7. 

LE RADICI DELL'EMPATIA. 




Torniamo a Gary, il brillante chirurgo alessitimico che faceva tanto soffrire la fidanzata Ellen ignorando non solo i propri sentimenti, ma anche quelli di lei. Come la maggior parte degli alessitimici, egli mancava di empatia e di intuito. Se Ellen diceva di sentirsi giù, Gary non la capiva, né riusciva a condividere il suo stato; se lei parlava d'amore, lui cambiava argomento. Gary criticava in modo “costruttivo” le azioni di Ellen, senza rendersi conto che questo atteggiamento non la aiutava, ma la faceva sentire attaccata. 

L'empatia si basa sull'autoconsapevolezza; quanto più aperti siamo verso le nostre emozioni, tanto più abili saremo anche nel leggere i sentimenti altrui (1). Gli alessitimici come Gary, che non hanno alcuna idea di ciò che essi stessi provano, sono completamente perduti quando devono sapere che cosa senta chiunque altro intorno a loro. Dal punto di vista emotivo, è come se fossero sordi. Si lasciano sfuggire tutte le coloriture emotive delle parole e delle azioni altrui - un particolare tono di voce, un significativo cambiamento di posizione, un silenzio eloquente o un tremito rivelatore. 

Confusi sui propri sentimenti, gli alessitimici sono ugualmente sconcertati quando altre persone esprimono i loro. Questa incapacità di registrare i sentimenti altrui è un gravissimo deficit dell'intelligenza emotiva ed è una tragica menomazione del nostro essere umani. In qualunque tipo di rapporto, la radice dell'interesse per l'altro sta nell'entrare in sintonia emozionale, nella capacità di essere empatici. 

Questa capacità, che ci consente di sapere come si sente un altro essere umano, entra in gioco in moltissime situazioni, da quelle tipiche della vita professionale - si pensi alla giornata lavorativa di un venditore o un dirigente - a quelle della vita privata - le relazioni sentimentali e i rapporti fra genitori e figli - o ancora, nella compassione e nell'azione politica. Anche l'assenza di empatia è significativa: essa si osserva nei criminali psicopatici, negli stupratori e nei molestatori di bambini. 

Raramente le emozioni dell'individuo vengono verbalizzate; molto più spesso esse sono espresse attraverso altri segni. La chiave per comprendere i sentimenti altrui sta nella capacità di leggere i messaggi che viaggiano su canali di comunicazione non verbale: il tono di voce, i gesti, l'espressione del volto, e simili. Insieme ai suoi studenti, Robert Rosenthal, uno psicologo di Harvard, è probabilmente l'autore delle ricerche più estese sulla capacità umana di leggere questi messaggi non verbali. Rosenthal ha messo a punto un test per saggiare l'empatia, il Pons (Profile of Nonverbal Sensitivity, Profilo della sensibilità non verbale); il test si avvale di una serie di videocassette nelle quali una giovane donna esprime sentimenti che vanno dall'ilarità all'amore materno (2). Le scene spaziano dalla rappresentazione di una violenta gelosia alla richiesta di perdono, da una manifestazione di gratitudine a una seduzione. Il video è stato girato in modo da oscurare, in ciascun ritratto, uno o più canali di comunicazione non verbale; in alcune scene, ad esempio, oltre ad essere stato escluso l'audio, sono stati bloccati tutti gli altri canali, tranne quello rappresentato dall'espressione facciale. In altre scene, vengono mostrati solo i movimenti del corpo, e così via, per tutti i principali canali di comunicazione non verbale; in questo modo gli osservatori sono costretti a individuare l'emozione servendosi di un unico canale. 

Nei test, condotti su più di settemila persone negli Stati Uniti e in altri diciotto paesi, la capacità di leggere i sentimenti altrui da indizi non verbali comportava diversi vantaggi, fra i quali una maggiore adeguatezza emotiva, simpatia, estroversione e - il che non dovrebbe sorprendere - una maggiore sensibilità. In generale, le donne sono più brave degli uomini in questo tipo di empatia. Gli individui la cui prestazione andava migliorando nel corso dei quarantacinque minuti del test - segno, questo, che erano in grado di fare appello all'empatia - avevano anche rapporti migliori con l'altro sesso. L'empatia aiuta nella vita sentimentale, e neanche questo dovrebbe sorprenderci. 

In conformità con i risultati ottenuti relativamente ad altri elementi dell'intelligenza emotiva, fra i punteggi Pons assegnati all'acuità empatica e i punteggi Sat, il Q.I. o i test di rendimento scolastico vennero riscontrate solo correlazioni casuali. L'indipendenza dell'empatia dall'intelligenza accademica è stata confermata anche usando una versione del Pons ideata appositamente per i bambini. Nei test, eseguiti su 1011 bambini, i soggetti con attitudine a leggere i sentimenti espressi in modo non verbale erano fra i più amati dai loro compagni, e al tempo stesso quelli emotivamente più stabili (3). Questi soggetti avevano inoltre un rendimento scolastico migliore, anche se, in media, i loro Q.I. non erano più alti di quelli di bambini meno abili nella lettura dei messaggi non verbali - il che mostra come l'empatia faciliti il buon rendimento scolastico (o anche, come porti gli insegnanti a preferire i soggetti empatici agi altri). 

