XV.
Gli attrezzi
per domare il gelo
Di solito, almeno nei romanzi, i malcapitati che precipitano nei crepacci perdono la piccozza. La piccozza è tutto, sul ghiaccio la piccozza fa la differenza.
La mia prima piccozza era una Grivel degli anni Sessanta. Aveva un manico di legno abbastanza corto da far venire il mal di schiena se ci si appoggiava per camminare e abbastanza lungo da impacciare il gradinamento, tuttavia era bellissima, cromata, resistente e pesante, e luccicava con la becca d’acciaio senza ombra di dentatura. Ci ho fatto centinaia di gradini e migliaia di metri di dislivello, l’ho amata come una bella ragazza e l’ho difesa da ogni critica finché nel 1976, scalando la parete nord dell’Aiguille de Chardonnet, m’è sembrata improvvisamente patetica come un pezzo da museo. Eravamo partiti molto presto con le pile e avevamo scalato lo sperone di granito di notte, superando dei passaggi complicati. All’alba l’aria si era fermata, la parete si era accesa e la roccia si era trasformata in una mezza luna ghiacciata. Una fredda lama di rasoio. Dopo la lama cominciava la parete di ghiaccio vera e propria che qualcuno aveva già gradinato prima di noi, ma bisognava comunque ripassare la traccia per liberarla dalle scorie, appoggiare con cura le punte anteriori dei ramponi, affondare la becca nel ghiaccio vetroso, tenersi in equilibrio come acrobati e piantare una vite a ogni sosta per assicurare il compagno. Salivamo lenti e accorti lunghezza dopo lunghezza, misurando la quota sull’altezza del seracco pensile.
Quando il sole ha cominciato a scaldare il pendio, il ghiaccio è diventato più morbido e arrampicabile, ma la cima era sempre lontana e noi due diciottenni ci sentivamo vulnerabili come mosche sullo specchio. A metà parete vediamo due puntini che si avvicinano. Presto diventano persone e lì capisco che la mia piccozza è di un’altra era, e anch’io lo sono, quando vengo superato da una coppia di alpinisti francesi che non gradinano, non respirano e non si fermano mai. Il primo di cordata lancia due piccozze cortissime e dentate sopra le spalle – braccio, lancio, presa, altro braccio, altro lancio, altra botta, altra ferita – e appendendosi agli attrezzi si mangia la parete. Il secondo lo segue con la stessa tecnica, solo un po’ più lento e impacciato. I due marziani si confondono rapidamente con il cielo buttandoci addosso qualche briciola gelata, e anche le briciole ci sembrano diverse, più leggere delle nostre. Quando smette di sbriciolare i francesi sono già spariti.
L’impresa del 1779
L’epopea del ghiaccio è legata alla progressione dei pensieri e all’evoluzione degli attrezzi. Una delle prime storie verticali ha per protagonista Laurent-Joseph Murith, che non era né un uomo né un prete qualsiasi. Nato nel villaggio di Sembrancher nel 1742, Murith era un ragazzo cresciuto ai piedi dei ghiacciai, che aveva fatto professione di fede nel 1761 ed era stato ordinato sacerdote nel 1766. Uomo colto e intraprendente, studioso di scienze naturali, profondo conoscitore del Vallese, era destinato a diventare curato e priore del Gran San Bernardo, autore di un manuale botanico, accompagnatore dello scienziato ginevrino Horace-Bénédict de Saussure tra le rocce e i ghiacciai svizzeri e guida di Napoleone e del suo esercito nella famosa traversata delle Alpi del 1800. Ma prima di tutto l’abbé Murith voleva salire la più bella cima di casa: il bianchissimo Mont Vélan, 3731 metri.
