PARTE SECONDA. 

LA NATURA DELL'INTELLIGENZA EMOTIVA. 




3. 

QUANDO INTELLIGENTE E' UGUALE A OTTUSO. 




Il motivo esatto per il quale David Pologruto, un insegnante di fisica della scuola superiore, venne pugnalato con un coltello da cucina da uno dei suoi studenti più brillanti è ancora dubbio. I fatti, così come vennero riportati con ampio risalto dai media, sono comunque i seguenti. 

Jason H., uno studente modello che frequentava il secondo anno della scuola superiore di Coral Springs in California, si era fissato sull'idea di entrare alla facoltà di medicina - si badi bene, non presso una qualsiasi università: lui sognava Harvard. Ma Pologruto, il suo insegnante di fisica, gli aveva dato 80 in un test e Jason, pensando che il voto - un modesto B - compromettesse i suoi sogni, portò un coltello da macellaio a scuola e, confrontandosi con l'insegnante nel laboratorio di fisica, lo colpì vicino alla clavicola prima di essere bloccato in un corpo a corpo. 

Il giudice riconobbe Jason innocente, temporaneamente incapace di intendere durante l'incidente, e quattro psicologi e psichiatri giurarono che durante la colluttazione il giovane fosse in preda a un attacco psicotico. Jason dichiarò che il punteggio ricevuto nel test lo aveva spinto a progettare il suicidio e che era andato da Pologruto per dirglielo. Pologruto raccontò una storia diversa: “Sono convinto che abbia cercato di accoltellarmi perché era infuriato a causa del voto mediocre”. 

Dopo essersi trasferito in una scuola privata, Jason si diplomò due anni dopo fra i migliori. Seguendo corsi regolari avrebbe preso un A pieno, con 4.0 di media; ma Jason frequentò un numero sufficiente di corsi avanzati per diplomarsi con la media di 4.614, meritando quindi più di A. Anche se Jason si diplomò con tutti gli onori, il suo ex insegnante di fisica, David Pologruto, si lamentava del fatto che il giovane non si fosse mai scusato per l'aggressione, e non se ne fosse mai assunto la responsabilità (1). 

La domanda a questo punto è: come può essere che una persona dotata di una tale intelligenza faccia una cosa tanto irrazionale - così assolutamente stupida? Ecco la risposta: l'intelligenza scolastica ha ben poco a che fare con la vita emotiva. Le persone più brillanti possono incagliarsi nelle secche di passioni senza freni e impulsi burrascosi; individui con Q.I. elevato possono rivelarsi nocchieri spaventosamente incapaci nei flutti della loro vita privata. 

Un fatto della psicologia noto a tutti è la relativa incapacità di strumenti quali i voti scolastici, il Q.I. o i punteggi Sat di prevedere in modo infallibile quali individui avranno successo nella vita - e questo nonostante l'aura mistica dalla quale tali strumenti sono circondati. Se si considerano vasti gruppi di individui presi nel loro insieme, sicuramente esiste una relazione fra Q.I. e circostanze della vita: molte persone con Q.I. bassissimi finiscono per fare lavori umili, mentre quelle con Q.I. alti tendono ad essere ben pagate - ma non è assolutamente sempre così. 

Esistono diffuse eccezioni alla regola secondo la quale il Q.I. sarebbe in grado di prevedere il successo personale; anzi, a ben guardare, le eccezioni sono molte, forse ancora di più dei casi che seguono la regola. Al massimo, il Q.I. contribuisce in ragione del 20 per cento ai fattori che determinano il successo nella vita - il che lascia evidentemente l'80 per cento determinato da altre variabili. E' stato osservato che “la nicchia finale occupata dall'individuo nella società è determinata in larghissima misura da fattori diversi dal Q.I. e che possono spaziare dalla classe sociale alla fortuna” (2). 

Perfino Richard Herrnstein e Charles Murray, che nel loro libro “The Bell Curve” attribuiscono un'importanza primaria al Q.I., lo hanno riconosciuto; essi stessi hanno affermato che “forse una matricola con un punteggio Sat in matematica di 500 farebbe meglio a non aprirsi il cuore alla speranza di diventare un matematico; d'altra parte, se desiderasse gestire i propri affari, diventare senatore degli Stati Uniti o fare miliardi, non avrebbe motivo di accantonare i suoi sogni... L'importanza del nesso fra i punteggi scolastici e quest'ultimo tipo di realizzazione è minimizzata da tutto l'insieme delle altre caratteristiche che l'individuo riversa nella propria vita” (3).

Personalmente sono interessato a un insieme chiave di queste “altre caratteristiche”, ossia all'“intelligenza emotiva”: si tratta, ad esempio, della capacità di motivare se stessi e di persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni; di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione; di modulare i propri stati d'animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare; e, ancora, la capacità di essere empatici e di sperare. A differenza del Q.I., che vanta una storia ormai quasi secolare di ricerche condotte su centinaia di migliaia di soggetti, l'intelligenza emotiva è un concetto nuovo. Nessuno può ancora dire esattamente quanta parte della variabilità esistente da persona a persona sia dovuta ad essa. Ma i dati disponibili indicano che può essere un fattore potente, a volte più potente del Q.I.: e mentre c'è chi sostiene che quest'ultimo non possa essere modificato molto dall'esperienza o dall'istruzione, nella Parte quinta di questo libro intendo dimostrare come le fondamentali competenze emozionali possano invece essere apprese e potenziate nei bambini - sempre che noi adulti ci si prenda il disturbo di insegnar loro come fare. 




