13.
EMOZIONI E SUPERAMENTO DEI TRAUMI.
Quando i suoi figli - rispettivamente di sei, nove e undici anni le chiesero di comprar loro un A.K.-47 giocattolo, Som Chit, una rifugiata cambogiana, rifiutò di accontentarli. Le armi giocattolo servivano per fare un gioco chiamato “Purdy” con gli altri bambini della scuola. In questo gioco, Purdy, il cattivo, usa un fucile mitragliatore per massacrare un gruppo di bambini, poi lo rivolge contro se stesso. A volte, però, i bambini modificano il finale: sono loro a uccidere Purdy.
“Purdy” era la macabra messa in scena, effettuata da alcuni dei sopravvissuti, dei catastrofici eventi che ebbero luogo il 17 febbraio 1989, alla Cleveland Elementary School di Stockton, in California. Nella tarda mattinata, durante la ricreazione dei bambini delle prime, seconde e terze classi, Patrick Purdy - che circa vent'anni prima aveva frequentato la stessa scuola - si appostò al margine del campo giochi e, una raffica dopo l'altra, fece fuoco sparando proiettili da 7.22 millimetri sulle centinaia di bambini intenti al gioco. Per sette minuti Purdy seminò proiettili sul campo giochi, poi si puntò una pistola alla testa e sparò. Quando arrivò la polizia, a terra c'erano cinque bambini morenti e ventinove feriti.
Nei mesi successivi, “Purdy” fece spontaneamente la sua comparsa nei giochi degli alunni, maschi e femmine, della Cleveland Elementary: un segno - uno dei molti - che quei sette minuti, e le loro conseguenze, erano rimasti impressi nella loro memoria come un marchio a fuoco. Quando visitai la scuola, non molto distante dalla zona dove ero cresciuto io stesso, nei dintorni della University of the Pacific, erano passati cinque mesi da quando Purdy aveva trasformato quella ricreazione in un incubo. La sua presenza era ancora palpabile, anche se le tracce più orrende della sparatoria - fori di proiettili a sciami, pozze di sangue, brandelli di carne, pelle e capelli - erano già stati fatti sparire la mattina stessa del fatto, e tutto era stato lavato e riverniciato.
Ma le ferite più profonde, alla Cleveland Elementary, non erano certo quelle inferte all'edificio, bensì quelle aperte nella psiche dei bambini e dei dipendenti dell'istituto - che stavano tutti cercando di riprendere la loro vita normale (1). Ciò che colpiva di più, forse, era il modo in cui qualsiasi dettaglio avesse anche la minima somiglianza con un particolare di quel giorno, riuscisse a ravvivare il ricordo di quei pochi istanti. Ad esempio, un'insegnante mi raccontò di come un'onda di terrore pervase la scolaresca all'annuncio che il giorno di Saint Patrick era imminente; alcuni bambini si erano fatta in qualche modo l'idea che la giornata fosse in onore del killer - Patrick Purdy, appunto.
“Ogni volta che sentiamo un'ambulanza correre a sirene spiegate diretta alla casa di riposo in fondo alla strada, tutto si blocca” mi spiegò un'altra insegnante. “I bambini tendono l'orecchio per capire se si fermerà qui da noi, o proseguirà.” Per diverse settimane molti bambini erano terrorizzati dagli specchi dei bagni; nella scuola correva la voce che vi si annidasse in agguato la “Bloody Virgin Mary”, una sorta di mostro fantastico. A distanza di settimane dalla sparatoria, una bambina si precipitò di corsa, come impazzita, dalla direttrice della scuola, Pat Busher, gridando: “Sento degli spari! Sento degli spari!”. Il suono era quello di una catena che dondolava e sbatteva contro un palo.
Molti bambini divennero ipervigilanti, come se stessero continuamente in guardia, aspettandosi una replica della tragedia; alcuni alunni, durante la ricreazione, gironzolavano nei pressi della porta della classe, senza osare avventurarsi all'aria aperta, nel campo giochi dove aveva avuto luogo il massacro. Altri giocavano solo in piccoli gruppi, assegnando a qualcuno il ruolo di sentinella. Per mesi, molti bambini continuarono a evitare le aree “maledette” dove erano morti i loro compagni.
I ricordi sopravvissero anche nella forma di sogni importuni, che si insinuavano nella mente dei bambini quando, dormendo, abbassavano la guardia. Oltre ad avere incubi che in qualche modo ripetevano la scena della sparatoria, i bambini erano travolti da sogni angosciosi dai quali emergevano con il terrore che la loro morte fosse imminente. Alcuni bambini cercarono di dormire con gli occhi aperti per sfuggire ai sogni.
Tutte queste reazioni sono ben note agli psichiatri, in quanto rappresentano i sintomi fondamentali del disturbo da stress posttraumatico, o P.T.S.D. Al centro del problema, spiega Spencer Eth, uno psichiatria specializzato nella cura di bambini con P.T.S.D., è il “ricordo, invadente e molesto, dell'azione violenta: il colpo finale, sferrato con un pugno; un coltello che affonda; il bagliore di un'arma da fuoco. I ricordi sono esperienze percettive intense - la vista, il suono e l'odore pungente dello sparo; le urla o l'improvviso silenzio della vittima; gli spruzzi di sangue; le sirene della polizia”.
Oggi i neuroscienziati affermano che questi momenti così intensi e terrificanti diventano ricordi incastonati nei circuiti del cervello emozionale. I sintomi del P.T.S.D., in effetti, tradiscono un'iperattività dell'amigdala che incalza questi intensi ricordi del trauma costringendoli a varcare la soglia della consapevolezza. In quanto tale, il ricordo del trauma diventa un sensibilissimo meccanismo scatenante una sorta di grilletto neurale - pronto a far scattare un allarme al minimo indizio dell'imminente ripresentarsi dell'evento tanto paventato. Questo fenomeno è caratteristico di tutti i traumi emotivi, compresi quelli derivanti dai ripetuti maltrattamenti fisici durante l'infanzia.
