Quando le passioni hanno il sopravvento sulla ragione. 


Quella che sto per narrarvi fu un'autentica tragedia degli errori. Quando Matilda Crabtree, una ragazzina di quattordici anni, saltò fuori dall'armadio di camera sua gridando “Buh!” al padre, aveva solo intenzione di fare uno scherzo ai genitori che rientravano dopo essere stati a casa d'amici. Ma il padre, sentendo dei rumori in casa all'una di notte, prese la sua calibro 357 e andò nella cameretta di Matilda per vedere di che cosa si trattasse. Quando la figlia saltò fuori dall'armadio, Crabtree le sparò colpendola al collo; Matilda morì dodici ore dopo (5). 

Uno dei retaggi emozionali della nostra evoluzione biologica è la paura che ci spinge a mobilitarci per proteggere la nostra famiglia dai pericoli; fu proprio sotto quest'impulso che Bobby Crabtree prese la pistola e andò a cercare l'intruso che secondo lui doveva esser penetrato in casa. Fu la paura a fargli premere il grilletto prima ancora di registrare mentalmente a chi stesse sparando - prima ancora di poter riconoscere la voce di sua figlia. I biologi evoluzionisti ipotizzano che reazioni automatiche di questo tipo abbiano finito per imprimersi nel nostro sistema nervoso perché, nell'arco di un lungo periodo critico della preistoria umana, esse rappresentarono davvero la differenza fra la vita e la morte. Fatto ancora più importante, queste reazioni erano essenziali ai fini di quello che è il compito principale dell'evoluzione: riuscire ad avere una progenie alla quale trasmettere queste predisposizioni genetiche molto specifiche - il che suona tristemente ironico, se si pensa al tragico caso della famiglia Crabtree. 

Ma se è vero che le emozioni ci hanno guidato con saggezza nel lungo cammino dell'evoluzione, è altrettanto vero che le nuove realtà legate alla civilizzazione sono sorte così velocemente che l'evoluzione - un processo molto lento - non può più tener loro dietro. A pensarci bene, le prime leggi e le prime affermazioni dell'etica - il Codice di Hammurabi, i Dieci Comandamenti degli Ebrei, gli editti dell'imperatore Ashoka - possono essere interpretati come tanti tentativi di imbrigliare, sottomettere e addomesticare la vita emozionale. Come descrisse Freud nel suo “Disagio della Civiltà”, la società umana ha dovuto affermarsi partendo da uno stadio nel quale non esistevano regole per arginare le ondate travolgenti degli eccessi emozionali, allora troppo liberi di manifestarsi. 

Nonostante questi vincoli sociali, spesso le passioni sopraffanno la ragione: questa caratteristica della natura umana deriva dall'architettura neurale su cui si fonda la vita mentale. Se parliamo in termini di biologia dei fondamentali circuiti neurali dell'emozione, dobbiamo ammettere che quelli di cui siamo dotati sono i meccanismi rivelatisi più funzionali nelle ultime cinquantamila generazioni umane - si badi bene, non nelle ultime cinquemila, e meno che mai nelle ultime cinque. Le forze che hanno plasmato le nostre emozioni, forze evolutive lente e ponderate, hanno impiegato un milione di anni per compiere il loro lavoro; nonostante gli ultimi diecimila anni siano stati testimoni della rapida ascesa della civiltà e dell'esplosione della popolazione umana da cinque milioni a cinque miliardi di anime, essi hanno tuttavia lasciato pochissime tracce nella matrice biologica della vita emotiva umana. 

Nel bene e nel male, la nostra valutazione di ogni singolo conflitto personale e le reazioni che esso suscita in noi sono plasmate non solo dai nostri giudizi razionali o dalla nostra biografia, ma anche dal nostro passato ancestrale - il che a volte ci conferisce tragiche inclinazioni, come testimoniano i tristi eventi della famiglia Crabtree. In breve, troppo spesso ci capita di dover affrontare dilemmi postmoderni con un repertorio emozionale adatto alle esigenze del Pleistocene. Questa difficilissima situazione è proprio l'argomento di cui intendo occuparmi. 




IMPULSI ALL'AZIONE. 


