisti e parlino alla sensibilità romantica. Se prima rocce e ghiaccio erano considerati elementi conturbanti degli equilibri naturali, antitesi al gusto classico dell’armonia, tra Settecento e Ottocento danno corpo al nuovo sentimento artistico esprimendone l’inquietudine, la sete di bellezza e la ricerca del sublime. Insieme alle turbinose cascate d’alta quota, cioè alle acque liberate dal sole, i seracchi e i crepacci delle Alpi calamitano i primi sguardi dei turisti di Chamonix, Zermatt e Grindelwald, e i ghiacci dei poli accendono fantasie selvaggiamente seducenti.

Il mostro che corre sul mare di ghiaccio

Poi arriva il dottor Frankenstein, che fingendosi Dio ha dato vita a una creatura mostruosa e infelice. Creatore e creatura s’incontrano tra i crepacci del Monte Bianco:

Era quasi mezzogiorno quando terminai la scalata. Per un po’ di tempo rimasi seduto sulla roccia che domina il mare di ghiaccio. Era ricoperta, insieme alle montagne tutte intorno, da una coltre di nebbia. A un tratto un vento impetuoso dissipò la nube: io discesi sul ghiacciaio. La superficie è molto ineguale, si solleva e si abbassa come le onde di un mare agitato ed è disseminata di profondi crepacci. La distesa di ghiaccio è larga poco meno di una lega, ma impiegai quasi due ore ad attraversarla... Il mio cuore, fino a quel momento afflitto, traboccò allora di un sentimento molto vicino alla gioia; esclamai: «Spiriti vaganti, se davvero vagate e non riposate nei vostri angusti giacigli, concedetemi questa vaga felicità, oppure portatemi con voi lontano dalle gioie della vita».

Mentre pronuncia queste parole il dottore intravede a una certa distanza la figura di un essere che avanza verso di lui a velocità sovrumana.

Superava d’un balzo i crepacci del ghiacciaio fra i quali avevo camminato con tanta cautela; anche la sua statura, mentre si avvicinava, sembrava superiore a quella di un uomo. Mi turbai, la vista mi si annebbiò e sentii di essere sul punto di svenire, ma subito mi ripresi grazie al vento freddo delle montagne. Quando la figura si fece più vicina (visione abominevole e tremenda), capii che si trattava del mostro da me creato...

Non è un caso che la geniale scrittrice ventenne Mary Wollstonecraft Godwin Shelley, moglie del poeta Percy B. Shelley, collochi sulla Mer de Glace l’appuntamento cruciale tra il dottor Frankenstein e il mostro che lui stesso ha messo al mondo. Nel 1816, durante un viaggio sulle Alpi svizzere e francesi in compagnia del marito e di George Byron, la Shelley è rimasta molto impressionata dal Monte Bianco e dal mare di ghiaccio. Appena due anni dopo, a Londra, dà alle stampe uno dei romanzi chiave della letteratura romantica e lo ambienta in buona parte tra quei ghiacci. La trama della storia è nota: l’ambizione folle di Victor Frankenstein ha partorito una creatura spaventosa e perdutamente infelice, troppo sensibile per ignorare un sorriso e troppo ripugnante per esserne ricambiata. Dopo disperanti delusioni d’amore, la dolcezza del mostro si trasforma in violenza verso l’umanità e in odio per lo scellerato creatore: «Ricordalo – urla al dottore sul mare di ghiaccio –, sono una tua creatura, dovrei essere il tuo Adamo e invece sono l’angelo caduto, che senza alcuna colpa tu allontani dalla gioia. Dovunque io vedo felicità perfetta, dalla quale io solo sono irrevocabilmente escluso. Ero pacifico e buono, ma l’infelicità ha fatto di me un demone...». Il disperato grido rimbomba vanamente tra le pareti dei Drus e delle Aiguilles de Chamonix, in uno dei luoghi più celebrati e frequentati dal nascente turismo alpino.