Ogni evento traumatizzante può imprimere nell'amigdala questi ricordi innescanti: può trattarsi di un incendio o di un incidente automobilistico, di una catastrofe naturale come un terremoto o un uragano, di una violenza o un'aggressione. Ogni anno, centinaia di migliaia di persone si trovano a dover sopportare tali disastri, e molte di esse, forse la maggior parte, ne escono con ferite psicologiche che lasciano il segno sul loro cervello.
Gli atti violenti sono più pericolosi di catastrofi naturali come un uragano, perché, a differenza delle vittime di un disastro naturale, quelle della violenza umana sentono di essere state prescelte come bersaglio di un intenzionale atto malvagio. Questa sensazione manda in frantumi tutti gli assunti sulla fidatezza delle persone e sulla sicurezza delle relazioni interpersonali, assunti che le catastrofi naturali lasciano invece intatti. Nel giro di un istante, il mondo, inteso come luogo sociale, diventa pericoloso, popolato com'è di persone che rappresentano potenziali minacce alla sicurezza.
La memoria delle vittime della crudeltà umana resta in qualche modo segnata ed esse considerano con paura qualunque elemento ricordi loro anche solo vagamente l'assalto subito. Un tale che era stato colpito alla nuca, e non aveva mai visto in faccia il suo aggressore, era talmente spaventato che cercava di camminare sempre davanti a un'anziana signora, in modo da sentirsi sicuro di non essere colpito di nuovo (2). Una donna, precedentemente aggredita da un uomo che, salito con lei su un ascensore, l'aveva costretta a scendere a un piano disabitato dell'edificio, per settimane continuò a sprofondare nel terrore non solo quando doveva salire su un ascensore, ma anche se si recava in metropolitana o in qualunque altro spazio chiuso dove avrebbe potuto sentirsi in trappola; un giorno, in banca, vide un uomo infilarsi la mano nella giacca come aveva fatto il suo aggressore, e scappò via.
Uno studio condotto sui sopravvissuti all'Olocausto ha messo in evidenza che i segni lasciati nella memoria dall'orrore, e l'ipervigilanza che ne deriva, possono durare una vita intera. A distanza di quasi cinquant'anni dai tempi in cui avevano patito la fame e assistito al macello dei loro cari vivendo nel costante terrore dei campi di concentramento nazisti, i ricordi tormentosi di questi sopravvissuti erano ancora ben vivi nella loro memoria. Un terzo di essi disse di sentirsi in genere pauroso. Quasi tre quarti raccontarono di cadere ancora preda dell'ansia in presenza di qualcosa che ricordasse loro le persecuzioni naziste, ad esempio alla vista di un'uniforme, al suono di un colpo battuto alla porta, all'abbaiare dei cani o alla vista del fumo che si leva da un camino. Circa il 60 per cento di questi soggetti disse di pensare all'Olocausto quasi tutti i giorni, anche a distanza di mezzo secolo; fra coloro che mostravano sintomi attivi, circa otto su dieci soffrivano ancora di ripetuti incubi notturni. Come disse un sopravvissuto: “Se sei stato ad Auschwitz e non hai incubi, allora non sei normale”.
L'orrore cristallizzato nella memoria.
Ecco le parole di un veterano del Vietnam, oggi quarantottenne, circa ventiquattro anni dopo aver vissuto un momento spaventoso in una terra lontana:
"Non riesco a levarmi questi ricordi dalla mente! Le immagini tornano come un'onda, vivide, richiamate dalle cose più irrilevanti, come lo sbattere di una porta, la vista di una donna dai tratti orientali, la sensazione che si prova a toccare una stuoia di bambù, o il profumo del maiale fritto. Ieri notte sono andato a letto, e tanto per cambiare mi stavo facendo una bella dormita. Poi, nelle prime ore del mattino, passò da queste parti il fronte di una burrasca e fu tutto un fragore di tuoni. Mi svegliai immediatamente, raggelato dalla paura. Ecco, sono di nuovo in Vietnam, nel bel mezzo della stagione dei monsoni, al mio posto di guardia. Sono sicuro che alla prossima scarica mi colpiranno e sono convinto che morirò. Ho le mani gelate, e tutto il corpo fradicio di sudore. Sento drizzarmisi ogni pelo sul collo. Non riesco a prendere fiato, e il cuore mi batte forte. Sento il mio odore - un tanfo di zolfo bagnato. All'improvviso vedo quel che resta del mio amico Troy... su un piatto di bambù, rispeditoci al campo dai Vietcong... Il bagliore del lampo e il fragore del tuono successivo mi fanno sobbalzare al punto che cado dal letto“ (3).
Questo ricordo orribile, intenso e particolareggiato nonostante risalga a più di vent'anni prima, ha ancora il potere di scatenare nell'ex soldato la stessa paura provata quel giorno fatidico. Il P.T.S.D. comporta un pericoloso abbassamento della soglia neurale che fa scattare l'allarme; l'individuo reagisce quindi ai normali eventi della vita come se si trattasse di emergenze. Il circuito responsabile del “sequestro” neurale, discusso nel capitolo 2, sembra avere un ruolo fondamentale nell'imprimere questo marchio a fuoco nella memoria; quanto più gli eventi che scatenano il “sequestro” da parte dell'amigdala sono orrendi, brutali e scioccanti, tanto più indelebile è il loro ricordo. La base neurale di questi ricordi sembra risiedere in un'estesa alterazione nella chimica del cervello, messa in moto da un'unica esperienza di insostenibile terrore (4). Sebbene il P.T.S.D. insorga solitamente a causa dell'impatto di un singolo episodio, risultati simili possono aversi anche in seguito a crudeltà inflitte nell'arco di anni, come avviene nel caso dei bambini maltrattati o violentati dal punto di vista fisico, sessuale o psicologico.