Se è vero che la normale modalità di espressione della mente razionale è la parola, quella delle emozioni è invece di natura non verbale. Quando le parole di un individuo non sono in armonia con quanto egli comunica con il tono di voce, i gesti o altri canali non verbali, la verità va ricercata nel “come” quell'individuo sta comunicando, non tanto in ciò che dice. Una regola empirica usata nella ricerca sulla comunicazione è che il 90 per cento o più di un messaggio emotivo viene comunicato attraverso canali non verbali. E tali messaggi - l'ansia che traspare dal tono di voce, l'irritazione tradita dalla rapidità di un gesto - sono quasi sempre recepiti in modo inconscio, senza prestare particolare attenzione alla natura del messaggio stesso, ma semplicemente ricevendolo e rispondendogli. Le capacità che ci consentono di fare ciò in modo più o meno efficace vengono, in massima parte, apprese in modo implicito. 




Come si sviluppa l'empatia. 


Quando Hope, di soli nove mesi, vide un'altra bambina cadere, gli occhi le si riempirono di lacrime; la piccola arrancò carponi dalla mamma per farsi consolare, come se a farsi male fosse stata lei, e non l'amichetta. E Michael, di quindici mesi, andò a prendere il proprio orsacchiotto per darlo al suo amico Paul, che piangeva; poiché quello continuava a disperarsi, Michael andò a prendergli la copertina che usava per farsi coraggio. Entrambi questi piccoli atti di comprensione e premura vennero osservati da madri istruite a registrare tali episodi di empatia quando si verificavano (4). I risultati dello studio indicano che è possibile rintracciare il germe dell'empatia fin nella prima infanzia. Praticamente, dal giorno stesso della nascita i neonati sono turbati dal pianto di un altro bambino - una reazione che alcuni considerano come il precursore dell'empatia (5). 

Gli psicologi dello sviluppo hanno scoperto che i bambini molto piccoli provano sentimenti di sofferenza simpatica prima di rendersi pienamente conto della propria esistenza come entità separata dalle altre. Anche a pochi mesi dalla nascita, i bambini reagiscono al turbamento altrui come a un turbamento proprio, ad esempio piangendo alla vista delle lacrime di un altro bambino. A circa un anno, in una situazione analoga, cominciano a rendersi conto che la sofferenza non appartiene a loro ma a qualcun altro, sebbene sembrino ancora confusi sul da farsi. In una ricerca condotta da Martin L. Hoffman alla New York University, ad esempio, un bambino di un anno portò la propria madre da un amichetto che piangeva affinché lo confortasse, ignorando la madre del bambino, che si trovava anch'essa nella stanza. Questa confusione si osserva anche quando, intorno a un anno di età, i bambini imitano la sofferenza altrui, forse per meglio comprendere ciò che l'altro sta provando; ad esempio, se una bambina si fa male alle dita, un'altra bimbetta di un anno potrebbe mettersi la mano in bocca per vedere se fa male anche a lei. Alla vista del pianto della sua mamma, un bambino si stropicciò gli occhi, sebbene non ci fossero lacrime da asciugare. 

Questo “mimetismo motorio”, come viene chiamato, è il significato tecnico originale della parola “empatia”, nell'accezione in cui essa venne usata la prima volta negli anni Venti da E. B. Titchener, uno psicologo americano. Questo significato è leggermente diverso da quello con il quale la parola greca “empatheia”, “sentire dentro”, venne originariamente introdotta nell'inglese: si trattava di un termine inizialmente usato dai teorici dell'estetica per indicare la capacità di percepire l'esperienza soggettiva altrui. Secondo la teoria di Titchener, l'empatia scaturiva da una sorta di imitazione fisica della sofferenza altrui, che poi evocava gli stessi sentimenti anche nell'imitatore. Egli cercava una parola che fosse distinta da “simpatia”, la benevola compassione che si può provare per la sofferenza altrui ma che non comporta alcuna condivisione. Il mimetismo motorio svanisce dal repertorio dei bambini intorno all'età di due anni e mezzo, quando essi capiscono che il dolore altrui è diverso dal proprio e riescono a consolare meglio gli altri. Ecco un tipico episodio, tratto dal diario di una madre: 


“Il bambino di una vicina piange... e Jenny si avvicina e prova a dargli dei biscotti. Lo segue e comincia a piagnucolare anche lei. Poi cerca di accarezzargli i capelli, ma lui la respinge... Il bambino si calma ma Jenny sembra ancora preoccupata. Continua a portargli giocattoli e a battergli amichevolmente la manina sulla testa e le spalle” (6).


A questo punto del loro sviluppo i bambini cominciano a differire gli uni dagli altri per la loro sensibilità verso i turbamenti emotivi altrui; alcuni, come Jenny, ne sono acutamente consapevoli, mentre altri sembrano desintonizzarsi. Una serie di studi condotti da Marian Radke-Yarrow e Carolyn Zahn-Waxler al National Institute of Mental Health ha dimostrato che gran parte di questa differenza di empatia era legata al modo in cui i genitori riprendevano i propri figli. I bambini erano più empatici quando il rimprovero comprendeva un forte richiamo dell'attenzione sulla sofferenza e il disagio che il loro comportamento sbagliato aveva causato a qualcun altro. In altre parole, quando essi dicevano: “Guarda come l'hai fatta soffrire”, invece di “E' stata una cattiveria”. Radke-Yarrow e Zahn-Waxler scoprirono inoltre che l'empatia dei bambini si forma osservando il modo in cui gli altri reagiscono alla sofferenza altrui; imitando ciò che vedono, i bambini sviluppano un repertorio di risposte empatiche, che usano soprattutto quando aiutano altre persone che stanno soffrendo. 




Il bambino ben sintonizzato. 