Intelligenza emotiva e destino. 


Ricordo un mio compagno di corso all'Amherst College, che aveva meritato cinque punteggi pieni, pari a 800, nel Sat e in altri test sostenuti prima dell'ammissione. Nonostante queste formidabili capacità intellettuali, passava la maggior parte del suo tempo bighellonando e rimanendo alzato fino a tardi per poi dormire fino a mezzogiorno, perdendo così le lezioni della mattina. Impiegò quasi dieci anni per laurearsi. 

L'analisi del Q.I. spiega ben poco del diverso destino di individui con talenti, istruzione e opportunità approssimativamente simili. Quando si studiarono, seguendoli fino alla mezza età, novantacinque studenti di Harvard dei corsi degli anni Quaranta - un periodo in cui le scuole dell'Ivy League erano frequentate da persone con una distribuzione più ampia di Q.I. di quanto non accada adesso - si scoprì che, per quanto riguardava il salario, la produttività o lo status raggiunto nel proprio campo, gli ex studenti più brillanti non avevano avuto particolare successo rispetto ai coetanei diplomatisi con votazioni mediocri, né si erano assicurati una vita più ricca di soddisfazioni, o maggiore felicità nella sfera delle amicizie, della famiglia e delle relazioni amorose (4). 

Uno studio analogo venne effettuato anche su 450 ragazzi, in massima parte figli di immigranti, per due terzi provenienti da famiglie che vivevano di sussidi, cresciuti a Somerville (Massachusetts), uno “slum” a qualche isolato da Harvard, a quei tempi frequentato dalla feccia. Un terzo dei soggetti studiati aveva un Q.I. inferiore a 90. Ma anche in questo caso il Q.I. aveva poco a che fare con il successo che questi giovani riscossero sul lavoro e nel resto della loro vita; ad esempio, il 7 per cento degli uomini con Q.I. al di sotto di 80 rimasero disoccupati per dieci anni e anche più, ma questo accadde anche al 7 per cento dei soggetti con Q.I. superiore a 100. All'età di quarantasette anni, sicuramente c'era un legame generale (come sempre) fra il Q.I. e il livello socioeconomico. Ma a fare la grande differenza erano abilità maturate durante l'infanzia, ad esempio la capacità di superare la frustrazione, controllare le emozioni e andare d'accordo con gli altri (5). 

Consideriamo i dati di uno studio attualmente ancora in corso su ottantuno studenti delle scuole superiori dell'Illinois, scelti fra quelli che tennero i discorsi inaugurali e di commiato per i corsi del 1981. Tutti, ovviamente, avevano le medie più alte della propria scuola. Ma per quanto essi continuassero a dare ottime prestazioni anche all'università, laureandosi a pieni voti, quando furono prossimi ai trent'anni avevano raggiunto quello che può considerarsi un livello medio di successo. Dieci anni dopo aver preso il diploma di scuola media superiore solo uno su quattro di loro si trovava al massimo livello compatibile con la sua età e molti erano decisamente al di sotto di quello standard. 

Karen Arnold, che insegna pedagogia alla Boston University, è una delle ricercatrici che ha seguito il destino di questi studenti; ella spiega: “Credo che abbiamo scoperto gli individui 'ligi al dovere', quelli che sanno come ottenere buoni risultati nel sistema. Gli studenti della nostra indagine, però, devono lottare nella vita come sicuramente facciamo tutti noi. Sapere che una persona è stata uno studente modello significa solo sapere che è straordinariamente abile nelle prestazioni scolastiche. Non ci dice nulla sul modo in cui essa reagisce alle vicissitudini della vita” (6). 

E proprio questo è il problema: l'intelligenza accademica non offre pressoché alcuna preparazione per superare i travagli e cogliere le opportunità che la vita porta con sé. Tuttavia, anche se un Q.I. alto non è una garanzia di prosperità, prestigio o felicità, le nostre scuole e la nostra cultura si fissano sulle capacità accademiche, ignorando l'intelligenza emotiva - un insieme di tratti che qualcuno potrebbe definire carattere - immensamente importante ai fini del nostro destino personale. La vita emotiva è una sfera che, come sicuramente accade nel caso della matematica o della lettura, può essere gestita con maggiore o minore abilità, e richiede un insieme di competenze esclusive. La destrezza di una persona in tali ambiti è fondamentale per comprendere come mai alcuni soggetti abbiano successo mentre altri, intellettualmente non da meno, imbocchino vicoli ciechi: l'attitudine emozionale è una “meta- abilità”, in quanto determina quanto bene riusciamo a servirci delle nostre altre capacità - ivi incluse quelle puramente intellettuali. 