Lo studio più dettagliato su queste modificazioni a livello cerebrale è quello in corso presso il National Center for Post-Traumatic Stress Disorder, che coordina una serie di centri di ricerca con sede presso gli ospedali della Veterans' Administration; in questi luoghi sono ospitati molti veterani del Vietnam e di altre guerre sofferenti di P.T.S.D. E' proprio a studi su veterani come questi che dobbiamo gran parte delle nostre conoscenze sul disturbo da stress posttraumatico. Le conoscenze così acquisite, tuttavia, si applicano anche ai bambini vittime di gravi traumi psicologici, ad esempio quelli della Cleveland Elementary.
“Le vittime di traumi devastanti non saranno mai più le stesse dal punto di vista biologico” mi disse Dennis Charney (5). Psichiatra di Yale, Charney è primario di neuroscienze cliniche al National Center. “Non importa se il trauma sia stato il terrore incessante del combattimento, della tortura, o i ripetuti maltrattamenti patiti durante l'infanzia, o ancora l'esperienza di un singolo evento, come l'essere intrappolati da un uragano o scampare alla morte per miracolo in un incidente d'auto. Tutti gli stress incontrollabili hanno lo stesso impatto biologico.”
La parola chiave, qui, è proprio ”incontrollabile“. Se in una situazione catastrofica un individuo pensa di poter far qualcosa, di poter esercitare un certo controllo, non importa se limitato, sta psicologicamente meglio di chi si sente del tutto impotente. E' l'impotenza che ci fa sentire ”soggettivamente“ sopraffatti da un particolare evento. Come mi disse John Krystal, direttore del Laboratory of Clinical Psychopharmacology del National Center, “immaginiamo che una persona aggredita con un coltello sappia come difendersi e reagisca, mentre un'altra, nella stessa difficile situazione, pensi 'sono spacciato'. L'individuo che si sente impotente è quello più vulnerabile al P.T.S.D. Il cervello comincia ad alterarsi proprio nel momento in cui hai la sensazione che la tua vita sia in pericolo e sai ”che non puoi far nulla per salvarti"“.
Il fatto che la sensazione di essere impotenti sia una sorta di jolly che scatena il P.T.S.D. è stato dimostrato nel corso di decine di studi effettuati su coppie di ratti; gli animali venivano alloggiati ciascuno in una gabbia diversa, dove ognuno di essi subiva un'identica scarica elettrica: una stimolazione leggera, ma molto stressante per l'animale. In ogni coppia, solo uno dei due ratti aveva, nella gabbia, una leva; spingendola, l'animale poteva bloccare la somministrazione dello shock a se stesso e al partner. Con il passare dei giorni e delle settimane, entrambi i ratti ricevevano esattamente lo stesso numero di scariche elettriche. Ma il ratto che aveva la possibilità di evitare lo shock usciva dall'esperimento senza mostrare segni permanenti di stress, che comparivano solo nell'animale messo in condizioni di impotenza (6). Per un bambino fatto bersaglio di una sparatoria durante l'ora di ricreazione, la vista dei compagni sanguinanti e morenti - o nel caso di un insegnante, l'impossibilità di metter fine al massacro - questa sensazione di impotenza deve essere stata palpabile.
Il P.T.S.D. come disturbo del sistema limbico.
Erano passati quattro mesi da quando un violento terremoto l'aveva scaraventata giù dal letto urlante di paura a cercare il suo bambino di quattro anni nella casa immersa nel buio. Stettero per ore nel freddo della notte di Los Angeles, stipati insieme ad altra gente al riparo di un portone, inchiodati lì senza cibo, acqua o luce mentre le scosse di assestamento, una dopo l'altra, scuotevano la terra sotto i loro piedi. Ora, mesi dopo, la donna si era in gran parte ripresa dalla tendenza agli attacchi di panico che l'avevano tenuta in scacco i primi giorni dopo la catastrofe, quando bastava lo sbattere di una porta per farla rabbrividire di paura. Il solo sintomo restio a scomparire era l'insonnia, un problema che la tormentava solo nelle notti in cui il marito era fuori casa - proprio come la notte del terremoto.
I principali sintomi di questa paura appresa - compresi quelli più intensi, ossia il P.T.S.D. - si spiegano considerando le alterazioni che hanno luogo nei circuiti del sistema limbico concentrati in modo particolare nell'amigdala (7). Alcune delle alterazioni più importanti hanno luogo nel locus ceruleus, una struttura che regola la secrezione cerebrale delle “catecolamine”, ossia dell'adrenalina e della noradrenalina. Questi due neurotrasmettitori mobilitano l'organismo preparandolo all'emergenza; queste stesse sostanze fanno sì che i ricordi si imprimano nella memoria con particolare intensità. Nei pazienti con P.T.S.D. questo sistema diventa iperreattivo, secernendo dosi eccezionalmente elevate di catecolamine in risposta a situazioni che in realtà comportano minacce insignificanti - o addirittura inesistenti - ma che in qualche modo ricordano il trauma originale; questo era proprio ciò che accadeva quando i bambini della Cleveland Elementary School cadevano in preda al panico al suono della sirena di un'ambulanza simile a quelle che avevano udito subito dopo la sparatoria.
Il locus ceruleus e l'amigdala sono in stretto collegamento fra loro e con altre strutture del sistema limbico, come l'ippocampo e l'ipotalamo; i circuiti catecolaminergici si estendono poi nella corteccia. Si ritiene che alla base dei sintomi del P.T.S.D. - che comprendono ansia, paura, ipervigilanza, inclinazione al turbamento e a uno stato di attivazione, prontezza al combattimento o alla fuga e l'indelebile memoria di intensi ricordi carichi di emotività - ci siano alcune alterazioni di questi circuiti (8). In uno studio è stato scoperto che i veterani del Vietnam affetti da P.T.S.D. avevano una quantità di recettori bloccanti le catecolamine (alfa-2) inferiore del 40 per cento rispetto a uomini che non presentavano i sintomi del P.T.S.D.; ciò indicava che il cervello dei soggetti con P.T.S.D. era andato incontro ad alterazioni permanenti caratterizzate da uno scarso controllo sulla secrezione di catecolamine (9).