Sarah aveva venticinque anni quando diede alla luce due gemelli, Mark e Fred. Mark, secondo lei, le somigliava di più, mentre Fred era più simile al padre. Questa percezione probabilmente fu all'origine della differenza, significativa sebbene appena percettibile, del suo modo di trattare i due bambini. Quando i gemelli ebbero tre mesi, Sarah cercava spesso di incrociare lo sguardo di Fred, e quando lui girava la faccia, lei cercava nuovamente di guardarlo negli occhi; Fred rispondeva allora voltandosi più enfaticamente. Quando la madre desisteva, Fred ricominciava a guardarla, e il ciclo di inseguimento e allontanamento ricominciava daccapo - spesso con il risultato di lasciare Fred in lacrime. Con Mark, invece, Sarah non cercò mai di imporre il contatto visivo come faceva con Fred. Mark poteva interrompere il contatto quando voleva, e lei non cercava di ristabilirlo. Una differenza piccola, certo, ma significativa. Un anno più tardi, Fred era considerevolmente più pauroso di Mark; uno dei modi in cui mostrava la sua paura era di interrompere il contatto visivo con le altre persone, proprio come faceva con la madre all'età di tre mesi, distogliendo lo sguardo o abbassandolo. Mark, d'altro canto, guardava la gente dritto negli occhi; quando voleva interrompere il contatto, girava leggermente la testa verso l'alto e poi di lato, con un sorriso di vittoria. Sarah e i suoi gemelli vennero osservati così meticolosamente nell'ambito di una ricerca condotta da Daniel Stern, uno psichiatra che allora lavorava alla facoltà di medicina della Cornell University (7). Stern è affascinato dai piccoli, ripetuti scambi che hanno luogo fra genitori e figli; e crede che i fondamenti della vita emotiva vengano posti in questi momenti di grande intimità. Di tutti questi istanti, i più critici sono quelli che consentono al bambino di sapere che le sue emozioni incontrano l'empatia dell'altro, sono accettate e ricambiate, in un processo che Stern chiama “attunement” - “sintonizzazione”. La madre dei gemelli era in sintonia emotiva con Mark, mentre non lo era con Fred. Stern sostiene che gli infiniti momenti di sintonizzazione e desintonizzazione fra genitori e figli plasmano le aspettative emotive che gli adulti immettono nel rapporto - forse molto di più di quanto non facciano gli eventi più drammatici dell'infanzia. 

La sintonizzazione avviene tacitamente: viene inserita come un elemento ritmico della relazione. Stern ha studiato il processo con precisione microscopica videoregistrando per ore il comportamento delle madri con i propri bambini. Egli ha scoperto che attraverso la sintonizzazione, le madri comunicano ai figli di percepire i loro sentimenti. Supponiamo, ad esempio, che una bambina emetta un gridolino di piacere: la madre confermerà quella sensazione dondolandola leggermente, parlando amorevolmente con lei o intonando la propria voce su quella della piccola. Oppure, immaginiamo che un bambino scuota il suo sonaglio e che la madre gli risponda con un rapido dondolio. In questo tipo di interazione, il messaggio di conferma sta nel fatto che la madre presenta più o meno lo stesso livello di eccitazione del piccolo. Questi piccoli gesti finalizzati a entrare in sintonia con il proprio bambino danno a quest'ultimo la sensazione rassicurante di essere emotivamente collegato alla madre: Stern ha riscontrato che quando interagiscono con i figli le madri emettono questo messaggio circa una volta al minuto. La sintonizzazione è molto diversa dalla semplice imitazione. “Se imiti un bambino” mi disse Stern “questo dimostra solamente che sai quel che egli sta facendo ma non come effettivamente si senta mentre lo fa. Se vuoi comunicargli che percepisci le sue sensazioni, devi riprodurgli i suoi sentimenti interiori in un altro modo. E' solo allora che il bambino sa di essere compreso.”

Nella vita adulta, il fare l'amore è l'atto che forse si avvicina di più a questa sintonizzazione fra madre e figlio. Secondo Stern, l'atto sessuale “implica la percezione dello stato soggettivo dell'altro: la condivisione del desiderio, un'armonia di intenzioni, e un'attivazione reciproca sincronizzata”; le risposte degli amanti mostrano una sintonia che dà implicitamente la percezione di un rapporto profondo (8). Nel migliore dei casi, fare l'amore è un atto di empatia reciproca; nel peggiore, invece, esso manca completamente di questa reciprocità emotiva. 




Il prezzo della mancata sintonizzazione. 


Stern sostiene che il bambino, facendo riferimento a questi ripetuti momenti di sintonizzazione, comincia a sviluppare la percezione che gli altri possano e vogliano condividere i suoi sentimenti. Questa sensazione sembra emergere intorno agli otto mesi, quando il bambino comincia a capire di essere un'entità separata dagli altri, per poi continuare, durante tutta la vita, a formarsi attraverso le relazioni intime. Quando i genitori non sono in sintonia con il figlio, la situazione induce in lui un profondo turbamento. In un esperimento, Stern fece in modo che le madri rispondessero deliberatamente troppo o troppo poco ai propri bambini, invece di entrare in sintonia con loro; i bambini reagivano immediatamente con preoccupazione e disagio. 

La prolungata assenza di sintonia fra genitori e figli impone al bambino un costo enorme in termini emozionali. Quando un genitore non riesce mai a mostrare alcuna empatia con una particolare gamma di emozioni del bambino - gioia, pianto, bisogno di essere cullato - questi comincia a evitare di esprimerle, e forse anche di provarle. In questo modo, presumibilmente, numerose emozioni cominciano ad essere cancellate dal repertorio delle relazioni intime, soprattutto se, anche in seguito durante l'infanzia, quei sentimenti continuano ad essere copertamente o apertamente scoraggiati. 