Naturalmente, ci sono molte strade per avere successo nella vita, e molte sfere nelle quali vengono premiate altre attitudini. Nella nostra società, sempre più imperniata sulla conoscenza, la capacità tecnica è certamente una di queste. C'è una barzelletta da bambini che dice: “Come si chiama uno 'stupido secchione' quindici anni dopo?”. La risposta è: “Capo”. Ma anche fra “secchioni” l'intelligenza emotiva offre un ulteriore vantaggio sul posto di lavoro, come vedremo nella Terza parte del libro. Molti dati testimoniano che le persone competenti sul piano emozionale - quelle che sanno controllare i propri sentimenti, leggere quelli degli altri e trattarli efficacemente - si trovano avvantaggiate in tutti i campi della vita, sia nelle relazioni intime che nel cogliere le regole implicite che portano al successo politico. Gli individui con capacità emozionali ben sviluppate hanno anche maggiori probabilità di essere contenti ed efficaci nella vita, essendo in grado di adottare gli atteggiamenti mentali che alimentano la produttività; coloro che non riescono ad esercitare un certo controllo sulla propria vita emotiva combattono battaglie interiori che finiscono per sabotare la loro capacità di concentrarsi sul lavoro e di pensare lucidamente. 




Un tipo diverso di intelligenza. 


Agli occhi di un osservatore qualunque, vista in mezzo ai suoi compagni di giochi molto più socievoli, Judy, una bambina di quattro anni, potrebbe sembrare un classico tipo da tappezzeria. Quando è il momento di giocare, esita a prender parte all'azione e ne resta ai margini invece di immergersi in essa. Tuttavia, Judy è un'abile osservatrice della politica sociale nell'ambito della sua classe di scuola materna - forse la più sofisticata, fra tutti i suoi compagni, nella comprensione dei sentimenti altrui. 

Questa sua dote emerge soltanto quando l'insegnante riunisce Judy e i suoi coetanei per fare quello che essi chiamano il Gioco della Classe. Questo gioco - che consiste in un modellino dell'aula di Judy, come una casa di bambole, con figurine che hanno al posto della testa delle piccole fotografie dei bambini e dell'insegnante - è un test per valutare la percettività sociale. Quando l'insegnante le chiede di mettere ciascun bambino nella zona della classe dove esso ama di più stare - l'angolo delle attività artistiche, quello delle costruzioni, e così via - Judy è in grado di farlo con grande accuratezza. E quando le si chiede di mettere ciascun bambino insieme a quelli con cui ama di più giocare, Judy sa mettere insieme tutti gli amici migliori. 

L'accuratezza di Judy rivela il possesso di una perfetta mappa sociale della propria classe - un livello di percettività eccezionale per una bambina di quattro anni. Queste sono abilità che, più tardi nella vita, potranno consentirle di diventare bravissima in tutti quei campi dove conta la capacità di avere a che fare con la gente, e che spaziano dalle vendite al management e alla diplomazia. 

Se le brillanti attitudini sociali di Judy sono state rivelate, e così presto, lo si deve al fatto che ella frequentava la Eliot-Pearson Preschool, nel campus della Tuft University, dove si stava sviluppando Project Spectrum, un programma che coltiva intenzionalmente numerose intelligenze. Project Spectrum riconosce che il repertorio delle capacità umane si spinge ben oltre la stretta banda di abilità verbali e numeriche sulla quale tradizionalmente si concentra la scuola. Esso riconosce che capacità come la percettività sociale di Judy sono talenti che possono essere coltivati invece di essere ignorati o addirittura mortificati. Incoraggiando i bambini a sviluppare la gamma completa delle abilità dalle quali essi effettivamente attingeranno per avere successo - o semplicemente per essere soddisfatti di ciò che faranno - la scuola diventa davvero educazione alla vita. 

La guida - l'idealista - alle spalle di Project Spectrum è Howard Gardner, uno psicologo della Harvard School of Education (7). “E' arrivato il momento” mi disse “di ampliare la nostra concezione della gamma dei talenti. Il più importante contributo che la pedagogia può dare allo sviluppo di un bambino è quello di aiutarlo e di guidarlo verso un campo nel quale i suoi talenti siano più adatti, e in cui egli possa sentirsi soddisfatto e competente. Abbiamo completamente perso di vista tutto questo. Non facciamo che sottoporre tutti a un'istruzione nella quale, se si ha successo, ci si ritrova al massimo ben assortiti con un professore universitario. E tutti vengono valutati a seconda che soddisfino o meno questo standard così limitato. Dovremmo passar meno tempo a classificare i bambini e più tempo ad aiutarli a identificare e coltivare le loro competenze e i loro talenti naturali. Ci sono centinaia e centinaia di modi diversi per avere successo, e molte, moltissime diverse capacità che possono aiutare a farlo” (8). 