Altre modificazioni hanno luogo nel circuito che collega il sistema limbico alla ghiandola pituitaria, una struttura che regola la liberazione del C.R.F., ossia del principale ormone dello stress secreto dall'organismo per innescare la risposta di combattimento o fuga. Le alterazioni della pituitaria portano a un'ipersecrezione di questo ormone - soprattutto nell'amigdala, nell'ippocampo e nel locus ceruleus che mette l'organismo in uno stato di allerta scatenato da un'emergenza che in realtà non esiste (10).
Come mi disse Charles Nemeroff, uno psichiatra della Duke University, “troppo C.R.F. ti rende iperreattivo. Ad esempio, se sei un veterano del Vietnam con P.T.S.D. e nel parcheggio di un centro commerciale vedi un'auto andare a fuoco, è l'innesco della secrezione del C.R.F. che ti inonda con gli stessi sentimenti che provasti al momento del trauma originale: cominci a sudare, sei terrorizzato, tremi e rabbrividisci, forse hai dei flashback. Le persone con ipersecrezione di C.R.F. hanno un'eccessiva tendenza a trasalire. Ad esempio, se ti nascondi dietro a qualcuno e all'improvviso batti le mani, la prima volta vedrai sussultare l'altro per la sorpresa; questo non accadrà più, però, alla terza o alla quarta ripetizione. Ma le persone con livelli troppo alti di C.R.F. non si abituano: rispondono al quarto stimolo esattamente come hanno reagito al primo” (11).
Una terza serie di alterazioni avviene a livello del sistema degli oppiacei, ossia nelle strutture che secernono le endorfine per attutire la sensazione del dolore: anch'esso diventa iperreattivo. L'amigdala partecipa anche a questo circuito neurale, stavolta insieme a una regione della corteccia cerebrale. Gli oppiacei sono sostanze chimiche che generano torpore, proprio come l'oppio e gli altri narcotici chimicamente affini. Quando l'individuo ha un elevato livello di oppiacei (“la morfina del cervello”) presenta un'aumentata tolleranza al dolore, un effetto riscontrato dai chirurghi che operavano sui campi di battaglia, che notarono come i soldati con ferite gravissime avessero bisogno di dosi di anestetici inferiori rispetto a quelle necessarie per i civili con ferite molto meno gravi.
Qualcosa di simile sembra accadere nei pazienti con P.T.S.D. (12). Le alterazioni dei livelli di endorfine aggiungono una nuova dimensione al cocktail neurale scatenato dalla riesposizione al trauma, e cioè l'“ottundimento” di certi sentimenti. Questo sembra spiegare una serie di sintomi psicologici “negativi” da lungo tempo osservati nel P.T.S.D.: l'anedonia (ossia l'incapacità di provare piacere), un generale torpore emozionale, la sensazione di essere tagliati fuori dalla vita e di non provare interesse per i sentimenti degli altri. Chi sta vicino a questi pazienti può sperimentare la loro indifferenza come una mancanza di empatia. Un altro effetto possibile può essere la dissociazione, compresa l'incapacità di ricordare fasi cruciali dell'evento traumatico, della durata di minuti, ore o perfino giorni.
Le alterazioni neurali che hanno luogo nel P.T.S.D. sembrano anche rendere l'individuo più suscettibile a ulteriori traumi. Numerosi studi effettuati sull'animale hanno messo in evidenza che quando essi venivano esposti a stress anche “leggeri” da giovani, diventavano molto più vulnerabili, rispetto agli animali di controllo, alle alterazioni cerebrali indotte dai traumi (il che indica la necessità urgente di curare i bambini affetti da P.T.S.D.). Questo sembra spiegare anche come mai una persona sviluppi il P.T.S.D. e un'altra no, pur essendo entrambe esposte alla stessa catastrofe: l'amigdala, infatti, è programmata per individuare il pericolo, e quando gli eventi della vita la mettono nuovamente di fronte a un rischio reale, il suo allarme suona più forte.
Tutte queste alterazioni neurali offrono vantaggi a breve termine per affrontare le emergenze atroci e spietate che ne sono la causa. Nelle situazioni difficili, essere altamente vigilanti, attivati, disposti a tutto, resistenti al dolore, con il corpo pronto a sforzi fisici prolungati e - per il momento - indifferente a quelli che in altre circostanze potrebbero rappresentare eventi notevolmente spiacevoli, ha un evidente valore adattativo. Questi vantaggi immediati, però, sul lungo termine possono diventare veri e propri problemi se il cervello si altera al punto da fare di essi delle predisposizioni - come una macchina con il cambio perennemente bloccato in quarta. Quando, nel corso di un evento intensamente traumatico, l'amigdala e le regioni del cervello ad essa connesse vengono per così dire ritarate, questa alterazione dell'eccitabilità - questo potenziamento della tendenza a scatenare “sequestri” neurali - comporta che tutta la vita sia sempre sull'orlo dell'emergenza, e che anche un evento neutrale possa scatenare un'esplosione di terrore.
Ri-apprendere reazioni emotive normali.
Questi ricordi traumatici sembrano restare radicati nella funzione cerebrale, in quanto interferiscono con il successivo apprendimento - anzi, più precisamente, con il ri-apprendimento di una risposta più normale agli eventi traumatizzanti. Quando la paura è acquisita, come accade nel P.T.S.D., i meccanismi dell'apprendimento e della memoria si sono inceppati; anche in questo caso, è l'amigdala, fra tutte le regioni cerebrali coinvolte, ad avere un ruolo fondamentale. Per vincere la paura acquisita, però, è fondamentale la neocorteccia.
“Condizionamento della paura”: questa è l'espressione che gli psicologi usano per indicare il processo grazie al quale una cosa assolutamente innocua finisce per essere temuta in quanto viene associata, nella mente del soggetto, a qualcosa di spaventoso. Quando queste paure vengono indotte negli animali di laboratorio, osserva Charney, possono durare per anni (13). Nel cervello, la struttura chiave che apprende, memorizza e mette in atto queste risposte di paura è il circuito che connette il talamo, l'amigdala e il lobo prefrontale - quello stesso circuito responsabile dei “sequestri” neurali.
