PARTE QUINTA. 

ALFABETIZZAZIONE EMOZIONALE. 




15. 

IL COSTO DELL'ANALFABETISMO EMOZIONALE. 




Iniziò come una discussione da poco, ma si trasformò in un contrasto sempre più grave. Ian Moore, studente all'ultimo anno della scuola superiore Thomas Jefferson di Brooklyn, e Tyrone Sinkler, più giovane, avevano litigato con un amico, il quindicenne Khalil Sumpter. Poi avevano cominciato a tormentarlo e a minacciarlo. Alla fine la situazione esplose. 

Khalil, temendo che Ian e Tyrone volessero picchiarlo, un mattino si recò a scuola portando con sé una pistola calibro 38 e, a cinque metri di distanza da una guardia di sicurezza della scuola, sparò a entrambi a bruciapelo, uccidendoli nell'atrio della scuola. 

Il fatto di sangue, così agghiacciante, può essere letto come un altro segnale del bisogno disperato di lezioni su come gestire le emozioni, comporre i contrasti in maniera pacifica e imparare ad andare d'accordo. Gli insegnanti, da sempre preoccupati che gli studenti non restino indietro nello studio delle materie scolastiche tradizionali, incominciano a capire che esiste un diverso tipo di lacuna, assai più pericolosa: l'analfabetismo emozionale (1). E mentre si compiono sforzi lodevoli per alzare il livello della preparazione nelle materie scolastiche, questa nuova e inquietante lacuna non viene affrontata nei programmi scolastici regolari. Come afferma un insegnante di Brooklyn, attualmente nelle scuole “ci preoccupiamo di insegnare agli alunni a leggere e a scrivere bene molto di più che di sapere se saranno o non saranno vivi la prossima settimana”. 

I segnali di questa manchevolezza possono essere scorti in episodi di violenza, come l'uccisione di Ian e Tyrone, che diventano sempre più frequenti nelle scuole americane. Ma non si tratta di fatti isolati. L'aumento della turbolenza fra gli adolescenti e delle difficoltà nei bambini può essere riscontrato negli Stati Uniti - indicatore primario delle tendenze mondiali - grazie alle seguenti statistiche (2). 

Nel 1990, prendendo come campione i vent'anni precedenti, gli Stati Uniti hanno conosciuto la percentuale più alta di arresti di minorenni per reati di violenza; gli arresti di adolescenti per stupro sono raddoppiati; gli omicidi compiuti da minorenni sono quadruplicati, per lo più a seguito di sparatorie (3). Durante i vent'anni di cui si è detto, il tasso di suicidi fra gli adolescenti è triplicato, come pure il numero di ragazzi sotto i quattordici anni vittime di un omicidio (4). 

Un numero più elevato di adolescenti, a un'età sempre più bassa, sono rimaste incinte. Nei cinque anni precedenti al 1993 il tasso delle nascite da madri adolescenti di età compresa fra i dieci e i quattordici anni è cresciuto costantemente - ci si riferisce a questo fenomeno parlando di “madri-bambine” -, come pure sono aumentate la percentuale di gravidanze indesiderate fra le adolescenti e la tendenza ad avere rapporti sessuali per la pressione psicologica esercitata dai coetanei. Negli ultimi trent'anni è triplicata la percentuale delle malattie veneree contratte dagli adolescenti (5). 

Queste cifre sono certo sconfortanti, ma se si concentra l'attenzione sui giovani afro- americani, soprattutto nei quartieri residenziali degradati dei centri urbani, le statistiche sono addirittura desolanti: tutte le percentuali risultano di gran lunga più alte, talvolta doppie, triple o ancora più elevate rispetto alla media. Per esempio, l'uso di eroina e cocaina fra i giovani bianchi è triplicato nei vent'anni precedenti al 1990; ma nei giovani afro-americani è balzato a una percentuale incredibile, “13 volte” più alta di quella dei vent'anni precedenti (6). 

Fra gli adolescenti la causa più comune di infermità è la malattia mentale. Sintomi più o meno gravi di depressione colpiscono fino a un terzo degli adolescenti; per le ragazze l'incidenza della depressione raddoppia durante la pubertà. La frequenza dei disturbi del comportamento alimentare nelle adolescenti si è innalzata vertiginosamente (7). 

Infine, a meno che le cose cambino, le prospettive a lungo termine di sposarsi e di avere una vita matrimoniale serena e stabile si fanno per i ragazzi di oggi sempre più cupe ad ogni generazione. Come abbiamo visto nel capitolo 9, se durante gli anni Settanta e Ottanta la percentuale dei divorzi si aggirava intorno al 50 per cento, con l'ingresso negli anni Novanta la percentuale dei divorzi tra le nuove coppie di sposi induce a prevedere che su tre nuovi matrimoni, due finiranno con un divorzio. 




Un malessere emozionale. 