Tornando a quell’anno si trema di ammirazione. Nel 1779 nessuno ha mai tentato una montagna così difficile e nessuno è mai salito così in alto tranne i sette ragazzi di Gressoney, l’anno precedente. Nessuno si è mai avventurato su un ghiacciaio così difficile e su una pendenza così ragguardevole. Probabilmente nessuno capisce perché un prete voglia provarci. Il 1779 sembra l’anno giusto perché Murith ha l’esperienza e il vigore dei trentasette anni, il ghiacciaio scintilla di promesse e l’estate si è messa al bello, con cielo sereno stabile. L’abbé sceglie due cacciatori di provata (o millantata) abilità e buona conoscenza del terreno. Ha bisogno di due compagni solidi, due montanari, anche se l’impresa prende le mosse da una sollecitazione scientifica e forse da una spinta religiosa. Partono alla fine di agosto con tre zaini pesanti, dormono all’addiaccio al limite della vegetazione e il giorno dopo si avvicinano al glacier de Valsorey, che è lo spauracchio della comitiva. Il ghiacciaio si mostra ripido e tormentato, spezzato dai crepacci, ostruito dai seracchi; come tutti i fiumi di ghiaccio è un corpo in perenne movimento, un torrente che scorre a valle con boati spaventosi e lugubri scricchiolii di assestamento. Di notte fa molta paura.
I contemporanei di Murith disegnano ancora i ghiacciai a guisa di mostri che inghiottono i villaggi, dunque avventurarsi è prima di tutto un atto di cultura, o di fede, per battere la superstizione. L’abbé e i cacciatori sono attrezzati molto sommariamente: hanno le grappette sotto le scarpe – quelle rudimentali punte di metallo che aiutano i contadini di montagna a non scivolare sul terreno gelato – e gli alpenstock, i lunghi bastoni ferrati utili a cacciare le marmotte e mantenere l’equilibrio sui pendii, non certo a scavare gradini nel ghiaccio ripido. Murith ha portato con sé anche una mazza appuntita da geologo. Hanno cibo per qualche giorno e un barometro per le misurazioni scientifiche. Quando raggiungono il muro di ghiaccio che sbarra il cammino con pendenze superiori ai quaranta gradi i cacciatori si lamentano per il caldo e la stanchezza, e probabilmente farebbero immediato ritorno se il prete in persona non impugnasse il martello e cominciasse a incidere una fila di scalini puntando alla vetta. Intanto esorta i compagni, li rassicura che i mostri non esistono, li incita a non mollare... Praticamente li porta in cima.
La straordinaria avventura che spinge l’abbé Murith sulla vetta del Mont Vélan sette anni prima che il dottor Paccard e Jacques Balmat salgano il famoso Mont Blanc de Chamonix – ben più alto del Vélan, ma non più difficile – è un capitolo aurorale della storia dell’alpinismo, però appartiene al pre-alpinismo se si considerano le tecniche e soprattutto gli attrezzi dei protagonisti. Nessuno ha mai scalato un «muro di ghiaccio» e ovviamente nessuno sa come si fa. E con che cosa. Murith deve il successo al coraggio, all’intraprendenza e alla lungimiranza: se non avesse portato con sé il martello da mineralologo non avrebbe potuto gradinare il pendio ghiacciato e sarebbe dovuto tornare indietro.
La seconda chiave del successo sono i ferri sotto gli scarponi, non diversi da quelli calzati dai montanari sul terreno gelato. I tre salitori del Vélan sono abituati a camminare in montagna con i ferri perché nel Settecento non ci si avventura a far legna nei boschi, a raccogliere i cristalli di quarzo sulle morene o a cacciare il camoscio senza i chiodi sotto le scarpe. Come gli animali, anche gli uomini vanno in giro ferrati.