Per lo stesso motivo, i bambini possono arrivare a preferire una gamma di emozioni infelici, a seconda di quali di esse vengono ricambiate dai genitori. Perfino i bambini piccolissimi “colgono” gli stati d'animo: i figli di madri depresse, ad esempio, a soli tre mesi rispecchiavano lo stato d'animo delle loro madri quando giocavano con loro, mostrando un maggior numero di sentimenti di collera e tristezza, e molta meno curiosità e interesse spontanei, rispetto ai bambini le cui madri non erano depresse (9). 

Nello studio di Stern una madre reagiva sempre a un livello inferiore a quello del proprio bambino, che alla fine imparò ad essere passivo. Stern sostiene che “un bambino trattato in quel modo impara a ragionare così: 'quando sono eccitato non riesco a ottenere che anche mia madre si ecciti allo stesso modo, perciò tanto vale che non ci provi nemmeno'“. Tuttavia, nelle relazioni “riparative” c'è speranza: “Le relazioni della vita - con amici o parenti, ad esempio, o nella psicoterapia - riplasmano in continuazione il modo di relazionarsi dell'individuo. Uno squilibrio insorto a un certo punto della vita può essere corretto più tardi; si tratta di un processo continuo che dura tutta la vita”. 

In verità, diverse teorie della psicoanalisi ritengono che la relazione terapeutica fornisca esattamente un correttivo emozionale di questo tipo, un'esperienza riparatrice di sintonizzazione. “Rispecchiare” è il termine usato da alcuni teorici della psicoanalisi per riferirsi al terapeuta che riflette al cliente la comprensione del suo stato interiore, proprio come fa una madre in sintonia con il proprio bambino. La sincronia emozionale è una consapevolezza cosciente esteriore, non formulata, sebbene un paziente possa bearsi nella sensazione di essere riconosciuto e profondamente compreso. 

Nell'arco di tutta la vita, il prezzo da pagare per la mancanza di sintonia durante l'infanzia può essere molto alto - e non solo per il bambino. In uno studio su criminali che commisero i delitti più efferati e violenti si scoprì che essi avevano fatto la spola da una famiglia adottiva all'altra, o erano stati allevati in orfanotrofi: in altre parole, avevano delle biografie che lasciavano intuire trascuratezza emozionale e ben poche opportunità di entrare in sintonia con gli altri (10). 

Mentre la trascuratezza emozionale sembra smorzare l'empatia, nei soggetti sottoposti a violenze psicologiche intense e prolungate - ad esempio minacce crudeli e sadiche, umiliazioni e completa miseria - si osservano conseguenze paradossali. I bambini che sopportano tali abusi possono infatti diventare ipersensibili alle emozioni altrui; si tratta di una reazione derivante da una vigilanza post-traumatica agli indizi segnalanti una minaccia. Questa preoccupazione ossessiva per i sentimenti altrui è tipica dei bambini che subiscono abusi psicologici, i quali in età adulta vanno incontro a quegli alti e bassi emozionali, intensi e mercuriali, a volte diagnosticati come “disturbo borderline della personalità”. Molti di tali pazienti riescono a percepire molto bene i sentimenti altrui, ed è assai comune che riferiscano di aver subito violenze psicologiche durante l'infanzia. 




La neurologia dell'empatia. 


Come accade tanto spesso in neurologia, la descrizione di casi stravaganti e bizzarri è stata il primo indizio verso la scoperta della base cerebrale dell'empatia. Un articolo pubblicato nel 1975, ad esempio, descriveva diversi casi di pazienti con particolari lesioni localizzate nel lobo frontale destro e che presentavano uno strano deficit: erano incapaci di comprendere i messaggi emozionali dal tono di voce, sebbene fossero perfettamente in grado di capirne le parole. Per loro, un “grazie” sarcastico, animato dall'irritazione o da sincera gratitudine era sempre portatore dello stesso significato neutrale. Nel 1979, un altro studio descrisse pazienti con lesioni localizzate in altre regioni dell'emisfero destro, che avevano un deficit diverso nella loro percezione emozionale. Questi soggetti erano incapaci di esprimere le proprie emozioni con il tono di voce e i gesti. Essi erano consapevoli di ciò che provavano, solo che non riuscivano a comunicarlo. Le regioni corticali oggetto delle lesioni descritte avevano forti connessioni con il sistema limbico, come non mancarono di osservare i diversi autori. 

Questi studi furono passati in rassegna da Leslie Brothers, uno psichiatra del California Institute of Technology, che li analizzò per scrivere un importantissimo articolo sulla biologia dell'empatia (12). Analizzando sia i dati neurologici, sia gli studi comparativi condotti sugli animali, Brothers indicò l'amigdala e le sue connessioni con le aree associative della corteccia visiva come parte di un circuito cerebrale fondamentale per l'empatia. 

Gran parte della ricerca neurologica sull'argomento è stata condotta su animali, soprattutto su primati non umani. Il fatto che in questi animali esista l'empatia - o “comunicazione emozionale”, come preferisce chiamarla Brothers - traspare in modo evidente non solo da diversi aneddoti, ma anche da numerosi studi. In uno di essi, coppie di scimmie rhesus vennero addestrate a temere un suono particolare che gli veniva sempre presentato in associazione a uno shock elettrico. Gli animali imparavano poi a evitare lo shock spingendo una leva ogni qualvolta udivano il suono. In seguito, i membri di ciascuna coppia vennero alloggiati in gabbie separate, e l'unica comunicazione permessa fra loro era una televisione a circuito chiuso, che consentiva a entrambe di vedere l'immagine della faccia dell'altra. Poi, una sola delle due scimmie sentiva il suono temuto, che induceva in lei un'espressione di spavento. In quel momento, l'altro animale, vedendo la paura sulla faccia della compagna, spingeva la leva per evitarle lo shock - un atto che possiamo definire di empatia, se non proprio di altruismo. 

