XVIII.
Il terzo polo: l’Himalaya
Sulla muraglia friabile dell’Eiger, la famigerata Eigerwand, nel 1938 si chiude la stagione esplorativa delle Alpi. Ormai scarseggiano le grandi pareti, è finita un’epoca. Nel 1939 scende la notte, si combatte, si uccide, si ricomincia da capo. La seconda guerra mondiale spazza i regimi, schianta gli equilibri mondiali e spalanca scenari lontani, sia orizzontali sia verticali. Infine l’alpinismo trasloca in Himalaya, la dimora delle nevi.
Verticalizzando la lettura delle mappe geografiche, i mitici ottomila richiamano i ghiacci artici e antartici. Stesse immensità, pari angosce, simili domande. Filippo De Filippi, coltissimo cronista della spedizione del Duca degli Abruzzi in Karakorum, scrive nella relazione del 1909: «Questi son monti ai quali non si può guardare senza turbamento, sembrano racchiudere misteri paurosi». Gli fa eco, molti anni dopo, Fosco Maraini: «Mi volto. Dinanzi a me, sopra di me, terribilmente addosso, vicinissimo e lontanissimo allo stesso tempo, il Kangchenjunga, una delle più alte montagne del mondo, scintilla nel sole come un castello incantato d’argentee sostanze lunari». L’Himalaya e il Karakorum contengono il terzo polo del pianeta, un concentrato di natura glaciale estrema in cui la scoperta del terreno ignoto è esaltata dalla forza di gravità. Dove gli avventurieri dei poli andavano in orizzontale per centinaia di chilometri, superando crepacci e seracchi a perdita d’occhio, l’alpinista himalayano impiega giorni a superare mille metri di dislivello.
All’epoca dell’Eigerwand l’esplorazione del tetto del mondo è iniziata. Alcuni temerari come George Mallory hanno già tentato gli ottomila metri, e probabilmente li hanno superati, ma purtroppo non hanno fatto ritorno. Ogni comunità alpinistica ha il suo incubo e il suo sogno. Dopo il tentativo pionieristico del Duca degli Abruzzi l’Italia è legata a filo doppio al K2, dopo la scomparsa di Mallory sulla cresta estrema dell’Everest la Gran Bretagna vuole la cima più alta, dopo la morte di Welzenbach e Merkl la Germania cerca a tutti i costi la rivincita sul Nanga Parbat.
Finita la seconda guerra mondiale l’Himalaya e il Karakorum diventano una strana contesa in tempo di pace, a chi arriva in cima per primo. Ogni paese uscito dal conflitto intende mettere la bandiera su un gigante dell’Asia. I quattordici ottomila (che includendo tutte le cime sono molti di più) offrono il sigillo della supremazia ai vincitori e un’occasione di riscatto ai vinti. Rompendo gli indugi, nel 1950 i francesi partono all’assalto dell’Annapurna, la Dea dell’Abbondanza, 8091 metri. La spedizione diretta da Maurice Herzog ottiene il permesso di entrare nel Regno del Nepal e può dunque avvicinarsi al versante settentrionale, un’interminabile cascata di seracchi pericolanti intervallati da brevi pianori nevosi. «L’immenso versante nord con i suoi fiumi di ghiaccio scintilla di luce. Non ho mai visto una montagna così grande in ogni proporzione. È un mondo nello stesso tempo rutilante e minaccioso, dove l’occhio si perde», scrive Herzog nel libro sulla spedizione che sarà un best seller. I pericoli oggettivi dell’ascensione sono altissimi, e anche se le cordate di punta si affidano a Lionel Terray, Louis Lachenal e Gaston Rébuffat, tra i migliori alpinisti e guide del dopoguerra, la salita si rivela bestiale, quasi un suicidio. Il prezzo è alto: Herzog e Lachenal, in vetta il 3 giugno, scendono esausti e gravemente congelati. Si salvano grazie alla forza e allo spirito di corpo dei compagni, primo fra tutti il medico-alpinista Jacques Oudot.