Ferri e scintille
L’idea del ferro sotto il piede è antica. Sono almeno millecinquecento anni che l’umanità prova a stare inchiodata al terreno. Probabilmente sono molti di più. Una delle prime scarpe ferrate documentate da scritti e raffigurazioni è un sandalo militare romano calzato a piedi nudi! Si chiamava caliga ed era una strana scarpa aperta ma robusta, con suola spessa e armata. Siccome i soldati romani erano sottoposti a lunghe marce giornaliere che logoravano le calzature, si pensò a strisce di cuoio più larghe e resistenti della norma e a chiodi sotto la suola per risparmiare il cuoio e facilitare la presa. Se c’era da correre non si scivolava e se c’era da combattere si restava ancorati a terra. Pare che esistesse anche una caliga a tomaia chiusa simile al calzare o allo stivale, anche se i documenti ci consegnano piuttosto un soldato in abiti leggeri e a piedi scoperti, abituato a fare la guerra da marzo a novembre e a riposare nei mesi freddi. Ma gli uomini non comandano le guerre, sono piuttosto comandati, e l’impero romano si espandeva sempre più a nord in regioni gelide e innevate, quindi la caliga alta fece comodo e suggerì una nuova funzione: camminare sul ghiaccio.
Dallo stivale allo scarpone il passo è incerto, e non è decisivo. Quando il pendio si fa ripido e il gelo imprigiona la terra, lo stivale e lo scarpone mostrano entrambi i propri limiti. Allora ci vogliono i chiodi per aderire al terreno. Nel corso dei secoli i chiodi diventano gli alleati del montanaro e dell’alpinista. Per chi vive le alte terre d’inverno, per chi deve attraversarle e per chi vuole salirle, la ferratura dello scarpone è importante come quella del cavallo, anche se la scarpa chiodata garantisce buona presa sul terreno ghiacciato ma cattiva tenuta sulle rocce, le pietraie, le vie selciate e le strade lastricate. Sulla pietra i chiodi fanno scintille e non è raro, di notte, che i piedi montanari generino strane luci. Ogni passo una fiamma e uno stridore di ferro. Lo sanno bene gli alpinisti tra Otto e Novecento, che spesso abbandonano i chiodi alla base delle difficoltà e si arrampicano in pantofole di corda o babbucce di canapa sulla parete di roccia, pronti a recuperare lo scarpone al ritorno.
Nel 1912 il ginevrino Félix-Valentin Genecand detto «Tricouni», un gioielliere che si è fatto un nome nel mondo dell’alpinismo, progetta un nuovo sistema di ferratura per gli scarponi da montagna spalmando i «ferri» sul cuoio, sotto la suola e nel giro piede, in modo che le placchette in acciaio temprato lavorino a contatto più diretto con il terreno e garantiscano migliore presa sui pendii franosi e sulla roccia bagnata o incrostata dal lichene. Il passo decisivo arriva nel 1935, quando l’imprenditore alpinista lombardo Vitale Bramani assiste alla morte per assideramento di alcuni sventurati sorpresi dalla tempesta in scarpette di corda. Vivamente colpito dalla tragedia, in collaborazione con la Pirelli il geniale Bramani progetta una suola che coniuga le esigenze dell’avvicinamento con quelle della scalata e introduce la rivoluzionaria gomma a carrarmato che porta il suo nome.
Il bastone e l’accetta
L’iconografia della conquista del Monte Bianco tramanda il combattivo Balmat che impugna un lungo bastone dalla punta ferrata e, fissata alla cintura, un’accetta dal manico corto. L’immagine è falsa perché Balmat aveva solo il bastone, come Paccard, e quindi il cacciatore non poteva gradinare a colpi d’ascia il ripido pendio che porta alla cresta sommitale. In ogni caso fu il dottore ad accollarsi il compito.