Una volta accertato che i primati non umani leggono le emozioni sulla faccia dei propri simili, i ricercatori impiantarono elettrodi lunghi e sottili nel cervello delle scimmie, facendo attenzione a non causare lesioni. La registrazione, consentita da questi particolari elettrodi, dell'attività di singoli neuroni della corteccia visiva e dell'amigdala permise di dimostrare che, quando una scimmia vedeva la faccia dell'altra, l'informazione induceva una scarica neuronale dapprima nella corteccia visiva, e poi nell'amigdala. Questa via, naturalmente, è un percorso standard per le informazioni che inducono un'attivazione emozionale. Ma quel che era sorprendente, in questi risultati, è che essi permisero anche di identificare alcuni neuroni della corteccia visiva che sembrano scaricare “solo” in risposta a particolari espressioni facciali o a gesti specifici, come l'apertura minacciosa della bocca, una smorfia di paura, o un atteggiamento di docile sottomissione. Questi neuroni sono distinti da altri, pur presenti nella stessa regione, che rispondono alla vista di facce familiari. Tali dati sembrano indicare che il cervello è costruito fin dal principio per rispondere all'espressione di emozioni specifiche - in altre parole, che l'empatia è una premessa biologica. 

Un'altra ricerca che ha dimostrato il ruolo chiave della via nervosa che connette l'amigdala alla corteccia nell'interpretazione delle emozioni e nella risposta ad esse è, secondo Brothers, quella condotta su scimmie allo stato selvatico, alle quali dette connessioni venivano resecate chirurgicamente. Quando gli animali operati si riunivano al proprio gruppo, erano ancora in grado di competere con gli altri nello svolgimento di compiti ordinari quali il foraggiamento e l'arrampicarsi sugli alberi. Ma queste povere scimmie avevano perso completamente la percezione di come rispondere emozionalmente agli altri membri del gruppo. Se un'altra scimmia tentava un approccio amichevole, gli animali operati scappavano via; essi finirono per condurre una vita da emarginati, eludendo il contatto con i membri del loro gruppo. 

Le stesse regioni corticali nelle quali sono concentrati i neuroni specifici per le emozioni, sono anche, come osserva Brothers, quelle con il maggior numero di connessioni con l'amigdala; la lettura delle emozioni coinvolge il circuito fra amigdala e corteccia, che ha un ruolo fondamentale nell'orchestrare le risposte appropriate. Per i primati non umani, “il valore per la sopravvivenza di un tale sistema è ovvio”, osserva Brothers. “La percezione dell'approccio di un altro individuo dovrebbe dare origine - molto velocemente - a una [risposta fisiologica] specifica fatta su misura, a seconda che l'intenzione sia quella di mordere, di accingersi a una tranquilla seduta di 'bellezza', o di copulare” (13). 

La ricerca di Robert Levenson, psicologo della California University di Berkeley, indica come anche in noi esseri umani l'empatia possa avere una base fisiologica simile. Levenson ha studiato alcune coppie di coniugi i cui membri cercavano di indovinare ciò che provasse il partner durante un'accesa discussione (14). Il metodo è semplice: la coppia viene videoregistrata e le reazioni fisiologiche dei due partner sono misurate mentre essi parlano di un penoso problema che grava sul loro matrimonio (a chi tocchi rimproverare i figli, le abitudini riguardanti le spese, e simili). Ogni partner, poi, rivede il nastro e spiega, momento per momento, quali fossero i suoi sentimenti durante la discussione. Poi lo stesso soggetto rivede una seconda volta la registrazione, cercando ora di leggere i sentimenti dell'“altro”. 

La massima accuratezza empatica si osservava in quei coniugi che, guardando il partner, “ne mimavano la fisiologia”. In altre parole, quando la reazione del coniuge era un'abbondante sudorazione, anche loro reagivano in modo analogo; quando il partner presentava un calo della frequenza cardiaca, anche il cuore del coniuge rallentava. In breve, il loro corpo mimava, attimo per attimo, le impercettibili reazioni fisiche del partner. I soggetti che invece si limitavano a ripetere quella che era stata la loro risposta fisiologica durante l'interazione originale non riuscivano a immaginare ciò che avesse provato il partner. L'empatia era possibile solo quando il corpo dei membri della coppia era in sincronia. 

Questo indica che quando il cervello emozionale sta scatenando una forte reazione - ad esempio, una collera violenta - l'empatia è scarsa o addirittura assente. Per essere empatico, il soggetto deve essere abbastanza calmo e recettivo da poter ricevere i sottili segnali emozionali emessi da un'altra persona e mimarli nel proprio cervello emozionale. 




Empatia ed etica: le radici dell'altruismo. 


“E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te”: ecco uno dei versi più famosi della letteratura inglese. Il sentimento di John Donne parla al nostro cuore del legame fra empatia e attenzione partecipe: il dolore altrui è dolore nostro. Provare un sentimento insieme a un altro essere umano significa essere emozionalmente partecipi. In questo senso, l'opposto di “empatia” è “antipatia”. Spesso l'atteggiamento empatico entra in gioco quando si formulano giudizi morali, in quanto i problemi etici comportano la presenza di vittime potenziali. Per non ferire i sentimenti di un amico, è giusto mentire? Dovreste mantenere la promessa di visitare un amico ammalato o accettare invece un invito a cena arrivato all'ultimo momento? In quali casi si deve mantenere in funzione l'apparecchiatura che tiene in vita qualcuno che altrimenti morirebbe? 