Nel 1953 tocca all’Everest dal versante sud, sulla complessa via sbarrata dall’insidiosa Ice Fall: la cascata di ghiaccio. Ragioni politiche impediscono di tentare la via di Mallory sul versante settentrionale, dunque si tenta dal Nepal. L’orgoglio britannico e una magnifica macchina organizzativa sorreggono la spedizione di John Hunt, colonnello dell’esercito di sua Maestà, proprio nell’anno dell’incoronazione di Elisabetta II. Vanno in vetta un distinto signore neozelandese di nome Edmund Hillary e lo sherpa Tenzing Norgay. Nello stesso anno l’austriaco Hermann Buhl sale in solitaria il Nanga Parbat, la Montagna Nuda di 8126 metri, con un gesto sportivo e una prova mentale che anticipano di quindici anni le frontiere dell’avventura. L’anno dopo tocca al K2 degli italiani, confinato in cima al fiume di ghiaccio del Baltoro.
Succede tutto in un soffio, come a un appuntamento della storia. In quattro anni le nazioni di provata fede alpinistica si spartiscono le cime più alte del mondo, rompendo la barriera psicologica, prima che tecnica, che impediva di raggiungere il cielo. Le imprese, così simili e così diverse tra loro, sono tutte marchiate dal gigantismo e dal nazionalismo. Lo sciovinismo francese guida la scalata del primo ottomila, lo spirito coloniale inglese spinge gli uomini sull’Everest e l’ansia di rinascita del Bel Paese assicura poteri speciali al geologo di ferro Ardito Desio, che nega il posto al grande Riccardo Cassin e conduce due italiani assai più obbedienti sulla cima del Karakorum: l’ampezzano Lino Lacedelli e il valtellinese Achille Compagnoni.
Il 31 luglio 1954 suonano le campane, tacciono le fabbriche, si ferma l’Italia intera. I giornali usano caratteri cubitali per descrivere l’impresa. Ovunque lungo lo Stivale aprono bar intitolati al K2, esotica sigla che fa sognare e piangere d’orgoglio gli italiani. Paolo Monelli scrive su «La Stampa»:
Per quel tricolore legato al manico di una piccozza piantata sulla più alta vetta del mondo che fosse tuttora inviolata, oggi noi italiani andiamo per via come ci fossimo messi un fiore all’occhiello, con passo più alacre, con cuore più lieve.
Il seguito della conquista è meno eclatante ma ugualmente intenso. La scalata dell’Himalaya non si ferma. La campagna di conquista continua con l’ascensione dei restanti ottomila e poi con la salita delle prime vie difficili: il versante Diamir del Nanga Parbat nel 1962, la parete sud dell’Annapurna nel 1970, il pilastro ovest del Makalu nel 1971, la parete sud-ovest dell’Everest nel 1975. È un lavoro pesante e costoso, quello delle spedizioni: tonnellate di materiale, centinaia di portatori, alpinisti, mediatori culturali, campi base, campi intermedi, corde fisse, bombole a ossigeno; e poi padrini, agenti e sponsor, tradotti in obblighi, doveri e pendenze economiche. La zavorra organizzativa trattiene gli slanci dei giovani e presto imprigiona l’evoluzione dell’himalaismo.
Lo stile alpino
Reinhold Messner e Peter Habeler si ribellano alla regola nel 1975, salendo in stile leggero la parete nord-ovest dell’Hidden Peak. Non sono solo le difficoltà tecniche a rendere eccezionale l’ascensione che Messner paragona a due pareti nord del Cervino, una sopra l’altra; c’è soprattutto l’idea, fantastica, di poter arrampicare su un ottomila come sulle Alpi.
Nel frattempo il giovane Peter «Pete» Boardman, un tipo educatamente ribelle che porta i capelli alla George Harrison, è tornato trionfatore dal baluardo sud-ovest dell’Everest. L’Inghilterra è fiera del suo ragazzo, la regina lo aspetta al palazzo reale, ma Boardman si sente un perdente quando scopre che gli amici Joe Tasker e Dick Renshaw sono appena stati sul Dunagiri senza nessuna spedizione al collo. Pete annota amaramente:
Ero lì seduto e pieno di invidia. Dennis era già al telefono con la stampa locale: «Solo loro due... Scarse finanze... Una cima di settemila metri...». Molto più significativo che la nostra spedizione all’Everest, pensavo, e della noia fottuta che mi aspettava: inviti, ricevimenti, cene...