Avevano bivaccato abbastanza in basso, a 2329 metri, circa duemilacinquecento metri sotto la cima. Prima di addormentarsi il dottor Paccard aveva «segnato» gli strumenti per le misurazioni barometriche e poi s’era infilato sotto la coperta di lana. Balmat l’aveva imitato. All’alba dell’8 agosto 1786 il cielo era pulito, anche se faceva abbastanza caldo, sette gradi centigradi, e soffiava un po’ di vento da nord. I due chamoniards erano partiti lenti ma risoluti e alle cinque del mattino erano ai piedi della Jonction, un nodo del ghiacciaio straziato dai crepacci. Una brutta gatta da pelare. Il dottore e il cacciatore non avevano scale ed erano senza corda. La neve era molle e i ponti inaffidabili, quindi avevano scavalcato i buchi affiancando i due bastoni e strisciandoci sopra come gli equilibristi. Se n’era andato un sacco di tempo e a mezzogiorno erano ancora sotto il Petit Plateau, dove si erano fermati a mangiare e riposare. Una farfalla e alcuni insetti giacevano morti sulla neve; il sole era cocente; Balmat esitava e voleva scendere a valle dalla figlia ammalata.
Raggiunsero il Grand Plateau – ricostruiscono gli storici britannici Graham Brown e De Beer – dove nessuno era mai entrato prima. L’ora era veramente troppo avanzata e ancora molto restava da fare... La crosta di neve troppo leggera rese la traversata del piano un’impresa lunga e faticosa per due uomini che, già stanchi, portavano pesi ingombranti. Quando il dottor Paccard si diresse, come deve aver fatto, verso sinistra, Balmat si accorse per la prima volta che la via prescelta era sui pendii, verso la cresta nord-est del Monte Bianco. Ciò dovette scuoterlo di nuovo... Il dottore rassicurò Balmat circa la praticabilità della sua via, promise di restare in testa sul pendio dell’Ancien Passage inferiore e di assumersi lui stesso il compito di aprire la pista, prese sulle spalle una parte del carico di Balmat e lo incoraggiò a continuare...
Il dottore riparte per primo tagliando il pendio diagonalmente, da un punto in basso a destra a un altro in alto a sinistra, su una pendenza media che lui stesso calcola di 32 gradi. Talvolta si ferma e scava un gradino nel ghiaccio con la punta del bastone ferrato. Sopra il precipizio dei Rochers Rouges la via di Paccard si fa esposta e vertiginosa, specie considerando che i due pionieri sono slegati e non possono proteggersi da un’eventuale caduta. Eppure salgono senza sosta verso la cresta e alle cinque dopo mezzogiorno vengono avvistati contro il cielo sulla calotta sommitale del Monte Bianco. Restano da scalare solo 360 metri di dislivello, e non sembrano neanche difficili, ma si è alzato il vento, è molto tardi e bisogna trovare assolutamente un posto per bivaccare. Il dottore e il cacciatore cercano invano, perché non c’è nessun posto adatto sulla cresta. Allora Paccard dimostra il suo coraggio: «Andiamo in vetta questa sera stessa» dice.
Una scelta decisiva.
Dunque è stato un martello da geologo a portare l’abbé Murith in cima al Mont Vélan ed è stato un bastone o alpenstock a condurre il dottor Paccard sulla cresta del Monte Bianco. Entrambi gli attrezzi erano nati per altri usi, ma furono usati dai primi alpinisti per affrontare i versanti ghiacciati. Al martello e al bastone si affianca presto l’accetta, anch’essa inventata per spaccare il legno e non certo per scalare il ghiaccio, comunque più funzionale del bastone sulle forti pendenze. Verso la metà dell’Ottocento qualcuno prova ad accorciare leggermente il manico dell’alpenstock e a inserire sulla testa una punta opposta a una lama verticale, a guisa di ascia, in modo da mantenere l’equilibrio e scalinare, se necessario.