Queste allarmanti statistiche sono un po' come il canarino che i minatori mettono nelle miniere di carbone perché con la sua morte li avverta della mancanza di ossigeno. Al di là dei numeri, che fanno riflettere, la situazione difficile dei giovani di oggi si manifesta in maniera meno vistosa nei problemi quotidiani che non sono ancora esplosi in crisi aperte. Forse i dati maggiormente rivelatori - un segnale diretto della minore competenza emozionale - provengono da un campione nazionale di ragazzi americani, di età fra i sette e i sedici anni, utilizzato per paragonare la loro condizione emozionale a metà degli anni Settanta con quella alla fine degli anni Ottanta (8). In base alle valutazioni dei genitori e degli insegnanti, si è accertato un costante peggioramento. Nessun problema si è segnalato in maniera particolare, ma tutti gli indici sono peggiorati. In media i ragazzi hanno incontrato maggiori difficoltà in questi ambiti: 


- “Chiusura in se stessi o problemi sociali”: preferenza a restare soli; non comunicare; rimuginare in silenzio; essere privi di energia; sentirsi infelici; dipendere eccessivamente dagli altri. 

- “Ansia e depressione”: essere soli; nutrire molte paure e preoccupazioni; avere il bisogno di essere perfetti; non sentirsi amati; sentirsi nervosi o tristi e depressi. 

- “Difficoltà nell'attenzione e nella riflessione”: incapaci di fare attenzione o di restare seduti tranquilli; fantasticare a occhi aperti; agire senza riflettere; essere troppo nervosi per concentrarsi; avere risultati scolastici scadenti; incapacità di distogliere la mente da un pensiero fisso. 

- “Delinquenza o aggressività”: frequentare ragazzi che si cacciano nei guai; mentire e imbrogliare; litigare spesso; trattare gli altri con cattiveria; pretendere attenzione; distruggere gli oggetti altrui; disobbedire a casa e a scuola; essere testardi e di umore mutevole; parlare troppo; prendere in giro gli altri in maniera eccessiva; avere un temperamento collerico. 


Anche se nessuno di questi problemi, considerato isolatamente, suscita preoccupazione, preso insieme a tutti gli altri diventa il segnale di un cambiamento dell'atmosfera, di un nuovo tipo di tossicità che si infiltra e avvelena l'esperienza stessa dell'infanzia e dell'adolescenza, rivelando impressionanti lacune di competenza emozionale. Questo malessere sembra un prezzo che la vita moderna impone a tutti i ragazzi del mondo. Benché gli americani lamentino spesso situazioni particolarmente difficili se paragonate a quelle di altri paesi, studi condotti in tutto il mondo hanno riscontrato stime uguali o peggiori di quelle degli Usa. Per esempio, negli anni Ottanta, gli insegnanti e i genitori in Olanda, in Cina e in Germania hanno indicato per i propri ragazzi lo stesso grado di problemi che era stato riscontrato nei giovani americani nel 1976. In alcuni paesi, compresi l'Australia, la Francia e la Thailandia, i giovani si trovano in condizioni peggiori di quelle attuali negli Usa. Ma questo divario potrebbe non durare a lungo. Le forze più consistenti che spingono verso il basso la spirale della competenza emozionale sembrano acquistare più velocità negli Stati Uniti rispetto a molti altri paesi sviluppati (9). 

Nessun ragazzo, ricco o povero, è esente dal rischio; siamo dinanzi a problemi universali che affliggono ogni gruppo etnico e razziale e ogni fascia di reddito. Pertanto, anche se i ragazzi poveri hanno gli indici più bassi per quanto riguarda le capacità emozionali, il loro tasso di deterioramento negli anni non è peggiore di quello dei figli del ceto medio o delle classi ricche; tutti mostrano la stessa costante caduta. In ogni strato sociale è anche triplicato il numero dei ragazzi che hanno ricevuto aiuto psicologico (forse un buon segno, poiché indica la maggior disponibilità di sostegno psicologico), come pure si è avuto quasi il raddoppiamento del numero di ragazzi con problemi emozionali tali da richiedere tale aiuto, ma che non ne hanno potuto usufruire (un brutto segno): da circa il 9 per cento nel 1976 al 18 per cento nel 1989. 

Urie Bronfenbrenner, l'illustre studioso di psicologia evolutiva della Cornell University che ha istituito una ricerca comparata internazionale sul benessere dei ragazzi, afferma: “In assenza di buoni sistemi di supporto, le tensioni esterne sono diventate così grandi che persino famiglie solide si frantumano. La frenesia, l'instabilità e l'incongruenza della vita familiare quotidiana aumentano in ogni segmento sociale, compresa la fascia delle persone colte e benestanti. E' a rischio nientemeno che la prossima generazione, in particolare i maschi, i quali nella crescita sono particolarmente vulnerabili a forze negative come quelle provocate dagli effetti devastanti del divorzio, della povertà e della disoccupazione. La situazione dei ragazzi e delle famiglie americane è disperata come mai prima d'ora [...] Stiamo privando milioni di ragazzi della competenza e del carattere morale” (10). 