La storia non finisce lì perché Victor Frankenstein si rifugia in Irlanda, il mostro lo segue e uccide l’amico Henry, facendo ricadere la colpa sul protagonista. Una volta scagionato Victor torna in patria con il padre e sposa Elizabeth, ma anche la giovane è uccisa dal mostro la notte stessa della cerimonia e il padre di Frankenstein muore di dolore. Allora Victor segue le tracce dell’assassino fino al Polo Nord, dove incontra il capitano Walton che a breve troverà il mostro chino sul corpo del suo creatore, compiangendolo e rammaricandosi per il dolore causato. Interrogata sulle sue colpe, la creatura ribatte che ogni disgrazia è successa a causa dal disprezzo degli uomini e confida di voler morire. Sparire. Scende dalla nave e si avvia a nord tra i ghiacci. Nessuno lo vedrà mai più.

Come Friedrich, la Shelley vede nell’Artide l’annientamento della vita umana mentre sulle Alpi c’è spazio per la speranza e la poesia:

Il giorno successivo andai alle sorgenti dell’Arveiron, che nasce da un ghiacciaio che, dalla cima dei monti, avanzando lentamente, arriva a sbarrare la valle. Avevo davanti a me i fianchi scoscesi di enormi montagne e la gelida parete del ghiacciaio mi sovrastava; sparsi all’intorno c’erano pochi pini contorti e il silenzio solenne di questo magnifico salone delle udienze di Sua Maestà la Natura era rotto solo dal rumoreggiare delle acque, dalla caduta di qualche blocco di ghiaccio, dal tuono della valanga o dallo schiantarsi, riecheggiato da tutte le montagne, degli ammassi di ghiaccio che per l’opera silenziosa di leggi immutabili, di tanto in tanto si crepavano e si spaccavano come fossero giocattoli nelle loro mani. Queste scene sublimi mi donarono tutto il conforto che potevo ricevere...

È sempre il dottor Frankenstein che parla, ma potrebbe essere l’autrice stessa. Più che un’immagine da romanzo sembra il racconto di una vacanza sulle Alpi, inesauribile fonte di emozioni che scaturiscono dalla solitudine, dalla verticalità e dal mistero delle vette. Le cupe bellezze che fino a pochi decenni prima mettevano in fuga i montanari e tenevano lontani i cittadini si sono trasformate in rimedi dell’anima, proprio come aveva promesso Jean-Jacques Rousseau:

Sulle alte montagne dove l’aria è pura e sottile, la respirazione è più agevole, il corpo è più agile, lo spirito più sereno, i piaceri meno ardenti, le passioni più moderate. Le meditazioni assumono lassù un carattere grande e sublime, proporzionato agli oggetti che ci colpiscono, un non so che di quella dolce voluttà che non ha niente d’acre o sensuale. Si direbbe che, alzandosi oltre il soggiorno degli uomini, si lascino tutti i sentimenti bassi e terrestri, e che, a mano a mano che ci si avvicina alle regioni eteree, l’anima sia toccata dalla loro inalterabile purezza.

Il meraviglioso disordine

Dunque gli uomini d’arte e di lettere influenzati da Rousseau rovesciano la visione classica delle Alpi, scoprendo nei luoghi malfamati del passato il segno del bello e del sublime. Perché? Alla fine del Settecento le cascate e i ghiacciai alpini diventano ricercate mete di escursioni romantiche e destano la meraviglia dei viaggiatori, impreziosendo con «deliziosi orrori» i taccuini dei borghesi e le tele degli artisti che hanno la ventura di addentrarsi nelle valli. C’è una spiegazione?