È finito il tempo degli eroi. Dopo nove mesi di sbornie e preparativi, Boardman e Tasker ripartono per l’Himalaya del Garhwal come due studenti in viaggio. Sono diretti allo scudo occidentale del Changabang, la Montagna di Luce. A Manchester, per testare le amache da bivacco, hanno passato la notte in un magazzino di cibi surgelati. Prima della partenza Boardman è stato mollato dalla ragazza disgustata dal suo fanatismo. A Delhi li scambiano per due hippies sulle strade dell’India. Non hanno la faccia da duri, e nemmeno gliene importa. Infine vedono lo spaventoso muro del Changabang e pensano «che ci facciamo qui?», ma giorno dopo giorno si avvicinano al triangolo di granito, lo sfiorano, lo graffiano, ci credono. Salgono leggeri all’inverosimile, senza appoggi alle spalle, completamente isolati, perduti, liberi:
Stavamo vivendo di momento in momento e non c’era alcuna garanzia di tornare. L’unico modo per vivere i prossimi istanti era scendere, slegarsi, mangiare, riposare e ripartire... L’avevamo già fatto sulle Alpi.
Quando arrivano in cima si sentono semplicemente due sopravvissuti, ma in cuor loro sanno di aver compiuto l’opera della vita e intuiscono che la Storia ne terrà conto, perché il futuro dell’alpinismo himalayano è lo «stile alpino». L’approccio tradizionale è diventato vecchio di colpo. Roba da turisti. Antiquariato.
Nel 1978 Messner e Habeler riescono a salire l’Everest, la cima più alta della Terra, senza usare le bombole a ossigeno. Anche se le circostanze sono completamente diverse dall’Hidden Peak (la via normale dell’Everest è stata in parte attrezzata da una spedizione austriaca), le due sfide sono un trampolino di lancio. La conferma arriva ancora da Messner, solo, nell’agosto dello stesso anno, quando sale e scende in tempo record la tormentata, selvaggia, pericolosa e bellissima parete Diamir sul Nanga Parbat, forse la più limpida impresa della sua carriera. Reinhold si ripete nel 1980 raggiungendo la vetta dell’Everest, ancora senza compagno e senza ossigeno, sullo sconfinato versante nord-ovest. È un’altra impresa leggendaria, che ricorda l’epopea di Hermann Buhl sul Nanga Parbat nel 1953. Ormai invischiato nel mercato del rischio, che pretende da lui la salita di tutti gli ottomila, nel 1982 Messner mette nel carnet tre cime: il Kangchenjunga, il Gasherbrum II e il Broad Peak. Due anni dopo, con Hans Kammerlander, ritorna all’avanguardia con la prima traversata in stile alpino di due ottomila: i due Gasherbrum in un colpo solo. Nel 1985 risponde all’invidia di chi lo vorrebbe finito dietro la macchina del business con la prima salita in compagnia del fedele Kammerlander della parete nord-ovest dell’Annapurna, uno dei problemi himalayani sul tappeto. Il 16 ottobre 1986, con la scalata del Lhotse, conclude la corsa ai quattordici ottomila: Messner è il primo uomo a collezionarli tutti.
Il secondo uomo
«In Polonia la montagna ha preso il posto del mare. È lo spazio della libertà, dei grandi miti di liberazione», spiega negli anni Ottanta il presidente della Federazione polacca della montagna Andrzej Paczkowski. Senza il desiderio di realizzazione, senza il bisogno di evasione dagli angusti orizzonti materiali e spirituali, non sarebbero spiegabili i sussulti esplosivi di un alpinismo e di un himalaismo cresciuti con mezzi poveri e antiquati.
Un giorno il grande Jerzy Kukuczka ha regalato al Museo Duca degli Abruzzi di Torino l’attrezzatura usata sui primi ottomila. Sembrava uscita, appunto, da un museo, e contrastava con i marchi dei tre sponsor italiani che da quando era diventato famoso orbitavano attorno all’imperturbabile polacco. Era rimasto indecifrabile lo sguardo di Kukuczka, anche dopo aver eguagliato il clamoroso record di Messner. Trasformato in personaggio pubblico, era stato maldestramente etichettato come «il secondo uomo dei quattordici ottomila» e girava i club alpini come la controfigura di una star. Ma non gliene importava.