Non è un fenomeno soltanto americano, ma globale, perché a livello mondiale la concorrenza economica tende a ridurre il costo del lavoro e ciò produce contraccolpi negativi sulle famiglie. Viviamo in tempi di famiglie finanziariamente in difficoltà, nelle quali entrambi i genitori lavorano per molte ore al giorno, cosicché i figli sono abbandonati a se stessi o sotto l'influsso costante della televisione; è un'epoca nella quale un numero maggiore di ragazzi cresce nella povertà, in cui la famiglia con un solo genitore sta diventando sempre più comune, in cui un numero sempre più alto di bambini viene lasciato in asili così mal gestiti che i bimbi si trovano a essere quasi completamente trascurati. Tutto questo comporta, anche per genitori ben intenzionati, la perdita di quei continui, impercettibili, rapporti con i figli nei quali si costruisce e si alimenta la competenza emozionale. 

Se le famiglie non sono più in grado di fornire ai ragazzi una base solida per vivere, che cosa dobbiamo fare? Una valutazione più attenta della dinamica dei problemi specifici ci mostra come certe lacune nelle competenze sociali o emozionali producano gravi difficoltà e come misure correttive e preventive ben dirette possano mantenere sulla retta via un più alto numero di ragazzi. 




Tenere a freno l'aggressività. 


Nella mia scuola elementare il duro era Jimmy, un ragazzo che quando io ero in prima frequentava la quarta. Era il classico bambino che ti rubava i soldi per comprare la merenda, che ti prendeva la bicicletta, che ti metteva le mani addosso appena ti rivolgeva la parola. Jimmy era il tipico prepotente, che attaccava briga alla minima provocazione o affatto gratuitamente. Tutti ne avevamo paura e lo tenevamo a distanza. Tutti odiavano e temevano Jimmy; nessuno voleva giocare con lui. Era come se, dovunque lui andasse nel cortile della scuola, una guardia del corpo invisibile facesse allontanare gli altri bambini dalla sua strada. 

Ragazzi come Jimmy sono chiaramente in difficoltà. Ma risulta meno ovvio che un'aggressività così manifesta in età infantile è il segno premonitore di difficoltà emozionali e di altro tipo che sorgeranno in avvenire. All'età di sedici anni Jimmy era già finito in carcere per aggressione. Molti studi hanno dimostrato che in ragazzi come lui l'aggressività infantile ha effetti duraturi per il resto della vita (11). Come abbiamo visto, le famiglie di bambini così aggressivi in genere sono composte da genitori che alternano la trascuratezza alle punizioni dure e imprevedibili: una condotta che, comprensibilmente, rende i piccoli inclini alla paranoia e pronti a dare battaglia. 

Non tutti i ragazzi irascibili sono prepotenti; alcuni sono tipi isolati ed emarginati che reagiscono eccessivamente allo scherno o a ciò che essi percepiscono come un'offesa o un'ingiustizia. Ma il difetto percettivo comune a tutti questi ragazzi è che essi considerano offensivi gesti e atteggiamenti del tutto innocenti e immaginano che i coetanei siano nei loro confronti più ostili di quel che effettivamente sono. Ciò li porta a fraintendere come gesti minacciosi atti del tutto insignificanti - un contatto occasionale è visto come una vendetta - e ad attaccare per reazione. Ovviamente questo comportamento induce gli altri a evitarli, isolandoli ulteriormente. Questi ragazzi irascibili e isolati sono sensibilissimi a ingiustizie e a comportamenti scorretti nei propri confronti. In genere si considerano delle vittime e possono recitare un elenco di casi in cui, ad esempio, gli insegnanti li hanno incolpati di qualcosa, mentre in realtà erano innocenti. Un altro tratto comportamentale di questi ragazzi è che quando sono in preda all'ira conoscono un solo modo di reagire: l'attacco fisico. 

Questi pregiudizi percettivi possono essere osservati in un esperimento nel quale ragazzi prepotenti e ragazzi più pacifici guardano insieme alcuni filmati. In uno, un ragazzo urta un coetaneo e a quest'ultimo cadono per terra i libri: altri ragazzi che assistono alla scena si mettono a sghignazzare. Quello a cui sono caduti i libri si arrabbia e cerca di colpire uno dei presenti sorpreso a ridere. Quando i ragazzi che hanno assistito al filmato ne parlano a proiezione conclusa, i prepotenti sono sempre pronti a giustificare il ragazzo che ha menato le mani. Ancor più rivelatore è il fatto che, quando, durante la discussione del filmato, i ragazzi devono valutare l'aggressività mostrata dai protagonisti del film, i prepotenti giudicano più combattivo il ragazzo che ha urtato il suo coetaneo e giustificano la rabbia di quest'ultimo e il suo scagliarsi contro coloro che assistevano sghignazzando (12). 

Questi giudizi affrettati attestano una deformazione percettiva assai profonda in coloro che hanno un'aggressività elevata: essi agiscono presupponendo l'ostilità e la minaccia altrui e prestano troppo poca attenzione a ciò che effettivamente accade. Appena presumono di essere minacciati, passano all'azione. Per esempio, se un ragazzo aggressivo gioca a dama con un altro che muove una pedina quando non è il suo turno, egli interpreterà il gesto come un tentativo di “barare”, senza soffermarsi a capire se è stato un errore innocente. Egli presuppone malevolenza piuttosto che innocenza; la sua reazione è automaticamente ostile. Alla percezione automatica di un atto ostile è legata una risposta aggressiva altrettanto automatica. Invece di far notare all'altro ragazzo che ha commesso un errore, passerà subito alle accuse, alle grida e alle botte. E più questi giovanissimi si comportano così, più l'aggressione diventa per loro automatica e si restringono le alternative possibili, quali la cortesia o lo scherzo. 