Nel 1860 il fortissimo accompagnatore di Edward Whymper, Michel Croz, impugna ancora un ibrido del genere: sembra più un guerriero medievale che una guida alpina. È proprio Whymper, il disegnatore londinese che ha fatto del Cervino la ragione di vita, a dissertare sull’uso delle piccozze e dei ramponi nel famoso The Ascent of Matterhorn:
Per gradinare il ghiaccio s’impugna quasi esclusivamente l’estremità a punta della testa della piccozza; l’ascia è ottima per rifinire i gradini, ma è utilizzata soprattutto per tagliare la neve dura. Oltre che molto valida come arma da taglio, la piccozza è anche un arpione d’inestimabile efficacia. È comunque un arnese poco maneggevole quando non sia usato per il suo scopo, ed è capace di dare la stura a un lessico violento tra la folla delle stazioni ferroviarie, a meno che la testa non sia stata preventivamente protetta da un cappuccio di cuoio...
Invece non credo che derivi alcun beneficio dall’uso dei ramponi. Non li userei mai su un pendio di ghiaccio, per nessuna ragione al mondo.
Whymper era un figlio dell’Ottocento e non ebbe il tempo di cambiare idea sull’utilità dei ramponi, così come non ebbe modo di conoscere e usare l’attrezzo rivoluzionario che veniva dalle regioni del nord: lo sci.
Pattini da neve
Lo sci è un enigma storico come la scomparsa dei dinosauri e l’apparizione della ruota. Appartiene a quel genere d’invenzioni che sembrano precedere loro stesse, dunque è impossibile stabilire con precisione i tempi e i luoghi che videro la nascita delle strane assi di legno che in epoche remote – un reperto datato oltre 5000 anni a.C. è stato trovato oltre milleduecento chilometri a nord-est di Mosca – coniugarono due necessità fondamentali per chi vive in mezzo alla neve: il galleggiamento e lo scivolamento. Probabilmente i primi sci furono l’evoluzione di altri attrezzi come la racchetta da neve, il pattino da slitta o la canoa, e sicuramente un prototipo è raffigurato nelle pitture rupestri dell’isola norvegese di Rødøy, dove quattromila anni prima della nascita di Cristo un piccolo uomo sfoggia un paio di pattini agganciati sotto i piedi, smisuratamente lunghi e ricurvi verso l’alto sul davanti. La parola derivante dal norvegese antico indica appunto il pezzo allungato, l’asse da neve, l’asta di legno coricata. Non ci fu mai un unico tipo di sci, i costruttori partorirono infinite varianti: sci lunghi, sci corti foderati di pelle di foca, sci larghi come zattere e legni stretti come fusi, sci arcuati, sci dritti, sci di frassino, sci di betulla, sci di legno acerbo e di legno duro. Lo sci originario era certamente più simile all’attuale sci da fondo che allo sci da discesa. Lo sciatore dell’antichità, talvolta armato di bastone, spingeva i lunghi pattini sulla neve.
In Svezia lo sci è un oggetto mitologico perché ricorda il leggendario coraggio di Gustav Ericsson Vasa contro le truppe di re Cristiano II. Negli anni venti del Cinquecento gran parte della nobiltà svedese si opponeva ai metodi dittatoriali di Cristiano il Tiranno, che nel tentativo di zittire i ribelli convocò l’aristocrazia a Stoccolma in vista di «una riconciliazione». L’invito era una trappola per massacrare gli oppositori, compresi i genitori del giovane Gustav Ericsson. Allora Vasa tentò inutilmente di organizzare la rivolta, e inascoltato iniziò una lunga fuga con gli sci verso la Norvegia. Nel frattempo i nobili cambiarono idea, Vasa fu raggiunto a Sälen da altri due sciatori che lo ricondussero in patria e finalmente, sconfitto il tiranno, il 6 giugno 1523 il nobile Gustav fu incoronato re di Svezia.
