XXI.
La conquista dell’Antartide
19 febbraio 1947. Dall’ipotetico diario di volo del pilota Richard Evelyn Byrd:
Ore 10. Stiamo sorvolando la piccola catena di montagne e procediamo verso nord... Oltre le montagne vi è ciò che sembra essere una valle con un piccolo fiume o ruscello che scorre verso la parte centrale. Non dovrebbe esserci nessuna valle verde qui sotto, dovremmo sorvolare solo ghiacci e neve...
Ore 10,05. Eseguo una stretta virata completa a sinistra per esaminare meglio la valle sottostante. È verde con muschio ed erba molto fitta. La luce qui sembra differente. Non riesco più a vedere il sole...
Ore 10,30. Incontriamo altre colline verdi. L’indicatore della temperatura esterna indica 74 gradi Fahrenheit. Ora proseguiamo sulla nostra rotta. Gli strumenti di navigazione sembrano normali adesso. Sono perplesso. Tento di mettermi in contatto con il campo base. La radio non funziona...
Ore 11,30. Davanti a noi avvistiamo ciò che sembra essere una città!
Sono state attribuite queste visioni ai diari segreti dell’ammiraglio Byrd, o meglio alle pagine che sarebbero state trafugate dai diari stessi. Qualche mano ignota ci ha costruito un’epopea fantastica, ai confini della fantascienza, approdando anche su un’infinità di siti contemporanei dedicati a presenze aliene, cavità segrete e mondi scomparsi. Paradossalmente Byrd è più famoso per quello che probabilmente non ha mai né pensato né scritto che per quello che ha fatto, anche se la sua carriera fu tutt’altro che fallimentare. Byrd è stato un pilota della Marina americana, militare plurimedagliato, tra i più discussi, geniali, entusiasti e irriducibili esploratori polari. Nel 1929 volò sul Polo Sud; nel 1934 svernò in solitudine nella notte australe, isolandosi per mesi in una stazione meteorologica avanzata e completamente isolata; in vent’anni mise in piedi quattro spedizioni in Antartide diventando un riferimento di peso. In precedenza aveva annunciato al mondo di aver sorvolato il Polo Nord, peccando di approssimazione geografica.
La vita esplorativa e la fama di Byrd oscillano tra infinite ambizioni e altrettanti misteri, tra cui la valle verde annidata in mezzo ai ghiacci dell’Antartide. Riferendosi ai fantomatici diari dell’ammiraglio, i seguaci del mito della Terra Cava giurarono che i ghiacciai del Polo Sud nascondessero un fantastico mondo sotterraneo, che peraltro assomiglia alle valli e alle città perdute di alpina memoria.
Tutto questo non è documentabile e quindi è falso, ma passando dalla leggenda alla storia, dopo la seconda guerra mondiale Byrd è il protagonista della più pesante azione militare che abbia mai «occupato» il continente antartico: l’operazione Highjump, che vuol dire Grande Salto. È appena finita la guerra quando gli Stati Uniti decidono di dichiarare un altro genere di guerra al Polo Sud per strapparne gli ultimi segreti. Come scrive Paolo Gobetti nel prezioso racconto della spedizione, in cui tratta con particolare finezza e simpatia la figura del «ragazzone americano» Richard Evelyn Byrd, «nell’estate australe 1946-47 un vero esercito sta per invadere il pacifico regno dei pinguini. Prima di allora seicento uomini al massimo erano vissuti sulle coste del continente. Ora è in arrivo addirittura un’armata di quattromila!». Gobetti precisa che «si tratta d’accerchiare il continente, assalirlo come di sorpresa, durante le brevi pause di tempo favorevole e di buona visibilità dell’estate, con una serie di voli di esplorazione che penetrino profondamente in ogni settore...».
L’armamento dell’operazione Highjump comprende tredici navi tra cui una portaerei, un sottomarino e le due più moderne navi rompighiaccio della flotta statunitense, oltre naturalmente ai mezzi volanti: aerei con e senza pattini da neve, idrovolanti per atterrare sul mare antartico ed elicotteri per gli spostamenti brevi e gli approvvigionamenti. Dal punto di vista strategico la missione prepara la guerra fredda mostrando al mondo i muscoli dell’America, dal punto di vista commerciale intende scandagliare le ricchezze del Polo Sud, dal punto di vista scientifico si prefigge di studiare le condizioni estreme del pianeta e le reazioni degli esseri viventi. Il piccolo esercito comprende un capo della missione di ricerca, George Kasco, e molteplici responsabili delle operazioni militari e strategiche. Il capo supremo è l’ammiraglio Byrd, veterano del Polo Sud, e c’è anche Richard Evelyn Jr., il figlio di Byrd, che a otto anni ha rotto il salvadanaio per finanziare la prima spedizione paterna con i suoi risparmi: quattro dollari e 85 cents. Probabilmente il giovane Byrd è più preparato al clima polare di tanti uomini frettolosamente reclutati per la missione.