Se c'è qualcuno che vede chiaramente i limiti delle vecchie concezioni sull'intelligenza, quello è Gardner. Egli sottolinea che il grande successo dei test per la misura del Q.I. cominciò durante la prima guerra mondiale, quando due milioni di americani vennero classificati utilizzando la prima versione del test, appena messa a punto da Lewis Terman, uno psicologo di Stanford. Questo portò al predominio, durato interi decenni, di quella che Gardner chiama “mentalità da Q.I.”: la convinzione, cioè, “che le persone possano essere classificate in due categorie, intelligenti e non intelligenti, e che a tal proposito non ci sia molto da fare; infine, che i test possano dirci a quale categoria, intelligenti o non intelligenti, appartenga ciascuno. Il test Sat per l'ammissione all'università si basa sullo stesso concetto, e cioè sull'idea che un unico tipo di attitudine possa determinare il tuo futuro. Questo modo di pensare permea tutta la società”. 

L'importante libro di Gardner, uscito nel 1983, “Formae mentis”, rappresentò il manifesto di chi criticava la mentalità da Q.I.; in esso Gardner sosteneva che non esistesse un unico tipo monolitico di intelligenza fondamentale per avere successo nella vita, ma piuttosto che ce ne fosse un'ampia gamma, della quale individuava sette varietà fondamentali. L'elenco di Gardner comprende i due tipi standard di intelligenza scolastica, ossia quella verbale e quella logico- matematica, spingendosi però oltre, fino a includere anche la capacità spaziale che si osserva in un bravo artista o in un architetto; il genio cinestetico che emerge dalla fluidità dei movimenti e dalla grazia di Martha Graham o di Magic Johnson; il talento musicale di Mozart o di Yoyo Ma. Ci sono poi le due facce di quella che Gardner chiama “intelligenza personale”: le capacità interpersonali, ad esempio quelle di un grande terapeuta come Carl Rogers o di un leader di portata mondiale come Martin Luther King, e la capacità “intrapsichica” che può emergere dalle brillanti introspezioni di Sigmund Freud o, sebbene con minore ostentazione, dalla soddisfazione interiore che si prova quando la propria vita è in armonia con i propri sentimenti. 

La parola chiave in questa concezione dell'intelligenza è “MULTIPLA”: il modello di Gardner si spinge ben oltre il concetto standard di Q.I. come singolo fattore immutabile. Secondo la teoria delle intelligenze multiple, i test che ci hanno tirannizzato quando andavamo a scuola - da quelli usati per suddividere chi di noi avrebbe frequentato scuole a indirizzo tecnico da coloro che erano destinati all'università, fino ai test Sat che decidevano quali università avremmo potuto frequentare, sempre che quello fosse il nostro destino - sono basati su un concetto di intelligenza limitato, che non trova riscontro nell'autentica gamma di capacità e competenze ben più importanti per la vita di quanto non sia il Q.I. 

Gardner riconosce che il sette è una cifra arbitraria per descrivere la varietà delle intelligenze; non esiste un numero magico che denoti la molteplicità dei talenti umani. A un certo punto, Gardner e colleghi hanno allungato questa lista fino a individuare venti diverse intelligenze. L'intelligenza interpersonale, ad esempio, venne frammentata in quattro abilità distinte: la predisposizione alla leadership, la capacità di alimentare relazioni e di conservare le amicizie, l'abilità di risolvere conflitti e la bravura in quel tipo di analisi sociale nella quale eccelleva Judy, la bambina di quattro anni di cui abbiamo parlato prima. 

Questa concezione poliedrica dell'intelligenza offre una visuale più ricca delle capacità e del potenziale di successo di un bambino di quanto non possa fare il test standard per la misurazione del Q.I. Quando i bambini di una classe Spectrum furono valutati dapprima secondo la Scala di intelligenza di Stanford-Binet - un tempo lo standard aureo dei test per la misurazione del Q.I. - e poi ancora con una batteria di test ideata per misurare lo spettro delle intelligenze identificate da Gardner, non venne messa in luce alcuna relazione significativa fra i punteggi ottenuti nei due tipi di test (9). I cinque bambini con i più alti Q.I. (compresi fra 125 e 133) mostravano profili molto vari nelle dieci abilità misurate dal test Spectrum. Ad esempio, dei cinque bambini che in base al Q.I. erano da ritenersi più “intelligenti”, uno era bravo in tre aree Spectrum, tre erano dotati in due aree Spectrum e un soggetto riusciva bene solo in uno degli ambiti sondati dal test di Gardner. Queste abilità erano variamente distribuite; in quattro casi, i bambini erano dotati per la musica, in due casi per le arti visive, in un caso per la comprensione sociale, in un altro per la logica, e in due per il linguaggio. Nessuno dei cinque bambini ai quali era stato assegnato un elevato Q.I. si dimostrò dotato per la meccanica o il movimento o l'aritmetica; anzi, questi ultimi due ambiti costituivano i punti deboli di due soggetti. 

La conclusione di Gardner fu che “la Scala d'intelligenza di Stanford-Binet non consentiva di prevedere il successo delle prestazioni nelle attività Spectrum o in una parte costante di esse”. D'altro canto, i punteggi Spectrum danno ai genitori e agli insegnanti una chiara guida per quanto riguarda le aree che potranno essere oggetto dell'interesse spontaneo dei bambini e nelle quali essi riscuoteranno successi tali da sviluppare la passione che un giorno potrebbe portarli a oltrepassare i limiti della competenza dell'esperto, per sconfinare nell'autentica maestria. 