Tali questioni morali sono state formulate da Martin Hoffman, un ricercatore che si occupa di empatia; egli sostiene che le radici della moralità siano da ricercarsi nell'empatia, dal momento che gli individui si sentono spinti ad aiutare gli altri - qualcuno che soffre, è in pericolo o patisce per una privazione - proprio perché empatizzano con queste potenziali vittime e quindi ne condividono la pena (15). Al di là di questo legame immediato esistente fra empatia e altruismo nelle relazioni interpersonali, Hoffman propone che la stessa capacità di provare un affetto empatico, in altre parole di mettersi nei panni degli altri, induca la gente a seguire certi principi morali. 

Hoffman ritiene che l'empatia vada sviluppandosi in modo naturale a partire dall'infanzia. Come abbiamo visto, a un anno di età un bambino si sente profondamente a disagio quando ne vede un altro cadere e comincia a piangere; il suo rapporto con l'altro è talmente forte e immediato da indurlo a mettersi il pollice in bocca e a seppellire la testa nel grembo della madre, come se si fosse fatto male lui stesso. Dopo il primo anno di vita, quando acquistano una maggior consapevolezza del fatto di essere entità distinte dagli altri, i bambini cercano di consolare attivamente un coetaneo che piange offrendogli, ad esempio, degli orsacchiotti. Già all'età di due anni, i bambini cominciano a rendersi conto che i sentimenti degli altri sono diversi dai loro, e perciò diventano più sensibili ai segnali che rivelano i sentimenti altrui; a questo punto, ad esempio, i bambini possono rendersi conto che il modo migliore di aiutare un altro che piange senza ferirne l'orgoglio non è certo quello di attirare un'inopportuna attenzione su di lui. 

Verso la fine dell'infanzia emerge il livello più avanzato di empatia; i bambini, infatti, sono ora in grado di comprendere la sofferenza anche al di là della situazione contingente, e capiscono che la condizione o la posizione nella vita possono essere causa di uno stato di sofferenza cronico. A questo punto essi possono provare sentimenti di pena per un intero gruppo, ad esempio per i poveri, gli oppressi e gli emarginati. Questa comprensione, nell'adolescenza, può portare al radicarsi di convinzioni morali imperniate sul desiderio di alleviare l'infelicità e l'ingiustizia. 

L'empatia è alla base di molti aspetti del giudizio e dell'azione morale. Uno di essi è la “collera empatica”, che John Stuart Mill descriveva come “il sentimento naturale di vendetta [...] reso applicabile dall'intelletto e dalla simpatia a [...] quei mali che ci offendono perché feriscono gli altri”; Mill chiamò questo sentimento il “guardiano della giustizia”. Un altro esempio nel quale l'empatia porta all'azione morale è quando lo spettatore di un evento si sente spinto a intervenire a favore della vittima; la ricerca dimostra che quanto maggiore è l'empatia provata dallo spettatore per la vittima, tanto più probabile sarà il suo intervento. Ci sono alcune prove del fatto che il livello di empatia provata dagli individui influenza anche i loro giudizi morali. Ad esempio, studi condotti in Germania e negli Stati Uniti hanno rivelato che quanto maggiore è l'empatia degli individui, tanto più essi approvano il principio secondo il quale le risorse dovrebbero essere distribuite in base alle reali esigenze della gente (16). 




La vita senza empatia - il molestatore e il sociopatico. 


Eric Eckardt fu implicato in un crimine infame: guardia del corpo della pattinatrice Tonya Harding, Eckardt aveva assoldato dei delinquenti affinché tendessero un agguato a Nancy Kerrigan, rivale della Harding per la medaglia d'oro nel pattinaggio artistico alle Olimpiadi del 1994. Nell'aggressione, la Kerrigan si fece male a un ginocchio, e questo la costrinse a starsene a riposo durante quelli che dovevano essere mesi fondamentali per il suo allenamento. Ma quando Eckardt vide la Kerrigan singhiozzante alla televisione, fu improvvisamente pervaso dal rimorso, e cercò un amico con il quale confidarsi, innescando così la sequenza di avvenimenti che portò all'arresto degli aggressori. Questo è il potere dell'empatia. 

Di solito, però, essa è tragicamente assente in coloro che commettono i crimini più abietti. Una condotta psicologicamente disturbata è un tratto comune negli stupratori, nei molestatori di bambini e in molti individui che scaricano la propria violenza sui familiari: essi sono incapaci di empatia. L'insensibilità verso il dolore delle proprie vittime consente a questi soggetti di mentire a se stessi, incoraggiando così il proprio comportamento criminale. Nel caso degli stupratori, la menzogna sarà “Le donne vogliono davvero essere violentate” oppure “Se resiste, è solo perché vuole fare un gioco duro”; nel caso dei molestatori “Non sto facendo del male alla bambina, sto solo dimostrandole amore”, oppure “Questa non è che un'altra forma di affetto”; e in quello dei genitori fisicamente violenti con i figli “Non è che disciplina”. Queste autogiustificazioni sono un campione fra quelle che individui in cura per questi problemi riferivano di aver detto a se stessi mentre brutalizzavano le loro vittime o si preparavano a farlo. 