Di solito, quando si impara a temere qualcosa attraverso il condizionamento, la paura con il tempo svanisce. Questo fenomeno sembra dovuto a un ri-apprendimento naturale, che ha luogo quando il soggetto si ri-imbatte nell'oggetto temuto, in assenza di alcunché di veramente spaventoso. Ad esempio, una bambina che abbia acquisito la paura dei cani perché inseguita da un pastore tedesco ringhiante, a poco a poco e spontaneamente si libererà di quella paura se, ad esempio, il suo vicino di casa possiede un cane affettuoso e la bimba passa il suo tempo a giocare con lui.
Nel P.T.S.D. questo ri-apprendimento spontaneo non ha luogo. Charney ipotizza che ciò sia dovuto al fatto che le alterazioni cerebrali tipiche del P.T.S.D. sono talmente forti che l'amigdala può scatenare un “sequestro” ogni qualvolta si presenti qualcosa di anche solo vagamente simile al trauma originale, rafforzando così la via neurale della paura. Questo significa che l'oggetto della paura non viene mai associato a un sentimento di calma - l'amigdala non ri-apprende più una reazione smorzata. “L'estinzione” della paura, osserva Charney, “sembra implicare un processo di apprendimento attivo” che negli individui con P.T.S.D. è compromesso, il che “porta così all'anormale persistenza dei ricordi carichi di valenze emotive” (14).
Ma se si offrono all'individuo le esperienze giuste, anche il P.T.S.D. può allentare la sua morsa; con il tempo, gli intensi ricordi emozionali, e i pensieri e le reazioni che essi scatenano, “possono” modificarsi. Questo ri-apprendimento, ipotizza Charney, è di natura corticale. La paura originale, che ha messo profonde radici nell'amigdala, non sparisce mai del tutto; piuttosto, la corteccia prefrontale sopprime attivamente i segnali che l'amigdala invia al resto del cervello per innescare la risposta di paura.
“Il vero problema è: quanto ci vuole per liberarsi della paura appresa?” si chiede Richard Davidson, lo psicologo della Wisconsin University che scoprì il ruolo della corteccia prefrontale sinistra come ammortizzatore della sofferenza. In un esperimento di laboratorio, i soggetti apprendevano un'avversione nei confronti di un forte rumore; questa reazione serviva da modello della paura appresa e come parallelo in chiave minore del P.T.S.D.; Davidson scoprì che gli individui con una maggiore attività a livello della corteccia prefrontale sinistra superavano più velocemente questa paura acquisita, il che suggeriva ancora una volta che la corteccia avesse una funzione nel liberare l'individuo dalla sofferenza appresa (15).
Rieducare i circuiti delle emozioni.
Una delle scoperte più incoraggianti sul P.T.S.D. è emersa da uno studio compiuto sui sopravvissuti all'Olocausto, in circa tre quarti dei quali, a distanza di mezzo secolo, vennero riscontrati sintomi attivi di P.T.S.D. La scoperta positiva fu che un quarto dei sopravvissuti, un tempo tormentati da tali sintomi, ora non ne avevano più; in qualche modo, gli eventi naturali della vita avevano antagonizzato il problema. Gli individui che ancora presentavano i sintomi mostravano le tipiche alterazioni del sistema catecolaminergico che si riscontrano nel P.T.S.D. - ma quelli che si erano ripresi non presentavano modificazioni di sorta (16). Questa scoperta, e altre come questa, lasciano intendere che le alterazioni cerebrali caratteristiche del P.T.S.D. non siano irreversibili e che gli individui possano riprendersi anche dal più tremendo “imprinting” emotivo - in breve, indicano la possibilità di rieducare i circuiti neurali che elaborano le emozioni. Il dato confortante, dunque, è che anche traumi profondi come quelli che causano il P.T.S.D. possono guarire e che la via che porta a tale guarigione passa attraverso il riapprendimento.
Almeno nei bambini, una delle vie che portano a questo risanamento psicologico spontaneo passa proprio attraverso giochi come “Purdy” che, ripetuti molte volte, consentono di rivivere il trauma in modo sicuro - come un gioco, appunto. Questo apre due vie alla guarigione: da un lato, il ricordo si ripete in un contesto caratterizzato da un basso livello di ansia, tale da portare a una desensibilizzazione e da permettere l'associazione con risposte non traumatizzate. Un'altra via per la guarigione è quella che consente ai bambini, almeno nella loro mente, come per magia, di dare alla tragedia un altro finale, migliore: a volte, giocando a “Purdy”, i bambini lo uccidono, il che aumenta il loro senso di padronanza su quel traumatico momento di impotenza.
Giochi come “Purdy” sono prevedibili nei bambini più piccoli che abbiano sperimentato atti di violenza così tremendi. Nei bambini traumatizzati, questi giochi macabri vennero notati per la prima volta da Lenore Terr, una psichiatra infantile di San Francisco (17). Ella li osservò nei bambini di Chowchilla (California) - cittadina della Central Valley a poco più di un'ora da Stockton, teatro dello scempio di Purdy - che nel 1973 furono rapiti su un autobus che li riportava a casa da una giornata passata al campeggio estivo. I rapitori nascosero l'autobus seppellendolo con i bambini e tutto il resto, in quello che fu un tormento durato ventisette ore.
Cinque anni dopo, Terr scoprì che le vittime, nei loro giochi, mettevano ancora in scena il rapimento. Le bambine, ad esempio, facevano giochi in cui le loro Barbie erano vittime di rapimenti simbolici. Una bambina era rimasta particolarmente nauseata dalla sensazione, sulla propria pelle, dell'urina dei suoi compagni di sventura, terrorizzati e ammassati insieme a lei durante il rapimento; in seguito, continuava a lavare e rilavare la sua Barbie. Un'altra piccola giocava a “Traveling Barbie”; in questo gioco Barbie va da qualche parte - non importa dove - e ritorna sana e salva, il che è ciò che veramente conta. Il gioco preferito di un'altra bambina si svolgeva in uno scenario in cui la bambola restava bloccata in una buca e soffocava.