Il pensiero di Gardner sulla molteplicità delle intelligenze è in continua evoluzione. Circa dieci anni dopo la prima pubblicazione della sua teoria, egli riassunse le caratteristiche fondamentali delle intelligenze personali come segue: 


“L'intelligenza interpersonale è la capacità di comprendere gli altri, le loro motivazioni e il loro modo di lavorare, scoprendo nel contempo in che modo sia possibile interagire con essi in maniera cooperativa. I venditori di successo, i politici, gli insegnanti, i clinici e i leader religiosi sono probabilmente individui con un elevato grado di intelligenza interpersonale. L'intelligenza intrapersonale [...] è una capacità correlativa rivolta verso l'interno: è l'abilità di formarsi un modello accurato e veritiero di se stessi e di usarlo per operare efficacemente nella vita” (10). 


ln un'altra versione, Gardner osserva che il nucleo dell'intelligenza interpersonale comprende le “capacità di distinguere e di rispondere appropriatamente agli stati d'animo, al temperamento, alle motivazioni e ai desideri altrui”. Nell'intelligenza intrapersonale, che è la chiave per accedere alla conoscenza di sé, egli comprende l'“accesso ai propri sentimenti e la capacità di discriminarli e basarsi su di essi, assumendoli come guida del proprio comportamento”. 




Spock e Data: quando la cognizione non è abbastanza. 


Nella trattazione di Gardner, il ruolo delle emozioni è una dimensione dell'intelligenza personale che egli si limita a indicare senza esplorarla a fondo. Forse ciò è dovuto al fatto che, come mi disse lo stesso Gardner, il suo lavoro è stato fortemente ispirato e informato dal modello della mente proprio delle scienze cognitive. Pertanto la concezione gardneriana di queste intelligenze enfatizza la cognizione - ossia la “comprensione” di se stessi e degli altri relativamente alle motivazioni e alle abitudini di lavoro, servendosi di tali intuizioni per condurre la propria vita e per andare d'accordo con gli altri. Ma come avviene nell'ambito cinestetico, dove la genialità si esprime in modo non verbale, anche il regno delle emozioni si estende oltre la portata del linguaggio e della cognizione. 

Sebbene la descrizione delle intelligenze personali di Gardner lasci ampio spazio alla comprensione del gioco delle emozioni e della capacità di dominarle, Gardner e collaboratori non hanno tuttavia studiato a fondo il ruolo del “sentimento” in queste intelligenze, concentrandosi più che “su di” esso, sulla cognizione “relativa” ad esso. Questo approccio lascia inesplorato, forse non intenzionalmente, il mare di emozioni che rende la vita interiore e le relazioni umane così complesse, così irresistibili e spesso tanto sconcertanti. E lascia ancora inesplorati due concetti: in primo luogo, la possibilità che l'intelligenza “sia presente” nelle emozioni, e in secondo luogo, quella che vi “venga portata”. 

L'enfasi di Gardner sugli elementi cognitivi delle intelligenze personali riflette lo spirito dominante nella psicologia al tempo in cui le sue idee presero forma. L'eccessivo accento che la psicologia pose sulla cognizione anche quando si accingeva a indagare la sfera delle emozioni è in parte dovuto alla storia particolare di questa scienza. A metà del secolo, la psicologia accademica era dominata dai comportamentisti della scuola di Skinner; questi riteneva che solo il comportamento osservabile oggettivamente dall'esterno potesse essere studiato con accuratezza scientifica. I comportamentisti decretarono che tutta la sfera della vita interiore, comprese le emozioni, fosse da considerarsi un'area inaccessibile alla scienza. 

In seguito, con l'affermarsi, verso la fine degli anni Sessanta, della “rivoluzione cognitiva”, l'attenzione della psicologia si rivolse verso le modalità con le quali la mente registra e archivia le informazioni, e sulla natura dell'intelligenza. Ma le emozioni restarono ancora confinate in un territorio inaccessibile. Fra gli scienziati cognitivi, era opinione comune che l'intelligenza comportasse un'elaborazione fredda e metodica dei fatti. Essa sarebbe iperrazionale, simile per certi versi al signor Spock di “Star Trek”, l'archetipo dell'informazione nuda e cruda, non intorbidata dal sentimento, incarnazione dell'idea secondo la quale le emozioni non hanno posto nell'intelligenza e non fanno che confondere il nostro quadro della vita mentale. 

Gli scienziati cognitivi che hanno fatta propria questa concezione si sono lasciati sedurre dal computer quale modello operativo della mente, dimentichi del fatto che in realtà i circuiti biologici del cervello sono immersi in una caotica miscela ribollente di sostanze chimiche che non ha nulla a che fare con l'ambiente, a base di silicio, asettico e ordinato, che ha generato la metafora. I modelli che fra gli scienziati cognitivi sono più accreditati per descrivere il modo in cui la mente elabora l'informazione non hanno riconosciuto che la razionalità è guidata - e può essere travolta - dal sentimento. Il modello cognitivo fornisce, a questo proposito, una visione impoverita della mente, una concezione che non può spiegare lo “Sturm und Drang” dei sentimenti che dà sapore all'intelletto. Per poter rimanere su tali posizioni, gli stessi scienziati cognitivi hanno dovuto ignorare l'importanza, per i loro modelli della mente, di speranze e paure personali, di liti coniugali e gelosie professionali - in altre parole hanno dovuto ignorare tutto quel miscuglio di sentimenti che dà alla vita sapore e tensione, e che in ogni momento influenza il modo esatto in cui l'informazione viene elaborata, nonché la qualità di tale elaborazione. 