Ragazzi simili sono emotivamente vulnerabili nel senso che si alterano facilmente e si stizziscono più spesso degli altri e per ragioni più numerose; una volta in collera, la loro riflessione è offuscata e pertanto considerano ostili atti benevoli e ricadono nell'abitudine di reagire menando le mani (13). 

Questi pregiudizi percettivi in merito alla presunta ostilità altrui sono già visibili nelle prime classi delle elementari. Anche se la maggior parte dei bambini, soprattutto dei maschi, è indisciplinata ai tempi dell'asilo e in prima elementare, i bambini più aggressivi sono coloro che neppure in seconda classe sono riusciti ad apprendere un minimo di autocontrollo. Mentre gli altri hanno cominciato a imparare a comporre i dissidi durante il gioco con la trattativa e il compromesso, i prepotenti si affidano sempre di più alla forza e agli sfoghi rabbiosi. Per questa loro condotta pagano un prezzo sociale: durante il gioco e la ricreazione, a sole due o tre ore dal primo contatto con un bambino prepotente, gli altri affermano già di averlo in antipatia (14). 

Studi condotti in maniera da seguire i bambini dagli anni prescolari fino all'adolescenza rivelano che la metà di quelli che in prima elementare sono turbolenti, incapaci di andare d'accordo con gli altri, disobbedienti ai genitori e ribelli agli insegnanti, diventano delinquenti durante l'adolescenza (15). Ovviamente, non tutti i bambini aggressivi sono destinati in seguito a diventare violenti e criminali. Ma rispetto a tutti gli altri, essi sono quelli che corrono il rischio maggiore di commettere, una volta o l'altra, reati di violenza. 

La deriva verso il crimine si manifesta assai precocemente nella vita di questi ragazzi. In un asilo di Montreal una valutazione dell'ostilità e della turbolenza dei bambini ha mostrato che i soggetti più aggressivi all'età di cinque anni, dai cinque agli otto anni dopo, ossia nella loro prima adolescenza, erano di gran lunga i più inclini a comportamenti delinquenziali. Di tre volte più alta rispetto agli altri ragazzi era la probabilità che ammettessero di aver picchiato qualcuno senza motivo, di aver rubato nei negozi, di aver usato un'arma in uno scontro, di aver derubato pezzi di un'automobile o di averla forzata, di essersi ubriacati, e tutto ciò prima di aver compiuto quattordici anni (16). 

La via che tipicamente conduce alla violenza e alla criminalità inizia con bambini aggressivi e difficili da controllare in prima e seconda elementare (17). Solitamente, sin dai primi anni di scuola, la loro scarsa capacità di frenare gli impulsi incide sul basso rendimento scolastico e sul fatto che considerino se stessi “stupidi”: un giudizio che vedono confermato dall'essere confinati in classi differenziali (e benché bambini simili possano avere un tasso più elevato di “iperattività” o di difficoltà nell'apprendimento, ciò non vale affatto per tutti). I bambini che, all'atto di iniziare la scuola, hanno già appreso in famiglia uno stile “coercitivo” - cioè prepotente - sono anche considerati pessimi scolari dagli insegnanti, che devono impiegare troppo tempo nel disciplinarli. Il fatto che bambini simili siano naturalmente portati a trasgredire le regole della disciplina scolastica significa, agli occhi dell'insegnante, che sprecano tempo altrimenti utilizzabile nell'apprendimento; perciò il loro fallimento scolastico è solitamente già evidente sin dalla terza elementare. Anche se i ragazzi che imboccano una strada che li porterà alla delinquenza hanno in genere quozienti di intelligenza più bassi dei coetanei, un ruolo ancor più diretto è giocato dalla loro impulsività: a dieci anni l'impulsività è un fattore predittivo della successiva attitudine delinquenziale tre volte più importante del quoziente intellettivo (18). 

In quarta o in quinta, questi bambini - ormai considerati prepotenti o semplicemente “difficili” - vengono respinti dai coetanei, fanno amicizia difficilmente o non la fanno affatto, e il loro rendimento scolastico è fallimentare. Sentendosi privi di amici, gravitano attorno ad altri emarginati sociali. Tra la quarta e la nona classe, si legano al loro gruppo di emarginati e si dedicano a un'esistenza di trasgressione della legge: rispetto agli altri coetanei, compiono assenze ingiustificate da scuola e assumono alcol e droga in proporzione cinque volte maggiore, con la massima punta di tali comportamenti anomali tra la settima e l'ottava classe. Negli anni della scuola media, a questi soggetti si associa un altro genere di “ritardati”, attratti dal loro stile trasgressivo; costoro sono spesso ragazzi più giovani, che a casa vengono abbandonati a se stessi e hanno cominciato da soli a frequentare la strada durante le elementari. Negli anni delle scuole superiori questo gruppo di emarginati abbandona in genere la scuola indirizzandosi verso la delinquenza, dedicandosi a reati minori come il taccheggio, il furto e lo spaccio di droga. 