Era un giorno all'inizio della primavera, mi trovavo in Colorado e stavo percorrendo in autostrada un passo montano, quando improvvisamente una tempesta di neve cancellò dalla mia vista l'auto che mi precedeva di pochi metri. Per quanto scrutassi attentamente di fronte a me, non vedevo assolutamente nulla; la neve turbinava ed era adesso di un biancore accecante. Nel premere il pedale del freno sentii l'ansia pervadermi mentre percepivo distintamente il battito del mio cuore.

L'ansia crebbe e divenne paura vera e propria: mi fermai a lato della carreggiata per aspettare che la tormenta finisse. Mezz'ora dopo smise di nevicare, la visibilità tornò normale e io ripresi il mio viaggio. Dovetti però interromperlo nuovamente poche centinaia di metri più in là: un'ambulanza stava infatti prestando soccorso al passeggero di un'auto che aveva tamponato una vettura più lenta; le auto coinvolte nell'incidente bloccavano completamente la strada. Se avessi continuato a guidare con la visibilità ridotta dalla neve, le avrei tamponate anch'io. 

Quel giorno la prudenza impostami dalla paura probabilmente mi salvò la vita. Proprio come un coniglio paralizzato dal terrore nel sentire passare una volpe - o come un protomammifero che avesse percepito la presenza di un dinosauro predatore - anch'io ero stato colto di sorpresa da uno stato d'animo che mi aveva obbligato a fermarmi, a stare attento e a guardarmi da un pericolo imminente. 

Tutte le emozioni sono, essenzialmente, impulsi ad agire; in altre parole, piani d'azione dei quali ci ha dotato l'evoluzione per gestire in tempo reale le emergenze della vita. La radice stessa della parola emozione è il verbo latino MOVEO, “muovere”, con l'aggiunta del prefisso “e-” (“movimento da”), per indicare che in ogni emozione è implicita una tendenza ad agire. Il fatto che le emozioni spingano all'azione è ovvio soprattutto se si osservano gli animali o i bambini; è solo negli adulti “civili” che troviamo tanto spesso quella che nel regno animale si può considerare una grande anomalia, ossia la separazione delle emozioni - che in origine sono impulsi ad agire - dall'ovvia reazione corrispondente (6). 

Nel nostro repertorio, ogni emozione ha un ruolo unico, rivelato dalle sue caratteristiche biologiche distintive (per i dettagli sulle emozioni “fondamentali”, vedi l'Appendice A). Con i nuovi metodi di cui può avvalersi la scienza per scrutare nel corpo e nel cervello, i ricercatori stanno scoprendo ulteriori dettagli fisiologici sul modo in cui ciascuna emozione prepara il corpo a un tipo di risposta molto diverso. 


- Quando siamo in “collera”, il sangue ci affluisce alle mani e questo rende più facile afferrare un'arma o sferrare un pugno all'avversario; la frequenza cardiaca aumenta e una scarica di ormoni, fra i quali l'adrenalina, genera un impulso di energia abbastanza forte da permettere un'azione vigorosa. 

- Se abbiamo “paura”, il sangue fluisce verso i grandi muscoli scheletrici, ad esempio quelli delle gambe, rendendo così più facile la fuga e al tempo stesso facendo impallidire il volto, momentaneamente meno irrorato (ecco da dove viene la sensazione che “si geli il sangue”). Allo stesso tempo, il corpo si immobilizza, come congelato, anche solo per un momento, forse per valutare se non convenga nascondersi. I circuiti dei centri cerebrali preposti alla regolazione della vita emotiva scatenano un flusso di ormoni che mette l'organismo in uno stato generale di allerta, preparandolo all'azione e fissando l'attenzione sulla minaccia che incombe per valutare quale sia la risposta migliore. 

- Nella “felicità”, uno dei principali cambiamenti biologici sta nella maggiore attività di un centro cerebrale che inibisce i sentimenti negativi e aumenta la disponibilità di energia, insieme all'inibizione dei centri che generano pensieri angosciosi. Tuttavia, a parte uno stato di quiescenza che consente all'organismo di riprendersi più rapidamente dall'attivazione biologica causata da emozioni sconvolgenti, non si riscontrano particolari cambiamenti fisiologici. Questa configurazione offre all'organismo un generale riposo, e lo rende non solo disponibile ed entusiasta nei riguardi di qualunque compito esso debba intraprendere ma anche pronto a battersi per gli obiettivi più diversi. 