Cattiva accoglienza
La spedizione sceglie un brutto momento per la partenza: alla fine del 1946 il tempo al Polo è pessimo e l’estate è piuttosto fredda; le condizioni del ghiaccio marino si mostrano subito ostiche e pericolose, rivelando la fragilità delle navi. La fascia del pack oppone un’imprevista resistenza alle cinque imbarcazioni che proprio a capodanno del 1947 tentano di aggirare gli iceberg per entrare nel Mare di Ross, subendo danni alle fiancate. Serve un lavoro incessante dello scafo rompighiaccio Northwind per aprire una via d’acqua al sottomarino Sennet «col naso attaccato alla poppa della nave – osserva Gobetti –, come se fosse un vagone ferroviario... Poi il Northwind, come un buon cane da pastore, ritorna a prendersi cura delle pecorelle che si è lasciato indietro». Solo il 14 gennaio, dopo due settimane di sfondamento, la piccola flotta riesce a navigare in acque quasi libere oltre la barriera di Ross, ma le sorprese non sono finite. La Baia delle Balene è piena di ghiaccio e il Northwind deve di nuovo mettersi al lavoro per liberare una specie di porto artificiale. Non lontano si appronta un aeroporto di fortuna, il Little America IV, e usando i razzi propulsori per alzarsi dalla plancia della portaerei gli aeroplani volano a Little America e si allineano uno dopo l’altro sulla pista bianca.
Quando il porto e l’aeroporto sono attrezzati e i mezzi sembrano finalmente pronti al decollo è già la fine di gennaio. Piena estate. Il tempo stringe, presto l’autunno australe allungherà le sue ombre, ma le bufere di vento d’inizio febbraio bloccano per altre due settimane le operazioni di volo. Byrd sa molto bene che cosa significhi avvicinarsi all’inverno:
Le cose del mondo si riducono a nulla. Nel cielo del sud, di fronte al sole che tramonta, la notte che già regna sul Polo spinge avanti la sua ombra incombente, livida e minacciosa come un cielo in tempesta... Non ci si libera mai dalla sensazione d’essere in equilibrio su un terreno minato, come un uomo sull’orlo di un precipizio.
Finalmente il 13 febbraio splende il sole sull’Antartide e le condizioni favorevoli alla navigazione aerea – in gergo «Cavu», che significa «Ceiling and visibility unlimited» – permettono ai velivoli di partire in ricognizione. Volando a est oltre le creste dell’Executive Committee Range i perlustratori scoprono due montagne che potrebbero superare i seimila metri, quasi come la cima del Mount McKinley, anche se una stima prudente le colloca tra i quattromilacinquecento e i cinquemila, più o meno come il Monte Rosa e il Monte Bianco. Byrd si spinge oltre il Polo con molta curiosità e qualche aspettativa, ma non può registrare nient’altro che la monotona, scontata prosecuzione dell’altipiano che è già stato attraversato e mappato dagli esploratori di terra. Dall’altra parte del Polo il ghiaccio continua uguale a se stesso e il paesaggio non cambia. Gli occhi dell’ammiraglio osservano con una certa delusione la solita, uniforme distesa di ghiaccio polare sulla quale hanno marciato instancabilmente molti decenni prima i pionieri Amundsen, Shackleton e Scott.
Più in là gli aerei non possono spingersi e in profondità gli occhi della scienza non riescono ancora a penetrare – quanto è spesso il ghiaccio?, dove appoggia?, che cosa c’è sotto? –, quindi il 21 febbraio s’interrompono i voli a Little America IV e si smantella il campo lasciando sulla neve una gran quantità di materiale: tende, prefabbricati, veicoli a motore e nove aeroplani. Forse torneranno utili in seguito, forse li mangerà il ghiaccio. La stessa scelta era stata fatta tra le due guerre abbandonando le prime tre basi di Little America, pesante segno del passaggio umano, e inaugurando l’inquinamento del continente bianco.
L’oasi nel deserto di neve
Intanto la Currituck, la nave che trasporta gli idrovolanti tenendosi al limite del pack, ha approntato un «aeroporto» navigante. Appena il tempo è migliorato ha cominciato a mettere in acqua i suoi velivoli, con più fortuna dei colleghi di terra.