Mentre gli adulti che hanno attraversato traumi tremendi possono andare incontro a un intorpidimento psichico, nel quale escludono ricordi o sentimenti relativi alla catastrofe, la psiche dei bambini spesso gestisce il trauma in modo diverso. Poiché si servono della fantasia, del gioco e dei sogni a occhi aperti per richiamare e ripercorrere mentalmente i propri tormenti, secondo Terr i bambini diventano insensibili al trauma meno spesso degli adulti. Questo rimettere volontariamente in scena il trauma sembra bloccare la necessità di arginarlo sotto forma di ricordi vividissimi che più tardi possono esplodere come flashback. Se il trauma è di entità minore, come quello di andare dal dentista per farsi otturare una carie, potrà bastare rimetterlo in scena una o due volte. Ma se si tratta di un trauma spaventoso, il bambino dovrà ripeterlo infinite volte, seguendo un rituale tetro e monotono.
Un modo per arrivare alla scena rimasta congelata nell'amigdala è attraverso l'arte, che di per se stessa è un mezzo dell'inconscio. Il cervello emozionale è in sintonia con i significati simbolici e con la modalità che Freud chiamava il “processo primario” - in altre parole, con i messaggi della metafora, della storia, del mito, dell'arte. Spesso, per trattare i bambini traumatizzati, si ricorre a questa via. A volte l'arte può consentire ai bambini di parlare di un momento di orrore al quale non oserebbero accennare altrimenti.
Spencer Eth, lo psichiatra infantile di Los Angeles che è specializzato nel trattare questi casi, racconta di un bambino di cinque anni che era stato rapito insieme alla madre dall'ex amante di lei. L'uomo li portò nella stanza di un motel, dove ordinò al bambino di nascondersi sotto una coperta mentre egli batteva a morte la madre. Comprensibilmente, il piccolo era riluttante a parlare con Eth del massacro che aveva visto e udito da sotto la coperta. Perciò Eth gli chiese di fare un disegno - un disegno qualunque.
Il disegno rappresentava un pilota di un'auto da corsa con un paio di occhi enormi. Eth ritiene che essi facessero riferimento all'audacia del bambino mentre sbirciava il killer da sotto la coperta. Nella produzione artistica dei bambini traumatizzati non mancano quasi mai questi riferimenti nascosti alla scena traumatica; quando ha a che fare con bambini come questi, la prima mossa di Eth sta proprio nell'esortarli a fare un disegno. I ricordi prepotenti che assillano il bambino si insinuano nella sua produzione artistica proprio come nei suoi pensieri. Al di là di questo, l'atto stesso del disegnare è terapeutico, in quanto dà inizio al processo nel corso del quale il bambino arriva a dominare il trauma.
Ri-apprendimento e guarigione.
“Irene si era recata a un appuntamento che era finito in un tentativo di violenza carnale. Sebbene ella si fosse liberata dell'aggressore difendendosi, quello continuava a tormentarla: la molestava con telefonate oscene, la minacciava di violenza, la chiamava nel mezzo della notte, la pedinava e osservava ogni sua mossa. Una volta, quando cercò di farsi aiutare dalla polizia, questa donna sentì liquidare il suo problema come una cosa banale, dal momento che “in realtà non era accaduto nulla”. Quando iniziò la terapia, Irene aveva ormai i sintomi del P.T.S.D., aveva rinunciato completamente alla vita sociale e si sentiva prigioniera in casa sua”.
Il caso di Irene viene citato da Judith Lewis Herman, una psichiatra di Harvard la cui ricerca pionieristica ha indicato i passaggi principali nella guarigione da un trauma. Herman riconosce tre stadi: la conquista di un senso di sicurezza, il ricordo dei dettagli del trauma e il dolore per la perdita che esso ha comportato, e infine il ripristino di una vita normale. Nella sequenza di questi stadi, come vedremo, c'è una logica biologica: essa sembra riflettere il modo in cui il cervello emozionale ri-apprende che la vita non deve essere considerata come un'emergenza incombente.
Il primo passo, che si traduce nel riacquisire il senso di sicurezza, presumibilmente consiste nel trovare il modo di calmare i circuiti neurali generalmente iperreattivi e troppo inclini alla paura, al punto da consentire loro di ri-apprendere reazioni più normali (18). Per ottenere questo, spesso si comincia aiutando i pazienti a comprendere che la loro eccitabilità e i loro incubi notturni, l'ipervigilanza e il panico, sono parte dei sintomi del P.T.S.D. - una consapevolezza che basta a rendere quegli stessi sintomi meno spaventosi. Un altro passo iniziale è quello di aiutare i pazienti a riacquistare un certo senso di controllo sugli eventi della vita, ossia a dimenticare la lezione di impotenza che il trauma aveva impartito loro. Irene, ad esempio, mobilitò i propri amici e i propri familiari affinché costruissero un cordone di isolamento fra lei e il suo pedinatore, e riuscì a ottenere l'intervento della polizia.
L'“insicurezza” dei pazienti di P.T.S.D. va ben oltre la paura che il pericolo sia in agguato intorno a loro; essa ha origini più intime, nella sensazione di non avere alcun controllo su quello che sta accadendo al proprio corpo e alle proprie emozioni. Questo è comprensibile, dato che ipersensibilizzando i circuiti dell'amigdala, il P.T.S.D. crea un sensibile meccanismo di innesco dei “sequestri” neurali.