La visione scientifica, peraltro sbilanciata, di una vita mentale emotivamente piatta - atteggiamento prevalente negli ultimi ottant'anni di ricerca sull'intelligenza - sta gradualmente modificandosi da quando la psicologia ha cominciato a riconoscere il ruolo essenziale del sentimento nel pensiero. Un po' come nel caso di Data, il personaggio simile a Spock di “Star Trek: The Next Generation”, la psicologia sta arrivando a comprendere il potere delle emozioni nella vita mentale, come pure a riconoscere i vantaggi e i pericoli che esse comportano. Dopo tutto, Data si rende conto (con suo sgomento, se solo potesse provarne) che la sua fredda logica non lo aiuterà a trovare una giusta soluzione “umana”. La nostra umanità è molto più evidente nei sentimenti che non nella logica; Data cerca di provarne anche lui, capendo di essere altrimenti escluso da qualcosa di essenziale. Egli desidera l'amicizia, la lealtà; come l'Uomo di Latta del Mago di Oz, Data non ha un cuore. Privato di quel senso lirico che ci viene dal sentimento, Data è in grado di fare musica o di scrivere versi con grande virtuosismo, ma senza passione. Il desiderio di Data (desiderio di provar desiderio) ci insegna che i più alti valori del cuore umano - fede, speranza, devozione, amore - sono totalmente assenti in una concezione freddamente cognitiva della mente. Le emozioni ci arricchiscono; un modello della mente che le escluda è un ben povero modello. Quando chiesi a Gardner il perché della sua enfasi non tanto sulle emozioni, quanto sul pensiero che le riguarda - ossia sulla metacognizione - egli riconobbe la propria tendenza verso una concezione cognitiva dell'intelligenza. Tuttavia mi disse: “Quando cominciai a scrivere delle intelligenze personali, “stavo” effettivamente parlando delle emozioni, soprattutto quando mi riferivo al mio concetto di intelligenza intrapersonale - una componente dell'intelligenza che ci mette emotivamente in sintonia con noi stessi. Per l'intelligenza interpersonale è essenziale la recezione di segnali di sentimenti viscerali. Ma in pratica, la teoria delle intelligenze multiple si è poi evoluta in modo da concentrarsi di più sulla metacognizione” - ossia sulla consapevolezza dei propri processi mentali - “che non sulla gamma completa delle capacità emozionali”. 

Anche così, Gardner si rende conto di quanto queste capacità emozionali e di relazione siano fondamentali per affrontare la lotta della vita. Egli sottolinea come “molte persone con Q.I. di 160 possano dare prestazioni simili a quelle di altre con Q.I. pari solo a 100, qualora queste ultime siano molto superiori a loro per intelligenza intrapersonale. E nella realtà quotidiana nessuna intelligenza è più importante di quella interpersonale. Se non ne avete, prenderete la decisione sbagliata riguardo alla persona da sposare, il lavoro da fare, e così via. Dobbiamo addestrare già a scuola le intelligenze personali dei bambini”. 




Le emozioni possono essere intelligenti?


Per capire meglio come potrebbe essere un addestramento di questo genere, dobbiamo rivolgerci ad altri teorici che stanno seguendo la guida intellettuale di Gardner, e fra questi soprattutto a uno psicologo di Yale, Peter Salovey, che ha mappato molto dettagliatamente i vari modi in cui è possibile portare l'intelligenza nella sfera delle emozioni (12). Questa impresa non è nuova; negli anni, perfino i più ardenti sostenitori del Q.I. hanno, di tanto in tanto, cercato di portare le emozioni nella sfera dell'intelligenza, invece di considerare “emozione” e “intelligenza” come un'intrinseca contraddizione di termini. Ad esempio, E. L. Thorndike, un eminente psicologo che contribuì a diffondere il concetto di Q.I. negli anni Venti e Trenta, propose, in un articolo pubblicato su “Harper's Magazine”, che un aspetto dell'intelligenza emotiva, ossia l'intelligenza “sociale” - in altre parole la capacità di comprendere gli altri e di “agire saggiamente nelle relazioni umane” - facesse anch'esso parte del Q.I. di un individuo. Altri psicologi suoi contemporanei avevano un'opinione più cinica dell'intelligenza sociale, in quanto la consideravano alla stregua dell'abilità di manipolare gli altri - la capacità di indurli a fare ciò che si vuole, indipendentemente dal fatto che essi lo vogliano o no. Tuttavia, nessuna di queste due formulazioni dell'intelligenza sociale esercitò a lungo la propria influenza sui teorici del Q.I., e nel 1960 un importante manuale sui test d'intelligenza dichiarò che essa era un concetto “inutile”. 