Dell’antico scivolamento si parla in alcuni libri interessati alla vita dei popoli nordici, dalla Historia de Gentibus Septentrionalibus di Olao Magno del 1555 al Viaggio settentrionale di Francesco Negri del 1700, ma bisogna aspettare la seconda metà dell’Ottocento perché lo sci acquisti il significato che gli attribuiamo oggi. In particolare, come si è visto, bisogna attendere la fondamentale pubblicazione di På ski over Grønland di Fridtjof Nansen, nel 1890. Gli storici lo considerano un testo di svolta. Come osserva Leonardo Bizzaro, il racconto del futuro premio Nobel per la pace contiene tante cose nuove ed eccitanti: «Lo sforzo, il mondo ‘altro’, la temerarietà dell’impresa, la sfida alla vita, il piacere del movimento. Quel che ama lo sportivo in poltrona, purché il protagonista sia un altro, e ha l’effetto d’una iniezione di adrenalina nella categoria degli sportivi veri».
Sulle Alpi lo sci è un oggetto sconosciuto fino all’ultimo ventennio dell’Ottocento. Nel 1893, più o meno quando esce la traduzione inglese di På ski over Grønland, lo scrittore scozzese Arthur Conan Doyle sperimenta con dei compagni d’avventura la traversata da Davos ad Arosa su un paio di sci. L’ironica descrizione della gita, pubblicata sul popolare mensile londinese «The Strand Magazine», comunica agli europei che si sono messi in casa un attrezzo diabolico:
non c’è nulla di particolarmente maligno in un paio di sci: due assi di legno di olmo lunghe otto piedi e larghe quattro pollici, con una coda quadrata, una punta incurvata e delle cinghie al centro per fissare i piedi. Guardandoli, nessuno potrebbe immaginare le potenzialità in essi celate. Ma ecco che, dopo averli calzati, proprio mentre vi girate sorridendo in cerca dello sguardo degli amici, improvvisamente andate a sbattere la testa sulla neve che, scivolosa, vi permette di alzarvi solo dopo un frenetico scalciare, con i vostri amici che non vi avrebbero mai pensato capaci di offrire un divertimento simile.
«Non che non ci fossero state imprese simili già negli anni precedenti – commenta Antonio De Rossi –, ma il padre del genere giallo, giocando abilmente sul contrasto tra rigido costume vittoriano dell’epoca e evoluzioni sugli sci che sembrano ‘mimare una danza tribale’, sembra davvero essere il primo a cogliere la portata e l’essenza della nuova pratica». Descrivendo la discesa sul versante di Davos, il padre di Sherlock Holmes osserva che «in quella grande distesa selvaggia e immacolata era fantastico scivolare con tanta facilità».
Lo scrittore percepisce la dimensione esotica ed estetica del nuovo sport e ne prefigura il successo: «Oggi non ci si rende ancora conto, ma verrà il giorno in cui centinaia di inglesi si trasferiranno in Svizzera per la stagione dello sci». Il breve racconto sciistico di Conan Doyle termina con una nota tecnica sull’abbigliamento da sciatore:
Discesi a modo mio. Il mio sarto mi aveva assicurato che l’Harris tweed era indistruttibile. È una teoria contestabile che non si presta a un serio test scientifico. Sta di fatto che era possibile trovare pezzi di Harris tweed tra il Colle Furka e Arosa, e per il resto della giornata mi sentii maggiormente a mio agio camminando lungo i muri.
Pattini da ghiaccio
Nel 1566 Pieter Bruegel il Vecchio dipinge Paesaggio invernale con pattinatori e trappola per uccelli, un quadro in cui il paesaggio sconsolato contrasta con la scena animata. In realtà i protagonisti sono due, contrastanti anche loro: pattinatori che si sollazzano sul canale ghiacciato e uccelli neri che volteggiano sulle loro teste. La vita e la morte. Poi c’è il villaggio fiammingo immobilizzato dall’inverno, avvolto in un’atmosfera fosca e sprofondato nel panorama senza fondo. Perché l’inverno nordico non ha fine.