Il trattamento farmacologico rappresenta uno dei modi per ripristinare nei pazienti la convinzione che non sia affatto inevitabile essere alla mercé degli allarmi neurali che li “inondano” con un'ansia inesplicabile, li tengono insonni, o popolano il loro sonno di incubi. I farmacologi sperano un giorno di confezionare farmaci su misura in grado di colpire con precisione gli effetti del P.T.S.D. sull'amigdala e sui circuiti neurali ad essa collegati. Per adesso, tuttavia, ci sono farmaci che antagonizzano solo alcune di tali alterazioni: in particolare, gli antidepressivi agiscono sul sistema serotoninergico, e i beta-bloccanti come il propanololo bloccano l'attivazione del sistema nervoso simpatico. I pazienti possono anche apprendere tecniche di rilassamento con le quali opporsi efficacemente alla tensione e al nervosismo. L'ottenimento di uno stato di calma fisiologica consente ai circuiti emozionali traumatizzati di riscoprire che la vita non è una minaccia e permette ai pazienti di riacquisire parte della sicurezza che avevano prima del trauma.
Nella guarigione, il passo successivo comporta poi il ri-raccontare e il ri-costruire la storia del trauma al riparo della sicurezza appena riacquisita, permettendo ai circuiti neurali che elaborano le emozioni di comprendere il ricordo del trauma e di reagire ad esso e ai fattori che lo scatenano in modo nuovo e più realistico. Quando i pazienti raccontano gli orribili dettagli del trauma, il ricordo comincia a trasformarsi, sia nel suo significato psicologico che nei suoi effetti sul cervello emozionale. Il ritmo di questo ri-raccontare è una questione delicata; in linea teorica, esso imita quello naturale che si osserva negli individui in grado di riprendersi da soli dal trauma senza andare incontro al P.T.S.D. In questi casi sembra spesso esserci una sorta di orologio interno che fa rivivere il trauma all'individuo “somministrandogli” i ricordi tormentosi, intervallandoli con periodi di settimane o mesi durante i quali essi non hanno praticamente ricordo alcuno dei terribili eventi traumatici (19).
Questa alternanza di immersioni e di tregue sembra permettere una riconsiderazione spontanea del trauma e un ri-apprendimento della reazione emozionale ad esso. Nel caso dei pazienti con P.T.S.D. più grave, secondo Herman, ri-raccontare la storia del trauma può a volte scatenare paure sconvolgenti; in tal caso il terapeuta dovrebbe allentare il ritmo in modo da mantenere le reazioni del paziente in un ambito sopportabile, che non abbiano un effetto distruttivo sul ri-apprendimento.
Il terapeuta incoraggia il paziente a ri-raccontare gli eventi traumatici nel modo più intenso possibile, come in un film dell'orrore, ricordando tutti i dettagli sordidi. Ciò comporta non solo la narrazione, nei particolari, di ciò che i pazienti hanno visto, udito, odorato e sentito, ma anche le loro reazioni: il terrore, il disgusto, la nausea. L'obiettivo qui è di trasporre l'intero ricordo in parole, catturando cioè le parti eventualmente dissociate e pertanto assenti dal ricordo cosciente. Esprimendo a parole sentimenti e sensazioni fisiche, probabilmente i ricordi vengono riportati sotto il controllo della neocorteccia, dove le reazioni che essi scatenano possono essere più comprensibili e pertanto più facilmente gestibili. A questo punto, il ri-apprendimento emozionale viene effettuato in larga misura rivivendo gli eventi e le emozioni ad essi legate, ma stavolta in un ambiente sicuro, in compagnia del terapeuta di fiducia. In questo modo si comincia a insegnare qualcosa di significativo ai circuiti emozionali - e cioè che insieme al ricordo del trauma è possibile sperimentare una sensazione di sicurezza, e non solo terrore senza pace.
Il bambino di cinque anni che, dopo aver assistito all'orrendo assassinio della propria madre, aveva disegnato gli occhi giganteschi, non fece altri disegni dopo quel primo; egli fece invece dei giochi con il suo terapeuta, Spencer Eth, creando così un legame con lui. Solo lentamente, poi, il piccolo cominciò a ri-raccontare la storia dell'omicidio, dal principio in modo stereotipato, recitando ogni particolare sempre esattamente nello stesso modo. Gradualmente, però, la sua narrazione divenne più aperta e libera, e mentre raccontava il suo corpo era meno teso. Allo stesso tempo gli incubi notturni, nei quali rivedeva la scena, si presentarono meno spesso - un'indicazione, secondo Eth, di un certo “controllo del trauma”. Gradualmente i discorsi del bambino e del terapeuta si spostarono dalle paure lasciate in lui dal trauma, per soffermarsi di più sugli eventi della vita quotidiana, dopo che si era trasferito in una nuova casa con il padre. E infine, via via che la morsa del trauma si allentava, il piccolo fu in grado di parlare solo della sua vita quotidiana.
Infine, Herman pensa che i pazienti debbano esprimere il proprio dolore per la perdita che il trauma ha comportato - si tratti di una ferita, della morte di una persona cara, della rottura di una relazione, del rimorso per non aver fatto qualcosa per salvare qualcuno, o anche solo dell'infrangersi della convinzione che gli altri meritino la nostra fiducia. Il dolore che segue il racconto degli eventi dolorosi ha una funzione cruciale: segna la capacità di lasciar fuoriuscire, in una certa misura, il trauma. Significa che invece di essere costantemente prigionieri di quel tragico momento del passato, i pazienti possono cominciare a guardare avanti, perfino a sperare e a ricostruirsi una nuova vita, libera dalla morsa del trauma. E' come se, per i circuiti emozionali, il costante riciclare e rivivere il terrore del trauma fosse un incantesimo che infine può essere infranto. Non è necessario che il suono di ogni sirena ci travolga con un'ondata di paura; né che il minimo rumore nella notte scateni un flashback di terrore.