(Una differenza indicativa affiora tra i ragazzi e le ragazze in questo itinerario. Uno studio su bambine “cattive” di quarta - indisciplinate e non rispettose degli insegnanti, ma non emarginate dai coetanei - ha mostrato che alla fine delle scuole superiori il 40 per cento di loro aveva avuto un bambino [19]. Questo dato è tre volte più alto della media delle ragazze rimaste incinte che frequentavano la loro stessa scuola. In altri termini le adolescenti antisociali non diventano violente, ma hanno gravidanze premature.) 

Ovviamente non c'è una strada unica che porta alla violenza e alla criminalità e sono molti i fattori che possono mettere a repentaglio un ragazzo: essere nato in un quartiere ad alto tasso di criminalità, dove i giovanissimi sono più esposti alla tentazione di compiere reati e atti di violenza, provenire da una famiglia sottoposta ad alti livelli di stress o vivere in povertà. Ma nessuno di tali fattori rende inevitabile una vita di criminalità e di violenza. A parità di essi, le forze psicologiche all'opera nei bambini aggressivi intensificano grandemente la probabilità che finiscano col diventare criminali violenti. Gerald Patterson, uno psicologo che ha seguito da vicino l'itinerario di centinaia di ragazzi fino al loro ingresso nella vita adulta, afferma: “Le azioni antisociali di un bambino di cinque anni possono essere il prototipo delle azioni di un adolescente delinquente” (20). 




Una scuola per i prepotenti. 


La “forma mentis” che i ragazzi aggressivi portano con sé durante la vita è tale da spingerli con certezza a finire nei guai. Uno studio su minorenni colpevoli di atti di violenza e su studenti liceali aggressivi ha mostrato in loro una mentalità comune: quando hanno problemi con qualcuno, immediatamente considerano l'altro come un antagonista e traggono affrettate conclusioni sulla sua ostilità nei loro confronti, senza cercare di informarsi meglio e senza provare a risolvere i problemi in maniera pacifica. Allo stesso tempo, non pensano alle possibili conseguenze negative di una soluzione violenta - in genere uno scontro fisico. Essi giustificano mentalmente la propria attitudine aggressiva con convinzioni quali “Picchiare qualcuno è giusto, se la rabbia ti fa diventare matto”; “Se ti sottrai a un combattimento tutti penseranno che sei un vigliacco”; “Chi viene picchiato duramente in realtà non soffre poi molto” (21).

Ma un aiuto tempestivo può mutare attitudini siffatte e può bloccare il percorso di un ragazzo verso la delinquenza; numerosi programmi sperimentali hanno avuto un certo successo nell'aiutare i ragazzi aggressivi a imparare a controllare la loro inclinazione antisociale prima che essa li conduca in guai seri. Uno di questi programmi, elaborato alla Duke University, si rivolgeva a bambini difficili e irascibili delle scuole elementari, proponendo periodi di addestramento di quaranta minuti l'uno due volte alla settimana, per una durata dalle sei alle dodici settimane. Ai bambini veniva insegnato, ad esempio, a considerare come alcuni segnali sociali da loro interpretati come ostili fossero in realtà neutrali o amichevoli. I ragazzi imparavano a mettersi nei panni degli altri loro coetanei, ad acquisire la percezione di come venivano considerati dagli altri bambini e di ciò che gli altri potevano aver pensato o sentito negli episodi e nei contatti che li avevano fatti inquietare così tanto. Ricevevano anche un addestramento diretto per il controllo della collera mediante la simulazione di episodi - ad esempio essere derisi - che nella realtà avrebbero potuto far loro perdere la pazienza. Una delle abilità principali per il controllo della collera consisteva nel sorvegliare i propri sentimenti, diventando consapevoli delle sensazioni corporee, come il rossore del viso e la tensione muscolare, che si verificano quando ci si arrabbia, nel considerare queste sensazioni come segnali di stop e nel riflettere sul da farsi invece di aggredire l'altro impulsivamente. 

John Lochman, uno psicologo della Duke University che era stato tra coloro che avevano progettato questo programma, mi disse: “I bambini discutono di situazioni nelle quali si sono trovati di recente, come venire urtati nell'atrio della scuola quando pensano che il gesto sia stato fatto apposta per provocarli. Discutono di come avrebbero potuto affrontare la situazione. Ad esempio, uno di loro ha detto di essersi limitato a fissare chi lo aveva urtato, di avergli detto di non farlo più e di essersi allontanato. Questa condotta lo aveva messo nella posizione di esercitare un certo controllo e di mantenere l'autostima senza iniziare uno scontro”. 

Queste proposte di autocontrollo vengono accolte con favore. Molti bambini aggressivi sono infatti scontenti di arrabbiarsi così facilmente e perciò sono propensi a imparare l'autocontrollo. Ovviamente, quando cadono in preda alla collera, reazioni così fredde come allontanarsi o contare fino a dieci per far scemare l'impulso a reagire battendosi, non vengono automatiche; i ragazzi imparano a praticare queste alternative recitando scenette come quella di salire su un autobus dove altri ragazzi cominciano a prenderli in giro. In questo modo possono cercare di escogitare reazioni amichevoli che consentano loro di mantenere la propria dignità senza essere costretti a fare a botte, a piangere o a fuggire pieni di vergogna. 