L'intelligenza personale, però, non era destinata a essere ignorata, soprattutto perché essa è tanto importante per l'intuito e il buon senso comune. Ad esempio, quando Robert Sternberg, un altro psicologo di Yale, chiese ad alcuni individui di descrivere una “persona intelligente”, fra i tratti principali venivano citate le capacità pratiche nelle relazioni personali. Ricerche più sistematiche indussero Sternberg a tornare sulla conclusione di Thorndike, e cioè ad affermare che l'intelligenza sociale è al tempo stesso distinta dalle capacità scolastiche e parte integrante delle doti che consentono alle persone di riuscir bene negli aspetti pratici della vita. Ad esempio, fra le intelligenze pratiche tanto apprezzate nel mondo del lavoro c'è quel tipo di sensibilità che consente ai dirigenti perspicaci di cogliere messaggi impliciti. 

Recentemente un gruppo sempre più numeroso di psicologi è pervenuto a conclusioni simili, e concorda con Gardner nel ritenere che i vecchi concetti relativi al Q.I. fossero imperniati su una gamma ristretta di abilità linguistiche e matematiche, e che, sebbene un buon Q.I. fosse un fattore predittivo diretto del successo scolastico come studente o insegnante, esso si rivelava però molto meno efficace quando la vita cominciava ad allontanarsi dal mondo accademico. Questi psicologi - fra i quali troviamo Sternberg e Salovey - hanno fatto propria una concezione più ampia dell'intelligenza, cercando di reinventarla e di ridescriverla nei termini di ciò che è necessario possedere per avere successo nella vita. Questa linea di ricerca ha portato a riapprezzare quanto sia fondamentale l'intelligenza “personale” o emotiva. 

Nella sua fondamentale definizione dell'intelligenza emotiva, Salovey include le intelligenze personali di Gardner, estendendo queste abilità a cinque ambiti principali (14): 


1. “Conoscenza delle proprie emozioni”. L'autoconsapevolezza - in altre parole la capacità di riconoscere un sentimento nel momento in cui esso si presenta - è la chiave di volta dell'intelligenza emotiva. Come vedremo nel capitolo 4, la capacità di monitorare istante per istante i sentimenti è fondamentale per la comprensione psicologica di se stessi, mentre l'incapacità di farlo ci lascia alla loro mercé. Le persone molto sicure dei propri sentimenti riescono a gestire molto meglio la propria vita; esse infatti hanno una percezione più sicura di ciò che realmente provano riguardo a decisioni personali che possono spaziare dalla scelta del coniuge all'attività professionale da intraprendere. 

2. “Controllo delle emozioni”. La capacità di controllare i sentimenti in modo che essi siano appropriati si fonda sull'autoconsapevolezza. Nel capitolo 5 esamineremo la capacità di calmarsi, di liberarsi dall'ansia, dalla tristezza o dall'irritabilità, e le conseguenze della mancanza di tale fondamentale abilità. Coloro che ne sono privi o scarsamente dotati si trovano a dover perennemente combattere contro sentimenti tormentosi, mentre gli individui capaci di controllo emotivo riescono a riprendersi molto più velocemente dalle sconfitte e dai rovesci della vita. 

3. “Motivazione di se stessi”. Come mostrerò nel capitolo 6, la capacità di dominare le emozioni per raggiungere un obiettivo è una dote essenziale per concentrare l'attenzione, per trovare motivazione e controllo di sé, come pure ai fini della creatività. Il controllo emozionale - la capacità di ritardare la gratificazione e di reprimere gli impulsi - è alla base di qualunque tipo di realizzazione. La capacità di entrare nello stato di “flusso” ci consente di ottenere prestazioni eccezionali di qualsiasi tipo. Chi ha queste capacità tende a essere più produttivo ed efficiente in qualunque ambito si applichi. 

4. “Riconoscimento delle emozioni altrui”. L'empatia, un'altra capacità basata sulla consapevolezza delle proprie emozioni, è fondamentale nelle relazioni con gli altri. Nel capitolo 7 analizzeremo le radici dell'empatia, il costo sociale della sordità emozionale, e le ragioni per le quali l'empatia genera l'altruismo. Le persone empatiche sono più sensibili ai sottili segnali sociali che indicano le necessità o i desideri altrui. Questo le rende più adatte alle professioni di tipo assistenziale, all'insegnamento, alle vendite e alla dirigenza. 

5. “Gestione delle relazioni”. L'arte delle relazioni consiste in larga misura nella capacità di dominare le emozioni altrui. Nel capitolo 8 analizzeremo la competenza e l'incompetenza sociale, e le capacità specifiche che vi sono implicate. Si tratta di abilità che aumentano la popolarità, la leadership e l'efficacia nelle relazioni interpersonali. Coloro che eccellono in queste abilità riescono bene in tutti i campi nei quali è necessario interagire in modo disinvolto con gli altri: in altre parole, sono veri campioni delle arti sociali. 