Bruegel sceglie il giallo per raccontare il freddo, l’inverno, la malinconia, ed è di nuovo un giallo a due facce: un po’ pittoresco e un po’ malato. A destra del quadro, in una specie di radura erbosa, l’artista colloca una rudimentale trappola per uccelli, un arnese fatto da una tavola appoggiata a un bastone in bilico. La corda legata al bastone sottile comanda lo strumento di morte. Qualcuno l’ha letta come una metafora della vita umana che si perde nell’ebbrezza del pattinare mentre la trappola finale è apparecchiata. Chissà.
Comunque il dipinto di Bruegel dimostra che nei Paesi Bassi del Cinquecento ci si divertiva già a pattinare sui corsi d’acqua gelati e che il pattinaggio sul ghiaccio era già una pratica popolare. La conoscevano perfino gli uomini della guerra. Infatti sei anni dopo, nell’inverno del 1572, i soldati olandesi ricorrono ai pattini da ghiaccio beffando l’esercito spagnolo. Circondati dai ghiacci e dal nemico, si narra che gli archibugieri infilino le lame sotto i piedi per sfruttare il pavimento che li fa volare silenziosi, mentre l’avversario barcolla e cade. Così colgono il nemico di sorpresa e si dileguano alla velocità della luce.
Com’è successo con lo sci, il pattinaggio su ghiaccio nasce nelle regioni in cui per almeno quattro mesi comanda il gelo e si afferma nei luoghi in cui da fine autunno a inizio primavera si può camminare come Gesù sull’acqua. Con «lame» inizialmente di legno e osso, poi di metallo temprato e resistente, si scivola sui fiumi, sui laghi, sugli stagni e sui canali senza timore di andare sotto. Si pattina soprattutto nei Paesi Bassi, in Scandinavia, in Gran Bretagna e nell’Unione Sovietica. Una leggenda russa racconta che in certe regioni della Siberia i bambini imparino a scivolare sul ghiaccio prima che a camminare.
Si accostò alle montagne di ghiaccio sulle quali stridevano le catene delle piccole slitte rotolanti e risonavano voci allegre – immagina Lev Tolstoj in Anna Karenina –. Fece ancora alcuni passi, e davanti a lui si aprì il campo di pattinaggio e, subito, in mezzo a tutti quelli che pattinavano riconobbe lei...
Sì: ecco la vita – pensò – ecco la felicità. Insieme, ha detto lei, andiamo a pattinare insieme.
Quando la tecnologia impara a fabbricare la materia prima, cioè il ghiaccio, le piste naturali diventano impianti artificiali e lo svago si trasforma in sport, con le sue regole, i suoi giudici e le sue competizioni. Tuttavia il pattinaggio agonistico ha almeno due strade davanti a sé: la velocità e la danza. E le esplora entrambe.
Sprint e danza sono visioni molto diverse: forse l’unica cosa che le accomuna sono i pattini. Nel pattinaggio in linea si usano i coltelli più performanti per sfrecciare alla massima velocità, chinati testa avanti come dei proiettili umani. Nel pattinaggio di figura individuale e a coppie si danza e si piroetta sul ghiaccio, disegnando la pista con coreografie e segni irriproducibili perfino dagli stessi artisti, perfezionando il prodigioso incontro tra arte e sport. La precisione delle scarpe e dei pattini assemblati in un pezzo unico permette di valorizzare la corporeità e la poesia della danza; la fluidità del ghiaccio artificiale armonizza potenza e grazia; il risultato è un gesto verso cui non si può restare insensibili.
Infatti il pubblico apprezza eccome, e i pattinatori artistici diventano rapidamente delle star. Siccome fanno magie piacciono agli sportivi e anche a tutti gli altri, sposando sensibilità e aspettative diverse. Tuttavia, quando calano le luci e scende un silenzio di ghiaccio sulla pista, ogni spettatore si aspetta che i danzatori siano angeli e diano un volto al sogno. Nessuno pensa al peso dei corpi e alle centinaia di ore di allenamento che servono a imparare un passo o azzardare un salto. Nessuno s’immedesima nella tensione e nel brivido che precedono la partenza del brano musicale. Tutti pregustano la favola.