- L'“amore”, i sentimenti di tenerezza e la soddisfazione sessuale comportano il risveglio del sistema parasimpatico; in altre parole, si tratta della mobilitazione opposta a quella che abbiamo visto nella reazione di “combattimento o fuga” tipica della paura e della collera. La modalità parasimpatica, che potremmo anche chiamare “risposta di rilassamento” si avvale di un insieme di reazioni che interessano tutto l'organismo e inducono uno stato generale di calma e soddisfazione tale da facilitare la cooperazione. 

- Nella “sorpresa” il sollevamento delle sopracciglia consente di avere una visuale più ampia e di far arrivare più luce sulla retina. Questo permette di raccogliere un maggior numero di informazioni sull'evento inatteso, contribuendo alla sua comprensione e facilitando la rapida formulazione del migliore piano d'azione. 

- In tutto il mondo l'espressione di “disgusto” è la stessa, e invia il medesimo messaggio: qualcosa offende il gusto o l'olfatto, anche metaforicamente. Come già aveva osservato Darwin, l'espressione facciale del disgusto - il labbro superiore sollevato lateralmente mentre il naso accenna ad arricciarsi - indica il tentativo primordiale di chiudere le narici colpite da un odore nocivo o di sputare un cibo velenoso. 

- La “tristezza” ha la funzione fondamentale di farci adeguare a una perdita significativa, ad esempio a una grande delusione o alla morte di qualcuno che ci era particolarmente vicino. Essa comporta una caduta di energia ed entusiasmo verso le attività della vita in particolare per le distrazioni e i piaceri - e, quando diviene più profonda e si avvicina alla depressione, ha l'effetto di rallentare il metabolismo. La chiusura in se stessi che accompagna la tristezza ci dà l'opportunità di elaborare il lutto per una perdita o per una speranza frustrata, di comprendere le conseguenze di tali eventi nella nostra vita e, quando le energie ritornano, di essere pronti per nuovi progetti. Può darsi che un tempo questa caduta di energia servisse a tenere i primi esseri umani vicini ai loro rifugi - e quindi al sicuro - quando erano tristi e perciò più vulnerabili. 


Queste inclinazioni biologiche a un certo tipo di azione vengono poi ulteriormente plasmate dall'esperienza personale e dalla cultura. Ad esempio, la perdita di una persona amata suscita universalmente tristezza e dolore. Ma il modo in cui esterniamo il nostro lutto - il modo in cui le emozioni sono esibite in pubblico o trattenute in modo da esprimerle solo in privato - è forgiato dalla cultura; analogamente, dipendono dalla cultura i criteri con i quali le persone vengono classificate o meno nella categoria di quelle “amate” delle quali si debba piangere la morte. 

Il lungo periodo dell'evoluzione durante il quale queste risposte emozionali si andarono forgiando fu certamente caratterizzato da una realtà ben più dura di quella che la maggior parte degli esseri umani si trovò poi a dover affrontare in quanto specie a partire dagli albori della storia. Era un tempo in cui pochi bambini sopravvivevano all'infanzia e pochi adulti superavano i trent'anni; un tempo in cui i predatori potevano colpire in ogni momento; un tempo, infine, in cui il capriccioso alternarsi di siccità e inondazioni si traduceva nello spettro della fame o nella possibilità di sopravvivere. Ma con l'imporsi dell'agricoltura e delle società umane, anche molto primitive, le probabilità di sopravvivenza cominciarono ad aumentare sensibilmente. Negli ultimi diecimila anni, quando queste conquiste si affermarono in tutto il mondo, le feroci pressioni che avevano tenuto in scacco le popolazioni umane andarono costantemente allentandosi. 

Erano state quelle stesse pressioni a rendere le nostre risposte emozionali così preziose per la sopravvivenza; quando esse cessarono, venne meno anche il perfetto adattamento del nostro repertorio emozionale. Se è vero che nel passato più remoto la propensione alla collera poteva costituire un vantaggio di cruciale importanza in termini di sopravvivenza, oggi che le armi automatiche sono a portata di mano dei tredicenni una tale inclinazione può troppo spesso portare a reazioni disastrose (8). 