Tre anni dopo aver iniziato l'addestramento, Lochman ha paragonato questi ragazzi ad altri che erano stati altrettanto aggressivi, ma non avevano usufruito delle lezioni per il controllo dell'irascibilità. Scoprì che, nell'adolescenza, i ragazzi che avevano seguito il programma di autocontrollo erano molto meno turbolenti in classe, nutrivano sentimenti più positivi verso se stessi, e avevano minori probabilità di bere e di drogarsi. Più a lungo avevano seguito il programma, meno aggressivi erano diventati da adolescenti. 




Prevenire la depressione. 


“Dana, sedicenne, era sempre andata d'accordo con gli altri. Ma ora, all'improvviso, non riusciva più ad avere buoni rapporti con le sue amiche e, cosa che la turbava ancor di più, non riusciva a restare legata a un ragazzo, anche se ci andava a letto. Di umor nero e con una sensazione costante di stanchezza, Dana perse interesse al mangiare e a qualunque forma di divertimento; disse che si sentiva disperata e incapace di fare qualcosa per uscire da quello stato d'animo e che stava pensando al suicidio. 

Il precipitare nella depressione era stato provocato dall'ultima rottura con un ragazzo. Dana riferì che non sapeva come uscire con un ragazzo senza avere subito rapporti sessuali - anche se questo la faceva sentire a disagio - e che non sapeva porre termine a una relazione anche se era insoddisfacente. Andava a letto con i ragazzi, quando tutto ciò che voleva veramente era di conoscerli meglio. 

Si era appena trasferita in una nuova scuola e si sentiva timida e apprensiva nel fare amicizia con le ragazze nel nuovo ambiente. Per esempio, si asteneva dall'iniziare una conversazione e si limitava solo a rispondere quando qualcun'altra le rivolgeva la parola. Si sentiva incapace di comunicare agli altri ciò che provava e le sembrava persino di non saper dire nulla dopo un banale: “Ciao, come stai?”” (22). 


Dana seguì a scopo terapeutico un programma sperimentale per adolescenti depressi alla Columbia University. Il trattamento mirava ad aiutarla a migliorare la propria vita di relazione: come sviluppare un'amicizia, come sentirsi più sicura di sé con i coetanei, come imporre limiti all'intimità sessuale, come costruire un rapporto intimo, come esprimere i propri sentimenti. In sostanza si trattava di un addestramento volto a recuperare alcune delle più basilari abilità emozionali. Funzionò: la sua depressione scomparve. 

Le difficoltà della vita di relazione, in particolare nei giovani, sono un fattore che scatena la depressione. Spesso le difficoltà nascono nel rapporto dei ragazzi con i genitori, come pure in quello con i coetanei. Spesso i bambini e gli adolescenti depressi non sono capaci - o non sono disposti - a parlare della loro tristezza. Non sembrano in grado di definire con accuratezza i propri sentimenti e manifestano invece sorda irritazione, impazienza, nervosismo e rabbia, soprattutto verso i genitori. Di conseguenza un tale comportamento rende più difficile per i genitori offrire loro quel sostegno emotivo e quella guida di cui ha necessità il ragazzo depresso. Si innesca perciò una spirale discendente che in genere porta a discussioni continue e a una sempre maggiore estraniazione. 

Un nuovo esame delle cause della depressione nei giovani evidenzia lacune in due aree di competenza emozionale: da un lato, le abilità relazionali, e dall'altro un modo di interpretare gli insuccessi che favorisce la depressione. Anche se la predisposizione alla depressione è quasi certamente in parte di natura genetica, per altri versi essa sembra derivare da modi di pensare pessimistici che, pur essendo correggibili, inducono i bambini a reagire alle piccole sconfitte della vita - un brutto voto, le discussioni con i genitori, un rifiuto sociale - deprimendosi. Sembra inoltre che la predisposizione alla depressione, quali che ne siano le basi, si stia diffondendo sempre più largamente tra i giovani. 




Un costo della modernità: la crescita della depressione. 


Questi anni di fine millennio ci introducono a un'Epoca di Malinconia, così come il Ventesimo secolo è stato un'Epoca di Ansia. I dati internazionali mostrano quella che appare una moderna epidemia di depressione, che si diffonde ovunque a causa dell'adozione, in tutto il mondo, degli stili di vita moderni. Su scala mondiale, tutte le generazioni susseguitesi dall'inizio del secolo hanno conosciuto un rischio maggiore rispetto a quello dei genitori di soffrire, nel corso della vita, di una depressione seria, che non è semplicemente una condizione di tristezza, ma è apatia, abbattimento, autocommiserazione paralizzante e senso di disperazione schiacciante (23). E gli episodi depressivi si presentano in età sempre più giovane. La depressione infantile, un tempo quasi sconosciuta (o, almeno, non riconosciuta) si affaccia come un tratto costante dello scenario attuale. 