Naturalmente le persone hanno capacità diverse in ciascuno di questi cinque ambiti; può darsi, ad esempio, che alcuni di noi riescano a controllare benissimo la propria ansia ma siano relativamente incapaci di consolare i turbamenti altrui. Il nostro livello di capacità ha, senza dubbio, una base neurale; come vedremo, però, il cervello è eccezionalmente plastico, sempre impegnato com'è nei processi di apprendimento. Le eventuali carenze nelle capacità emozionali possono essere corrette: ciascuno di questi ambiti rappresenta, in larga misura, un insieme di abitudini e di risposte passibili di miglioramento, purché ci si impegni a tal fine nel modo giusto. 




Q.I. e intelligenza emotiva: tipi puri. 


Il Q.I. e l'intelligenza emotiva non sono competenze opposte, ma solo separate. Tutti noi siamo dotati di una miscela di abilità intellettuali ed emozionali; le persone con un elevato Q.I. ma con una scarsa intelligenza emotiva (come pure quelle che si trovano nella situazione inversa) sono, nonostante gli stereotipi correnti, relativamente rare. In verità, esiste una leggera correlazione fra Q.I. ed alcuni aspetti dell'intelligenza emotiva - tuttavia essa è abbastanza piccola da dimostrare come si tratta di entità in larga misura indipendenti. 

A differenza dei test ormai familiari per la determinazione del Q.I., finora non esiste un test per ottenere un “punteggio dell'intelligenza emotiva”, e probabilmente non esisterà mai. Sebbene si stiano compiendo ampie ricerche su ciascuna delle sue componenti, alcune di esse, come l'empatia, vengono valutate meglio osservando le reali capacità del soggetto messo alla prova - ad esempio chiedendogli di leggere i sentimenti di una persona dalle sue espressioni facciali filmate da una telecamera. Jack Block, uno psicologo della California University di Berkeley, ha misurato quella che egli chiama “resilienza dell'ego”, e che comprendendo le principali competenze sociali ed emozionali è abbastanza simile all'intelligenza emotiva; nei suoi studi, Block ha confrontato due tipi teorici puri: quello dei soggetti con un elevato Q.I., e quello degli individui con grandi doti emozionali (15). Le differenze riscontrate parlano da sé. 

Il tipo dotato di un elevato Q.I. (lasciando da parte l'intelligenza emotiva) è quasi una caricatura dell'intellettuale, abile nel regno della mente ma inetto in quello personale. I profili sono leggermente diversi a seconda che si tratti di uomini o donne. Il maschio con un elevato Q.I. è caratterizzato - il che non ci sorprende - da un'ampia gamma di interessi e di capacità intellettuali. E' ambizioso e produttivo, fidato e ostinato, e non è turbato da preoccupazioni autoriferite. Tende anche a essere critico e condiscendente, esigente e inibito, a disagio nella sfera della sessualità e delle esperienze sensuali, distaccato e poco espressivo, freddo e indifferente dal punto di vista emozionale. 

Invece, gli uomini dotati di grande intelligenza emotiva sono socialmente equilibrati, espansivi e allegri, non soggetti a paure o al rimuginare di natura ansiosa. Hanno la spiccata capacità di dedicarsi ad altre persone o a una causa, di assumersi responsabilità, e di avere concezioni e prospettive etiche; nelle loro relazioni con gli altri sono comprensivi, premurosi e protettivi. La loro vita emotiva è ricca ma appropriata; queste persone si sentono a proprio agio con se stesse, con gli altri e nell'universo sociale nel quale vivono.

Passando alle donne, il tipo puro con elevato Q.I. ha la prevedibile sicurezza intellettuale, è fluente nell'esprimere i propri pensieri, ha un'ampia gamma di interessi intellettuali ed estetici ai quali attribuisce molto valore. Queste donne tendono anche ad essere introspettive, soggette all'ansia, ai ripensamenti e ai sensi di colpa, ed esitano a esprimere apertamente la propria collera (sebbene lo facciano indirettamente). 

Le donne emotivamente intelligenti, invece, tendono ad essere sicure di sé, ad esprimere i propri sentimenti in modo diretto e a nutrirne di positivi riguardo a se stesse; per loro la vita ha un senso. Come gli uomini con il profilo corrispondente, esse sono estroverse e gregarie, ed esprimono i propri sentimenti in modo equilibrato (senza abbandonarsi, ad esempio, ad esplosioni delle quali debbano poi pentirsi); si adattano bene allo stress. Questo equilibrio sociale consente loro di stringere facilmente nuove conoscenze; si sentono abbastanza a proprio agio con se stesse da essere allegre, spontanee e aperte alle esperienze dei sensi. A differenza delle donne con un profilo di tipo puro con elevato Q.I., raramente si sentono in ansia o colpevoli, e raramente sprofondano nel rimuginare. 

Questi profili, naturalmente, sono estremi - tutti noi siamo dotati di abilità intellettuali ed emozionali in vario grado. Tuttavia essi offrono un'analisi istruttiva del contributo separato di ciascuna di queste dimensioni - intellettuale ed emozionale - alle qualità di un individuo. Nella misura in cui una persona è dotata sia di intelligenza cognitiva che di intelligenza emotiva, questi ritratti si fondono. Tuttavia, delle due, è proprio la seconda quella che contribuisce di più alle qualità che ci rendono pienamente umani.