In questi individui, la cancellazione dell'empatia verso le proprie vittime fa quasi sempre parte di un ciclo emozionale che precipita i loro atti crudeli. Osserviamo la sequenza emozionale che porta solitamente a un crimine sessuale, ad esempio a una molestia nei confronti di una bambina (17). Il ciclo comincia quando il molestatore si sente in qualche modo turbato: in collera, depresso o solo. Questi sentimenti possono essere innescati, ad esempio, dalla vista di una coppia felice alla televisione, e quindi dalla depressione derivante dal sentirsi solo. Il molestatore cerca allora sollievo in una delle sue fantasie preferite, di solito imperniata sulla calda amicizia con una bambina; essa assume poi i contorni di una fantasia sessuale e si conclude con la masturbazione. In seguito, il molestatore prova un temporaneo sollievo dal suo abbattimento, ma si tratta di un fenomeno di breve durata; la depressione e la solitudine ritornano ancora più forti. Egli comincia allora a pensare di mettere in atto la propria fantasia, giustificando a se stesso il progetto dicendo “Non c'è nulla di male, se la bambina non avrà lesioni fisiche” e “Se una bambina davvero non vuole avere un rapporto sessuale con me, può fermarmi”. 

A questo punto il molestatore vede la vittima attraverso le lenti della sua fantasia perversa, senza empatizzare con i veri sentimenti di una bambina reale in quella situazione. Questo distacco emozionale caratterizza tutti gli eventi successivi - da quando egli escogita un piano per trovarsi da solo con la bambina, alla fase in cui ripercorre mentalmente nei minimi dettagli tutto quanto ha previsto, fino al momento dell'esecuzione materiale del piano. Tutto avviene come se la bambina coinvolta non avesse sentimenti suoi; piuttosto, il molestatore proietta su di lei l'atteggiamento cooperativo della bambina della sua fantasia. I sentimenti di lei - repulsione, paura, disgusto - non vengono registrati nella mente del molestatore: se lo fossero, “rovinerebbero” tutto. 

Questa completa mancanza di empatia per le proprie vittime è al centro dei nuovi trattamenti messi a punto per i molestatori di bambini e altri criminali di questo tipo. In uno dei programmi di cura più promettenti, questi soggetti leggevano strazianti resoconti di crimini simili ai propri, raccontati dalla prospettiva della vittima. Essi guardavano anche un video in cui le vittime raccontavano fra le lacrime l'esperienza della molestia. I criminali poi dovevano scrivere qualcosa sul loro stesso atto di violenza dal punto di vista della vittima, immaginando che cosa avesse provato. Essi leggevano questo resoconto nel corso della loro terapia di gruppo, e cercavano di rispondere, immedesimandosi con la vittima, alle domande che venivano loro poste sull'aggressione. Infine, il criminale affrontava una messa in scena simulata del proprio crimine, stavolta però recitando la parte della vittima. 

William Pithers, lo psicologo del carcere del Vermont che ha sviluppato questo tipo di terapia, mi disse: “L'empatia con la vittima modifica la percezione a tal punto che la negazione del dolore, anche nelle proprie fantasie, diventa difficile”, e pertanto rafforza la motivazione a combattere i propri perversi impulsi sessuali. Gli autori di crimini sessuali che avevano partecipato a questo programma durante la carcerazione, dopo il rilascio incorrevano nello stesso reato in misura dimezzata rispetto a quelli non sottoposti al trattamento. Senza questa motivazione iniziale, ispirata dall'empatia, la parte restante del trattamento non funziona. 

Sebbene possa esserci una piccola speranza di instillare un senso di empatia in personalità violente quali i molestatori di bambini, se ne può invece nutrire molta meno nei confronti di un altro tipo di criminale, lo psicopatico (più recentemente chiamato “sociopatico” come diagnosi psichiatrica). Gli psicopatici sono tipi interessanti, notoriamente del tutto privi di rimorso anche per gli atti più crudeli e spietati. La psicopatia, ossia l'incapacità di sentire empatia o compassione di sorta, e anche rimorsi di coscienza, è uno dei disturbi emozionali più sconcertanti. La freddezza dello psicopatico sembra essere imperniata su un'incapacità di spingersi oltre le connessioni emozionali più superficiali. I criminali più crudeli, ad esempio i serial killer che godono sadicamente della sofferenza delle proprie vittime prima della morte, sono l'incarnazione stessa della psicopatia (18). 

Gli psicopatici sono anche mentitori spregiudicati, disposti a dire qualunque cosa per ottenere ciò che vogliono, e manipolano le emozioni della vittima con lo stesso cinismo. Consideriamo Faro, un membro di una banda di Los Angeles che, durante una sparatoria in auto descritta più con orgoglio che con rimorso, ferì una madre con il suo bambino, rimasti poi paralizzati. Trovandosi in macchina con Leon Bing, che stava scrivendo un libro su bande di Los Angeles come quelle dei Crips e dei Bloods, Faro voleva mettersi in mostra. Disse allora a Bing che avrebbe fatto “la faccia del matto” ai “due damerini” che si trovavano nella macchina che li precedeva. Ecco il resoconto di Bing: 


“Il guidatore, sentendosi osservato, lancia un'occhiata alla mia auto. I suoi occhi entrano in contatto con quelli di Faro, e si spalancano per un istante. Poi interrompe il contatto, abbassa lo sguardo, lo rivolge altrove. E non ho dubbi su ciò che ho visto in quegli occhi: era paura”. 


Faro diede poi a Bing una dimostrazione dello sguardo che aveva lanciato all'autista: 


"Mi guarda diritto negli occhi e tutto, nella sua faccia, cambia e si modifica, come per effetto di un trucco in una ripresa al rallentatore. Diventa una faccia da incubo, una cosa paurosa. E' un'espressione pregna di minaccia: se ricambierai lo sguardo, se lo sfiderai, sarà meglio per te che tu sia in grado di difenderti. Il suo aspetto tradisce che non gliene importa di nulla, né della tua vita, né della sua“ (19). 