Anche se la probabilità della depressione aumenta con l'età, gli incrementi maggiori riguardano i giovani. Per i nati dopo il 1955, la probabilità di soffrire di una grave depressione a un certo momento della vita è, in molti paesi, tre volte o più alta di quella dei loro nonni. Fra gli americani nati prima del 1905, la percentuale di coloro che nell'arco della vita hanno sofferto di una grave depressione era solo dell'1 per cento; per i nati dopo il 1955, all'età di ventiquattro anni circa, il 6 per cento era depresso. Per i nati fra il 1945 e il 1954, le possibilità di aver avuto una depressione grave prima del trentaquattresimo anno di età sono dieci volte maggiori che per i nati fra il 1905 e il 1914 (24). E per ogni generazione l'insorgenza di un primo episodio depressivo si è verificata in età sempre più bassa. 

Uno studio mondiale condotto su più di 39 mila persone ha rilevato la stessa tendenza in paesi tra loro diversissimi come Porto Rico, il Canada, l'Italia, la Germania, la Francia, Taiwan, il Libano e la Nuova Zelanda. A Beirut la crescita della depressione ha seguito da vicino gli eventi politici: le tendenze al rialzo hanno conosciuto una brusca impennata durante la guerra civile. In Germania, la percentuale di depressione all'età di 35 anni per i nati prima del 1914 è del 4 per cento, mentre per i nati nel decennio antecedente al 1944 è del 14 per cento. A livello mondiale, le generazioni che hanno raggiunto la maggiore età in tempi di turbamenti politici, hanno avuto tassi più elevati di depressione, anche se la tendenza complessiva al rialzo è indipendente da ogni avvenimento politico. 

Anche l'abbassamento dell'età in cui si hanno le prime esperienze depressive sembra una tendenza mondiale. Quando ho chiesto agli esperti di formulare un'ipotesi sulle cause, ho raccolto numerose teorie. 

Il dottor Frederick Goodwin, allora direttore del National Institute of Mental Health, ha ipotizzato: “C'è stata una tremenda erosione dei nuclei familiari, un raddoppiamento della percentuale dei divorzi, un calo del tempo che i genitori dedicano ai figli e un aumento della mobilità. Non si cresce più all'interno di una famiglia allargata. La perdita di queste fonti stabili di autoidentificazione comporta una maggiore suscettibilità alla depressione”. 

Il dottor David Kupfer, titolare del corso di psichiatria alla facoltà di medicina dell'Università di Pittsburgh, ha sottolineato un'altra tendenza: “Con la diffusione dell'industrializzazione dopo la seconda guerra mondiale, in un certo senso nessuno si è più trovato a casa sua. In un numero sempre più alto di famiglie c'è stato un aumento dell'indifferenza dei genitori verso i bisogni dei figli durante la loro crescita. Questa non è una causa diretta della depressione, ma provoca una condizione di vulnerabilità. Fattori precoci di stress emotivo possono incidere sullo sviluppo nervoso e ciò può portare a una depressione anche molti decenni dopo, quando ci si trovi in una situazione di grande stress”. 

Martin Seligman, psicologo dell'Università della Pennsylvania, ha proposto questa teoria: “Negli ultimi trenta o quarant'anni abbiamo assistito alla crescita dell'individualismo e a un declino delle più diffuse credenze religiose e dei sostegni offerti dalla comunità e dalla famiglia allargata. Questo significa una perdita delle risorse che possono proteggere dalle sconfitte e dai fallimenti. Nella misura in cui si considera un fallimento qualcosa di durevole, e lo si ingigantisce come se rovinasse tutta la propria vita, si è inclini a fare di una sconfitta temporanea una fonte duratura di disperazione. Ma se si possiede una prospettiva più ampia, ad esempio se si crede in Dio e nell'al di là, la perdita del lavoro verrà considerata solo una sconfitta temporanea”. 

Quale che ne sia la causa, la depressione nei giovani è un problema pressante. Negli Stati Uniti, le stime del numero di bambini e adolescenti depressi in un determinato anno sono molto varie, al contrario di quelle che concernono la loro vulnerabilità nell'arco dell'intera vita. Tali studi epidemiologici, che ricorrono a criteri rigorosi - i sintomi considerati nella diagnostica ufficiale della depressione -, hanno scoperto che per ragazzi e ragazze fra i dieci e i tredici anni la percentuale di incidenza di depressione grave nel corso di un anno si aggira sull'8-9 per cento, anche se altri studi la dimezzano (e in alcuni studi essa scende al 2 per cento). Alcuni dati suggeriscono che nella pubertà la percentuale raddoppia per i soggetti di sesso femminile; fino al 16 per cento delle ragazze fra i quattordici e i sedici anni soffrono di una crisi depressiva, mentre il valore resta immutato per i ragazzi (25). 




Il decorso della depressione nei giovani. 