Nato nel 1948 da genitori operai nella regione mineraria dell’alta Slesia, Jerzy si era fatto una piccola posizione come tecnico elettronico e aveva abbandonato il sollevamento dei pesi a favore della montagna. Sui Monti Tatra aveva affrontato durissime scalate invernali con ogni tempo e ogni temperatura; sulle Dolomiti aveva aperto una direttissima sulla parete sud della Torre Trieste. Nel 1974 era arrivata la prima esperienza extraeuropea sul Mount McKinley, in Alaska, e l’anno seguente una via nuova sulle Grandes Jorasses. Il ragazzo si sentiva pronto per la grande avventura himalayana, ma l’Asia era lontana e una corda in Polonia costava fino a due stipendi da ingegnere. Allora Jerzy e altri alpinisti di punta si erano organizzati nelle imprese di lavoro acrobatico e offrivano prestazioni ad alta remunerazione. Kukuczka si era specializzato nel controllo e nella manutenzione dei camini industriali, e si allenava anche così, lavorando da operaio, e intanto fumava e beveva regolarmente. «Domani viene la mia occasione», pensava il ragazzo che scalava le ciminiere.
I suoi anni erano gli Ottanta: era scritto. Nel 1977 aveva messo da parte abbastanza soldi per partire ma aveva fallito di poco il Nanga Parbat; due anni dopo era stato in cima al Lhotse per la via normale: il primo ottomila. «È arrivato il momento», aveva pensato. Infatti era arrivato. L’affermazione internazionale era offerta dal pilastro sud dell’Everest con la spedizione polacca del 1980, seguito nel 1981 dalla salita solitaria del Makalu per una via nuova.
Con Wojtek Kurtyka formava una delle più fantastiche cordate del mondo e si erano permessi un tentativo sulla parete ovest del Makalu, la cresta sud-est del Gasherbrum II e la cresta nord-ovest del Broad Peak con la traversata delle tre cime in cinque giorni e cinque bivacchi. Erano tutte vie nuove, in quattro incredibili stagioni. La progressione di Kukuczka continuava impressionante, inarrestabile. In meno di un mese, tra il 21 gennaio e il 15 febbraio del 1985, Jerzy portava a casa le prime invernali del Dhaulagiri con Andrzej Czok e del Cho Oyu con Andrzej Heinrich. Infine, nello stesso anno, saliva il Nanga Parbat per il pilastro sud-est, mai scalato. Il 1986 era tragico perché la prima invernale del Kangchenjunga costava la vita a Czok e alla via nuova sulla parete sud del K2 seguiva la caduta mortale di Tadeusz Piotrowski. Eppure il morale di Jerzy sembrava inalterabile e in novembre arrivava ancora una «prima» sul Manaslu con Artur Hajzer. L’epopea dei quattordici ottomila si concludeva nel 1987 per buona pace dei giornalisti, ma con l’ennesima prima invernale, l’Annapurna, e l’ennesima via nuova sulla parete nord-ovest dello Shisha Pangma, sempre con Hajzer. Kukuczka commentava: «Perché posso realizzare i miei sogni meravigliosi? Semplicemente perché le montagne sono gentili con me».
Se la rosa dei colossi himalayani fosse stata il suo vero obiettivo, sarebbe stato lecito attendersi una battuta d’arresto. Può succedere intorno ai quarant’anni. E invece l’anno seguente tornava con il fido Hajzer sulla difficile parete sud dell’Annapurna e lasciava ancora una volta la firma. Gli era fatale un’altra sud, quella del Lhotse, proprio la cima sulla quale nel 1979 aveva valicato gli ottomila metri. Sulla parete la competizione era ormai aperta da anni tra i massimi himalaisti del mondo e Jerzy era uno dei candidati più quotati. Dopo quasi cinquanta giorni di permanenza alle alte quote e con una mole impressionante di lavoro sulle spalle, Jerzy bivaccava a 8300 metri con il compagno Pawlowski. Quando il 24 ottobre 1989 partiva per la cima era probabilmente stanco, ma il tempo si era rimesso al bello e lui voleva salire, caparbio come sempre. Era scivolato e precipitato alle otto del mattino, a meno di duecento metri dalla cresta.
Se si volesse paragonare gli alpinisti polacchi con gli occidentali – diceva Kukuczka senza astio – bisognerebbe prendere ad esempio le loro automobili perfette, ma su strade perfette. Quelle polacche sono rozze, brutte, antieconomiche, però resistono più di un fuoristrada e possono sostituire anche un carro armato. Le loro sono eccezionali quando è bel tempo e la via è spianata, tutto è calmo e non c’è rischio. Allora quelli dell’ovest distanziano tutti, ma gli servono le condizioni giuste. Se la strada peggiora cedono rapidamente.