Naturalmente, in un comportamento complesso come il crimine, ci sono molte spiegazioni plausibili che non fanno appello a meccanismi biologici. Ad esempio, una capacità emozionale perversa - quella di spaventare gli altri - potrebbe avere un valore di sopravvivenza nei quartieri violenti, come potrebbe anche averlo il ricorrere al crimine; in questi casi troppa empatia potrebbe rivelarsi controproducente. In verità, un'opportunistica mancanza di empatia potrebbe essere una “virtù” in molti ruoli della vita, ad esempio in quello del “poliziotto cattivo” durante gli interrogatori, o in quello del finanziere senza scrupoli. Uomini che hanno fatto i torturatori per governi dispotici, ad esempio, raccontano che appresero a dissociarsi dai sentimenti delle proprie vittime in modo da poter fare il loro “lavoro”. Ci sono molte vie che portano alla manipolazione. 

Uno dei modi più terribili in cui può manifestarsi questa mancanza di empatia è stato scoperto accidentalmente in uno studio sui più feroci mariti violenti. La ricerca ha rivelato un'anomalia fisiologica in molti di questi soggetti, che regolarmente picchiano le proprie mogli o le minacciano con coltelli o armi da fuoco: essi lo fanno in uno stato mentale freddo e calcolatore, e non perché in preda alla furia (20). Quando la loro collera aumenta, ecco emergere l'anomalia: la loro frequenza cardiaca diminuisce invece di diventare sempre più alta, come accade normalmente quando la collera diventa rabbia violenta. Ciò significa che essi diventano più calmi dal punto di vista fisiologico, proprio nel momento in cui si fanno invece più bellicosi e violenti. La loro violenza sembra essere un atto di terrorismo calcolato, un metodo per controllare le loro mogli incutendo in loro il terrore. 

Questi mariti freddamente brutali sono diversi dalla maggior parte degli altri uomini che picchiano le loro mogli. Intanto, è molto più probabile che essi siano violenti anche al di fuori delle mura domestiche, e che restino implicati in risse da bar e in liti fra colleghi o con altri membri della famiglia. E mentre la maggior parte degli uomini che diventano violenti con le proprie mogli lo fanno spinti dall'impulso, infuriati perché si sentono respinti o sono gelosi, o per la paura di essere abbandonati, questi violenti calcolatori si accaniscono invece contro le proprie mogli senza apparenti ragioni - e una volta che cominciano, non c'è nulla che la donna possa fare (nemmeno cercare di scappare) che sembri contenere la loro violenza. 

Alcuni ricercatori che studiano i criminali psicopatici sospettano che la loro fredda capacità di manipolazione, ad esempio l'assenza di empatia o di attenzione per l'altro, possa a volte derivare da un difetto di natura neurale (nota *). Una possibile base fisiologica dello spietato comportamento dello psicopatico è stata dimostrata in due modi; entrambi suggeriscono l'implicazione di vie neurali che portano al sistema limbico. In un caso, le onde cerebrali dei soggetti vengono misurate mentre essi cercano di decifrare alcune parole anagrammate. Le parole vengono mostrate molto velocemente, per appena un decimo di secondo o pressappoco. La maggior parte delle persone reagisce in modo diverso a parole neutrali come ”sedia“ e a parole con una forte valenza emozionale, come ad esempio ”uccidere"; esse riescono a decidere più rapidamente se la parola anagrammata è una di quelle con valenza emozionale, e in risposta a tali parole il cervello mostra onde caratteristiche, che non compaiono in risposta alle parole neutrali. Ma gli psicopatici non presentano nessuna di queste due reazioni: il loro cervello non mostra le onde caratteristiche in risposta alle parole con valenza emozionale né costoro rispondono più rapidamente ad esse; ciò indica una disorganizzazione delle connessioni fra le aree corticali sede delle abilità verbali, che riconoscono la parola, e il sistema limbico, che le attribuisce l'emozione. 

Robert Hare, lo psicologo della British Columbia University che ha compiuto questa ricerca, interpreta questi risultati ipotizzando che gli psicopatici abbiano una comprensione solo superficiale delle parole con valenza emozionale, un deficit che riflette la loro superficialità più generale in campo affettivo. La durezza degli psicopatici, secondo Hare, si basa in parte anche su un altro schema fisiologico che egli aveva scoperto in precedenti ricerche e che indica un'irregolarità nella funzione dell'amigdala e dei circuiti ad essa collegati: gli psicopatici sul punto di ricevere uno shock elettrico non mostrano alcun segno di paura, risposta che sarebbe peraltro ovvio attendersi nelle persone normali in procinto di provare dolore (21). Poiché la prospettiva del dolore non innesca un'ondata di ansia, Hare sostiene che gli psicopatici non si preoccupano di essere puniti per ciò che fanno. E poiché essi stessi non sentono paura, non hanno empatia alcuna - né compassione - per la paura e il dolore delle proprie vittime.


NOTA * Un invito alla prudenza: se in certi tipi di criminalità sono in gioco dei meccanismi biologici - ad esempio un difetto neurale nell'empatia - ciò non significa che tutti i criminali abbiano dei problemi biologici, né che ci sia una sorta di marker biologico del crimine. Su questo problema è infuriata una controversia; la maggior parte degli studiosi concorda sul fatto che tale marker non esista, come sicuramente non c'è nemmeno un “gene per la criminalità”. Anche se in alcuni casi la mancanza di empatia può avere una base biologica, ciò non significa assolutamente che tutti coloro che condividono questi tratti biologici debbano scivolare nel crimine; anzi, nella maggior parte dei casi, ciò non avverrà affatto. La mancanza di empatia dovrebbe essere considerata insieme a tutti quegli altri fattori - forze di ordine psicologico, economico e sociale - che contribuiscono a spingere l'individuo verso la criminalità.