La prima risposta sta nelle carrozze, nei bauli, nei lapis, nella carta da lettere e nella moda del viaggio in Italia: il Grand Tour. Già in epoca non sospetta l’itinerario della buona società inglese e tedesca valicava le Alpi per raggiungere le mete classiche del Bel Paese, diretto ai capolavori d’arte di Venezia, Firenze, Roma e Napoli. Certo, come spiega la storica delle idee Paola Giacomoni, i viaggiatori si guardavano bene dall’aprire le tendine delle carrozze, atterriti dai racconti di draghi e diavoli che popolavano le montagne, ma intanto erano costretti a penetrare quel mondo di misteri, come pellegrini che transitino a occhi chiusi nell’Inferno per raggiungere il Paradiso.

La seconda risposta sta nello sguardo, che in un secolo così ricco di traumi e cambiamenti – il secolo della Rivoluzione – è quasi costretto a prendere atto della condizione disarmonica delle persone e dei luoghi, sostituendo la fissa monocromia della luce con la mutevole complessità del dolore, del conflitto, della solitudine e del dubbio. Giacomoni scrive che «la montagna è anzitutto rifugio per chi fugge da un presente infelice: rifugio tra i monti come ricerca di un’identità negata, che trova ambiente favorevole in uno spazio misterioso, inizialmente percepito come desolato e solitario, poi protettivo e incantato, arcano ma disposto ad accogliere positivamente un animo solitario». È interessante che sia «la natura in pezzi a rappresentare adeguatamente un cuore in pezzi», e «l’irregolarità a consentire di esprimere il conflitto e la lacerazione».

Di conseguenza la montagna appare come il paesaggio più adatto a rappresentare il complesso animo romantico. In questa sensibilità s’inseriscono l’interesse e il gusto per le rovine delle civiltà passate, sepolcri di vite rifiorite nel ricordo, tabernacoli di mondi in cui batterono i cuori di antiche passioni, e anche l’interesse e il gusto per il «disordine» alpino, fantastico insieme di rovine naturali. Le acque, le cascate e i ghiacciai sono gli eterni motori dell’archeologia della pietra.

A questo punto è una gara a chi è più bravo a «riscrivere» le montagne. Gli artisti, i viaggiatori e gli scrittori cercano le parole e i colori che consentono di tradurre lo spavento in bellezza.

Fra i pittori – nota Valentina Anker – Caspar Wolf è il primo a camminare in alta montagna: il suo Ghiacciaio di Lauteraar è basato su un disegno catturato sul posto, che nel 1775 gli ha ispirato un’illustrazione a colori per le Vues remarquables des montagnes suisses. I luminosi ghiacciai sono la passione di Wolf; e anche le grotte. Prima di lui, i ghiacciai erano macchie bianche per i cartografi, che li sistemavano a caso sui versanti delle valli. Ma Wolf ha veramente camminato, anche d’inverno, in queste solitudini, e il regno del bianco inizia grazie a lui a prendere forma. Nello stesso anno, Heinrich Wüest dipinge i ghiacciai del Rodano basandosi su vedute realizzate dal vivo.

Tra i primi viaggiatori disposti al cimento troviamo uno scienziato italiano, Alessandro Volta, che nel 1777 visita la Svizzera e scopre la magia dei ghiacciai:

Da lungi non sembrano gran cosa; ma discesi alle falde che spettacolo sorprendente e terribile! Spaccature nel ghiaccio, che son caverne, anzi abissi; rumore di un fiume di acqua torbida che ne vien fuori, scorrendo sotto archi e ponti della istessa massa soda di ghiaccio; monti, creste, torri, cucuzzoli di ghiaccio, qua bianco, là verdognolo (che tale è il colore che prende ove il sole dà nelle fenditure).

La popolarità dei ghiacciai è confermata dalle obiezioni di due illustri detrattori, due pesci controcorrente, che con il loro scetticismo avvalorano la moda dell’alpe. Il venticinquenne Georg W.F. Hegel visita le Alpi Bernesi nell’estate del 1796 e scrive ai piedi della Jungfrau:

Oggi abbiamo visto i ghiacciai da una distanza di più di mezz’ora di cammino, ma la loro veduta non offre nulla di particolarmente interessante. Si può solo dire che è un nuovo tipo di veduta, che però non offre nessun’altra occupazione allo spirito se non la constatazione di trovarsi nel pieno della calura estiva a così breve distanza da masse di ghiaccio che un caldo simile non riesce a fondere mentre alla stessa altitudine riesce a maturare le ciliegie.