A fine missione i Martin Mariners collezionano ben più informazioni degli aerei decollati da Little America, con la mappatura di oltre duemila chilometri di costa e l’individuazione di alcune sconosciute geografie antartiche: una profonda baia nella Terra di Oates, il gruppo montuoso ammantato di cristallo che spunta all’interno della Terra della Regina Maud, il porto naturale riparato dai ghiacci sulla Costa di Budd e la sorprendente oasi nel deserto di ghiaccio che scatenerà le teorie dei narratori della Terra Cava.
Probabilmente succede questo: l’11 febbraio l’idrovolante pilotato da David Eli Bunger si trova sotto i pattini un panorama imprevisto; il ghiaccio è scomparso lasciando il posto a un’isola di rocce, in mezzo alle quali brillano laghetti verde azzurri e si alzano scure colline. Un ispirato comunicato della Marina militare lascia immaginare la scoperta di un luogo accogliente, una specie di Shangri-La, fomentando le illazioni e confondendo la verità, mentre in realtà, come precisa Gobetti, «si tratta di un’area quanto mai arida, e ammarando su uno di quelli che paiono laghetti scintillanti gli esploratori constatano che vi allignano alcuni tipi di alga. Non ci sono altre tracce di vegetazione, ma la scoperta è utilissima dal punto di vista pubblicitario...». Presto la stampa americana si scatena ad azzardare ipotesi: sorgenti calde, vulcanismo, miracolose riproduzioni biologiche, resti di vite e civiltà perdute. Probabilmente si tratta semplicemente di un parziale regresso del ghiacciaio, come già Scott aveva segnalato nel lontano 1903 descrivendo l’incontro con una «valle asciutta», ma siccome i risultati della spedizione devono giustificare le spese sostenute, l’United States Navy non ha interesse a gettare acqua sul fuoco. Ai fini del marketing, si sa, va bene tutto purché se ne parli.
Ripassando dalla storia alla leggenda, il volo incantato di David Eli Bunger sarebbe stato imitato otto giorni dopo da Byrd in persona, che avrebbe avvistato la verde valle, il fiume tra i ghiacci e i resti nascosti di una città e di un popolo. E qui l’invenzione sfiora il ridicolo:
Fummo poi imbarcati su un piccolo mezzo di trasporto simile a una piattaforma ma senza ruote! Ci condusse verso la città scintillante con grande celerità. Mentre ci avvicinavamo, la città sembrava fatta di cristallo. Giungemmo in breve tempo ad un grande edificio, di un genere che non avevo mai visto prima. Sembrava essere uscito dai disegni di Frank Lloyd Wright o forse più precisamente da una scena di Buck Rogers! Ci fu offerta una bevanda calda che sapeva di qualcosa che non avevo mai assaporato prima. Era deliziosa...
Il bilancio finale
Trentasette voli di ricognizione aerea, sessantaquattro voli di esplorazione, settantamila fotografie aerofotogrammetriche, novecentomila chilometri quadrati di nuovi ghiacci e terre scoperti e mappati. A fronte di mezzi, forze e spese eccezionali, il bilancio dell’operazione Highjump segnerebbe il più grande successo delle spedizioni polari, ma secondo Gobetti si tratta ancora e sempre di pubblicità perché
dal punto di vista scientifico i risultati sono piuttosto modesti, e delle 70.000 foto aeree scattate ben poche sono utilizzabili per la preparazione d’una carta precisa e soddisfacente... In una zona sconosciuta come quella antartica, in cui è impossibile avere una misura precisa della sua deriva di volo e della sua effettiva corsa nel cielo, l’aereo come strumento di rilevazione è assolutamente insufficiente. Anche le altre ricerche scientifiche sono state necessariamente assai limitate dal carattere di «grandi manovre» della spedizione. Nonostante l’ampiezza delle operazioni, restavano ancora sull’Antartide più interrogativi di prima.
La spedizione Windmill dell’anno successivo non va molto meglio e alla fine gli strateghi del Pentagono capiscono che non basta spiegare la forza militare per esplorare un continente e condurvi una seria ricerca scientifica. Si convincono anche che non ha significato patrocinare la conquista di un territorio in cui è quasi impossibile navigare, è molto difficile volare e non ha senso vivere. Paradossalmente è meglio perderla, una terra così scomoda, invece di doverla mantenere a caro prezzo. Finisce così il progetto caldeggiato da Roosevelt di un’occupazione americana dell’Antartide.