Spesso, le conseguenze del trauma o un'occasionale ricorrenza dei sintomi persistono, afferma Herman; tuttavia, ci sono prove specifiche del fatto che esso, in larga misura, è stato superato. Questi segni comprendono la riduzione dei sintomi fisiologici a un livello accettabile e la capacità di sopportare i sentimenti legati al ricordo. Soprattutto, è significativo che i ricordi del trauma non erompano più in momenti incontrollabili: l'individuo è adesso in grado di rivisitarli e - cosa forse più importante - di metterli da parte volontariamente, proprio come accade per tutti gli altri ricordi. Infine, ciò implica il dare spazio a una nuova vita, con relazioni forti e fidate e un sistema di convinzioni capace di trovare significati anche in un mondo in cui possono accadere grandi ingiustizie (20). Tutte queste non sono che testimonianze del successo nella rieducazione del cervello emozionale.
La psicoterapia come guida.
Fortunatamente, nel corso della vita di ciascuno di noi, i momenti catastrofici nei quali i ricordi traumatici vengono impressi nella psiche sono rari. Tuttavia, gli stessi circuiti che fissano così marcatamente i ricordi traumatici sono presumibilmente all'opera anche nei momenti più tranquilli della vita. Le sofferenze più comuni dell'infanzia, ad esempio l'essere costantemente ignorati e deprivati dell'attenzione o della tenerezza da parte di un genitore, l'abbandono o la perdita, o ancora l'essere respinti socialmente, possono non raggiungere mai il livello del trauma, ma sicuramente lasciano il segno sul cervello emozionale, creando distorsioni - lacrime e collera - nelle successive relazioni intime dell'individuo. Se è possibile guarire il P.T.S.D., altrettanto si può dire delle cicatrici psicologiche meno appariscenti che moltissimi di noi si portano dentro; questo è proprio il compito della psicoterapia. In generale, l'intelligenza emotiva entra in gioco proprio nel momento in cui si deve apprendere a gestire abilmente queste reazioni cariche di valenze psicologiche.
L'interazione dinamica fra l'amigdala da una parte e le reazioni più completamente informate della corteccia prefrontale dall'altra può offrirci un modello neuroanatomico per spiegare in che modo la psicoterapia riplasmi modelli emotivi radicati ma ormai privi di valore adattativo. Come ipotizza Joseph LeDoux, il neuroscienziato che ha scoperto il ruolo chiave dell'amigdala come sensibile sistema di innesco nelle esplosioni emotive: “Una volta che il tuo sistema emozionale impara qualcosa, sembra che non la dimentichi più. Quel che la terapia riesce a insegnarti è come controllarlo - insegna alla neocorteccia come inibire l'amigdala. L'inclinazione all'atto viene così soppressa, mentre l'emozione fondamentale rimane in forma attenuata”.
Data l'architettura cerebrale alla base del ri-apprendimento emozionale, quel che sembra restare, anche dopo una psicoterapia coronata dal successo, è una reazione vestigiale, un residuo della sensibilità o della paura originale alla base di una problematica reattività emotiva (21). La corteccia prefrontale può perfezionare gli impulsi provenienti dall'amigdala oppure frenarli, ma non può impedirle di reagire. Perciò, sebbene non possiamo decidere quando avere un'esplosione emozionale, possiamo controllare meglio la sua durata. Un tempo di ripresa più breve, dopo tali esplosioni, può essere un segno di maturità emotiva.
Nel corso della terapia, nel complesso, ciò che sembra cambiare sono le risposte dell'individuo una volta che è stata scatenata una reazione emotiva - tuttavia, la tendenza ad avere una reazione immediata non scompare completamente. Le prove di ciò provengono da una serie di studi di psicoterapia condotti da Lester Luboorsky e colleghi presso l'Università della Pennsylvania. Essi analizzarono i principali conflitti di relazione che portavano decine di pazienti a ricorrere alla psicoterapia - problemi come il desiderio profondo di essere accettati o di trovare intimità, o la paura di fallire, o di essere eccessivamente dipendenti. Essi quindi analizzarono attentamente le tipiche risposte (sempre autofrustranti) che i pazienti presentavano quando tali desideri e paure venivano attivati nelle loro relazioni - ad esempio, l'essere troppo esigenti, che crea una sfavorevole reazione di irritazione o freddezza nell'altra persona; oppure l'arroccarsi sulla difensiva anticipando una mancanza di premura da parte dell'altro, a sua volta offeso dall'apparente rifiuto. Durante queste sfortunate interazioni, i pazienti, comprensibilmente, si sentivano in preda a sentimenti negativi - mancanza di speranza e tristezza, risentimento e collera, tensione e paura, senso di colpa e autoaccusa, e così via. Quale che fosse il particolare modello di ciascun paziente, esso sembrava ripresentarsi nella maggior parte delle sue relazioni importanti: con il coniuge o con l'amante, con un figlio o un genitore, o ancora con i colleghi e i superiori nell'ambiente di lavoro.
Nel corso di una terapia a lungo termine, tuttavia, questi pazienti andavano incontro a due tipi di cambiamenti: la loro reazione emotiva agli eventi scatenanti diveniva meno dolorosa, facendosi addirittura calma o confusa, e le loro risposte esplicite diventavano sempre più efficaci nel far loro ottenere ciò che realmente desideravano dalla relazione. Quello che non cambiava, tuttavia, era il loro desiderio o la loro paura di base, e il dolore iniziale. Quando ai pazienti rimanevano ormai poche sedute di terapia, le interazioni delle quali parlavano, dimostravano che essi avevano ormai solo la metà delle reazioni negative che esibivano quando avevano appena cominciato la cura, e avevano una probabilità doppia di ottenere dall'altro la risposta positiva che desideravano profondamente. Ma quello che non cambiava affatto era la particolare sensibilità alla base di tali esigenze.
In termini cerebrali, possiamo ipotizzare che il sistema limbico continui a inviare segnali di allarme in risposta alle avvisaglie di un evento temuto, mentre la corteccia prefrontale e le zone ad essa collegate hanno appreso una risposta nuova, più sana. In breve, le reazioni emotive apprese - anche quelle più radicate perché acquisite durante l'infanzia - possono essere riplasmate. Questo tipo di apprendimento dura tutta la vita.