Il 19 agosto 1805 il visconte François-René de Chateaubriand parte da Lione alla volta del Monte Bianco. Resta polemicamente deluso:

Chi è riuscito a scorgere diamanti, topazi, smeraldi nei ghiacciai è stato più fortunato di me: la mia immaginazione non è mai stata capace di ravvisare quei tesori. Le nevi in fondo al Glacier des Bois, mescolate con la polvere di granito, mi sono sembrate simili a cenere; in molti punti si potrebbe scambiare la Mer de Glace per una cava di calce o di gesso; solo i crepacci offrono qualche tinta del prisma, e quando gli strati di ghiaccio aderiscono alla roccia somigliano a vetri di bottiglia.

Dove batte la luna

I decenni passano e le perplessità sbiadiscono. Le montagne e i ghiacciai diventano un paesaggio culturale. L’afflato quasi disperato dei primi cantori delle Alpi si trasforma in comune sentire. Nel 1832 Alexandre Dumas abbandona una Parigi infestata dal colera per un viaggio di riposo in Svizzera, al cospetto delle Alpi favolose:

Ai nostri piedi la vallata di Lauterbrunnen, verde come uno smeraldo, disseminava le sue case rosse sul prato; in faccia, il magnifico Staubach, di cui scorgevamo le cascate superiori, meritava il nome di «polvere d’acqua»; a sinistra, la valle era chiusa dalla montagna nevosa da cui si precipita lo Schmadribach, come se il mondo finisse lì.

Charles Dickens, salutato il Lago Maggiore e le leggiadre Isole Borromee, una notte di novembre del 1845 attraversa il Passo del Sempione:

Lasciandosi dietro i tranquilli paesini italiani addormentati sotto la luna, la strada cominciò subito a serpeggiare tra alberi cupi; dopo un po’ sbucò sopra un pendio più spoglio, dove la luna batteva alta e luminosa... Proseguimmo tutta la notte per un tragitto difficile, salendo sempre più in alto senza un attimo di tedio: eravamo immersi nella contemplazione delle nere rocce, delle vette e degli abissi spaventosi, delle lisce distese di neve adagiate nei crepacci e nei calanchi, dei gagliardi torrenti che precipitavano rumorosi per profonde lontananze.

Tra il 1850 e il 1858 lady Eliza Robinson Cole viaggia tra la Svizzera e la Valle d’Aosta a piedi, in carrozza e a dorso di mulo. Valicando per la seconda volta il passo di Grimsel, dove solo qualche anno prima Agassiz organizzava le prime campagne tra i ghiacci dell’Oberland, la signora mischia spirito scientifico e curiosità turistica:

Non mi ero mai preoccupata di osservare i segni del ghiacciaio tra le nude rocce del passo... Gli spogli massi di granito apparivano ora assai interessanti: per tutta la strada fino a Grimsel recavano le tracce dell’azione dei ghiacciai e continuavano a costituire per noi motivo di scoperta. Queste rocce sono particolarmente adatte a tali osservazioni perché sembrano registrare le abrasioni del ghiacciaio.

A metà Ottocento si può dire formata la nuova coscienza alpina, ambigua mescolanza di scienza, sentimento romantico e spirito avventuroso. Anche la storia dell’alpinismo esplorativo, che si conclude nel 1865 con le ascensioni dello sperone della Brenva e del Cervino, confonde per lungo tempo la priorità del sapere e il desiderio di conquista. È ormai chiaro che i viaggiatori del Grand Tour, i tourists, trovino piacere a percorrere le Alpi, ma sembra che non possano farlo senza un alibi scientifico o una motivazione artistica. Scalare la montagna senza un taccuino di viaggio, un pennello o un barometro è come fare sesso senza amore.