LE NOSTRE DUE MENTI. 


Un'amica mi raccontava del suo divorzio, una separazione molto dolorosa. Il marito si era innamorato di un'altra donna più giovane e improvvisamente le aveva annunciato che sarebbe andato a vivere con lei. Seguì un periodo di amare contese sulla casa, il denaro e la custodia dei figli. A distanza di qualche mese, la mia amica mi stava confidando che l'indipendenza le piaceva e che era felice di stare da sola. “Semplicemente, ecco, non penso più a lui - davvero non me ne importa” affermò. Ma non appena aveva pronunciate queste parole, gli occhi le si riempirono di lacrime. 

Quegli occhi lucidi potevano facilmente passare inosservati. Ma la comprensione empatica della tristezza che essi tradivano a dispetto delle parole è un atto di decodifica proprio come la capacità di trarre significati dai caratteri stampati su una pagina. Nel primo caso, è all'opera la mente emozionale, nel secondo quella razionale. A tutti gli effetti abbiamo due menti, una che pensa, l'altra che sente. 

Queste due modalità della conoscenza, così fondamentalmente diverse, interagiscono per costruire la nostra vita mentale. La mente razionale è la modalità di comprensione della quale siamo solitamente coscienti: dominante nella consapevolezza e nella riflessione, capace di ponderare e di riflettere. Ma accanto ad essa c'è un altro sistema di conoscenza - impulsiva e potente, anche se a volte illogica, c'è la mente emozionale. (Per una descrizione più dettagliata della mente emozionale, vedi l'Appendice B.) La dicotomia emozionale/razionale è simile alla popolare distinzione fra “cuore” e “mente”; quando sappiamo che qualcosa è giusto “con il cuore” la nostra convinzione è di un ordine diverso - in qualche modo è una certezza più profonda - di quando pensiamo la stessa cosa con la mente razionale. Il rapporto fra razionale ed emozionale nel controllo della mente varia lungo un gradiente continuo; quanto più intenso è il sentimento, tanto più dominante è la mente emozionale - e più inefficace quella razionale. Questa situazione sembra derivare dal vantaggio evolutivo, affermatosi nel corso di tempi lunghissimi, rappresentato dall'essere guidati dalle emozioni e dalle intuizioni quando sia necessaria una reazione immediata in un contesto di pericolo - circostanze nelle quali indugiare a pensare sul da farsi potrebbe costarci la vita. 

Nella maggior parte dei casi, queste due menti, l'emozionale e la razionale, operano in grande armonia e le loro modalità di conoscenza, così diverse, si integrano reciprocamente per guidarci nella realtà. Di solito c'è un equilibrio fra mente razionale ed emozionale; l'emozione alimenta e informa le operazioni della mente razionale, mentre questa rifinisce e a volte oppone il veto agli input delle emozioni. Tuttavia, la mente emozionale e quella razionale sono facoltà semiindipendenti: ciascuna di esse, come vedremo, riflette il funzionamento di circuiti cerebrali distinti sebbene interconnessi. 

Spesso - forse quasi sempre - queste due menti sono perfettamente coordinate; i sentimenti sono essenziali per il pensiero razionale, proprio come questo lo è per i sentimenti. Ma quando le passioni aumentano d'intensità, l'equilibrio si capovolge: la mente emozionale prende il sopravvento, travolgendo quella razionale. Erasmo da Rotterdam, l'umanista del sedicesimo secolo, descrisse in toni satirici questa perenne tensione fra ragione ed emozione (9): 


“[...] Considerate voi stessi in qual rapporto Giove abbia distribuito agli uomini ragione e passione [...] Sarebbe come paragonare una semioncia ad un asse [...] Giove alla ragione ha messo contro due nemici accaniti: l'ira [...] e la concupiscenza. Con quanto successo la ragione contrasti con questi due nemici, basta a dimostrarlo la vita d'ogni giorno: tutto il suo potere si esaurisce nell'arrochirsi a predicare i comandamenti dell'onestà, mentre ira e lussuria tendono dei tranelli alla loro regina, con tanto strepito e clamore che quella, stanca, infine si arrende e cede le armi” (Trad. it. di Luca D'Ascia, Bur Rizzoli, Milano 1994).