Mesto ghiacciaio regale

La regina d’Italia Margherita di Savoia scopre la piana di Gressoney Saint-Jean sul finire degli anni Ottanta, se ne innamora e la sceglie come villeggiatura. Ogni estate l’amico barone Luigi Beck Peccoz, un gentiluomo vecchio stampo di origine svizzera, le cede galantemente la sua villa sulla riva del Lys, il torrente che porta il nome del giglio, e si ritira con discrezione in un’altra proprietà. Ogni mattina la regina assiste alla messa indossando il costume walser, oppure parte di buon’ora per la montagna. È un’ottima camminatrice.

La mattina del 22 luglio 1890 arriva a Gressoney da Ceresole Reale. È stanca per il viaggio notturno e imbronciata per le recenti pieghe politiche. Più intelligente ma ancora più reazionaria del marito Umberto, ha dovuto tollerare la proclamazione del primo maggio, festa dei lavoratori italiani, e anche i primi moti operai nella capitale. Eppure mostra un recupero che sbalordisce i valligiani, organizzando con il barone Peccoz l’ascensione della Testa Grigia. Vuole aspettare il sorgere del sole sulla cima, un terrazzo di pietra spalancato sui ghiacciai del Monte Rosa, e torna a valle al grido di «Viva la regina alpinista!».

Tre anni più tardi un manipolo di guide armate di portantina accompagna Margherita e le due marchese di Villamarina sul ghiacciaio del Lys e sulla Punta Gnifetti, a 4554 metri, passando a due passi dalla mitica Roccia della Scoperta. Le cronache raccontano che, soffrendo un po’ d’insonnia, la sovrana trascorse la notte nell’altissima capanna che porterà il suo nome. L’anziano teologo Farinetti, l’uomo che ha raggiunto per primo la Punta Gnifetti o Signalkuppe per piantarvi una bandiera rossa, commenta la regale impresa:

Se il 9 di agosto 1842 lassù qualcuno ci avesse detto che in un tempo non molto lontano su quella roccia, in mezzo a quelle nevi sarebbe sorto uno stabile edificio, che una donna, anzi una Regina d’Italia, vi avrebbe posto piede, vi avrebbe passata una notte, certo gli avremmo dato del pazzo, del visionario: eppure io debbo convincermi che non era una pazzia, che la visione è diventata una realtà. Io vedo con grande soddisfazione associati ora e per l’avvenire in modo inseparabile i due nomi della Regina Margherita e del venerato e caro mio amico e maestro Gnifetti; a quella è dedicata la nuova Capanna, a questi la roccia sulla quale è fondata.

Margherita di Savoia condivide con il barone Peccoz la vista dei ghiacciai che brillano sulla Valle del Lys. Al tramonto sembrano nuvole, ma all’alba viene voglia di salire quelle nevi. I ghiacciai sono la meraviglia che tiene insieme una regina non troppo soddisfatta della sua vita e un nobile ultracinquantenne, uomo ricco e amabile ma malato di cuore. Nell’agosto 1894 i regali ospiti di Gressoney organizzano una gita sul ghiacciaio del Lys e Margherita insiste perché l’amico si unisca a lei, ai portatori e alle guide. Legati alla stessa corda, si mettono in marcia per fare a ritroso la traversata dei Walser dalla valle del Lys alla valle di Zermatt. Come due ragazzi in fuga, nonostante l’età e i chili di troppo.

Quando arrivano sotto i seracchi del Grenz rallentano per ammirare la parete nord del Lyskamm. È finita da un pezzo la Piccola Età Glaciale, ma il pendio è bianco come una sposa. Margherita scopre che una vista simile può togliere il fiato perfino a una regina, anche se a far boccheggiare è l’aria sottile dei quattromila metri. Al povero barone mancano l’aria e il cuore: ansima, collassa e stramazza ai piedi della sua amata.