Il fatto che nei giovanissimi la depressione non dovrebbe soltanto essere curata, ma prevenuta, risulta evidente da una scoperta allarmante: episodi depressivi anche lievi nel bambino possono essere il segno premonitore di crisi più gravi nella vita adulta (26). Questo smentisce la vecchia tesi secondo la quale la depressione infantile non avrebbe conseguenze importanti a lungo termine, visto che i bambini la supererebbero con lo sviluppo. Ovviamente di tanto in tanto ogni ragazzo diventa triste; l'infanzia e l'adolescenza sono, come l'età adulta, periodi di delusioni occasionali e di perdite grandi o piccole con le conseguenti sofferenze. La necessità di una prevenzione non riguarda questi casi, ma i bambini che vengono precipitati dalla tristezza in una spirale di incupimento che li lascia disperati, irritabili e chiusi in se stessi, in preda a una malinconia molto grave. 

Fra i giovanissimi la cui depressione era abbastanza grave da rendere consigliabile un trattamento terapeutico, tre quarti hanno conosciuto un episodio successivo di depressione grave, secondo i dati raccolti da Maria Kovacs, una psicologa del Western Psychiatric Institute and Clinic di Pittsburgh (27). La Kovacs ha studiato i bambini ai quali era stata diagnosticata una depressione all'età di otto anni, valutandoli costantemente a distanza di pochi anni finché alcuni raggiunsero i ventiquattro. 

I bambini affetti da depressione grave soffrirono in media di episodi della durata di circa undici mesi, anche se in un caso ogni sei la depressione si protrasse per diciotto mesi. La depressione lieve, iniziata in alcuni bambini già all'età di cinque anni, produceva menomazioni minori ma durava assai più a lungo, in media circa quattro anni. Kovacs ha scoperto che i bambini che hanno sofferto di una depressione lieve hanno maggiori probabilità che essa si intensifichi trasformandosi in una depressione grave: la cosiddetta doppia depressione. Coloro che sviluppano una doppia depressione sono molto più inclini a soffrire di ricorrenti episodi depressivi col passare degli anni. Quando i bambini che hanno avuto un episodio depressivo diventano adolescenti e adulti, soffrono di depressione o di disturbi maniaco-depressivi, in media, un anno ogni tre. 

Il prezzo pagato dai giovanissimi va oltre la sofferenza causata dalla depressione in se stessa; la Kovacs mi ha detto: “I ragazzi imparano le abilità sociali (per esempio, che cosa fare se vuoi qualcosa e non riesci ad averla) nei rapporti con i coetanei: osservando come gli altri affrontano una situazione simile e cercando di emularli. Ma i ragazzi depressi hanno forti probabilità di essere tra gli alunni più trascurati della scuola, quelli con i quali i compagni non giocano molto” (28). 

L'umor nero o la tristezza provata da questi bambini li induce a evitare di inaugurare contatti sociali e a distogliere lo sguardo quando un altro bambino cerca di stabilire un contatto con loro: un segnale sociale che l'altro interpreta come un rifiuto. Il risultato conclusivo è che i bambini depressi finiscono per essere quelli rifiutati o trascurati nel gioco e nella ricreazione. Questa lacuna nella loro esperienza interpersonale significa che a loro viene a mancare ciò che normalmente apprenderebbero nelle baruffe di gioco: una carenza che può renderli ritardati dal punto di vista sociale ed emozionale, creando un lungo distacco che dovrà essere recuperato una volta superata la depressione (29). Infatti, quando i ragazzi depressi sono stati confrontati a quelli che non hanno sofferto di depressione, si sono rivelati socialmente più disadattati, con meno amici, meno preferiti come compagni di gioco, meno simpatici e più a disagio nei rapporti con i coetanei. 

Un altro prezzo pagato da questi giovanissimi è lo scarso rendimento scolastico; la depressione interferisce con la memoria e la concentrazione e rende più difficile prestare attenzione in classe e tenere a mente ciò che si è appreso. Per un ragazzo che non prova piacere in niente sarà faticoso radunare le energie necessarie a capire a fondo lezioni impegnative, anche perché difficilmente sarà dotato della capacità di apprendere con facilità. Comprensibilmente, più a lungo rimanevano depressi i ragazzi studiati dalla Kovacs, meno buoni erano i loro voti e più scadenti i loro risultati nelle verifiche scolastiche. In effetti si manifestò una correlazione positiva tra la durata della depressione di un bambino e i voti scolastici, con un costante calo di rendimento nel corso dell'episodio depressivo. Ovviamente, le difficoltà scolastiche peggiorano la depressione. Osserva la Kovacs: “Immagina di sentirti già depresso e poi di lasciare la scuola in seguito ai risultati sempre più scadenti finendo per restare seduto a casa da solo invece di giocare con gli altri ragazzi”. 




Modi di pensare che ingenerano la depressione. 


Proprio come accade negli adulti, un modo pessimistico di interpretare le sconfitte della vita sembra alimentare il senso di incapacità e di disperazione al centro della depressione infantile. E' noto da tempo che le persone già depresse hanno questo modo di pensare. Ciò che è emerso solo recentemente è che invece i ragazzi più inclini alla malinconia mostrano una tendenza verso questa visione pessimistica ancor prima di diventare depressi. Questa osservazione suggerisce la possibilità di “vaccinarli” contro la depressione prima che la malattia esploda. 

Una prova del nesso esistente tra depressione e visione pessimistica della vita proviene dagli studi sulle opinioni che i giovanissimi hanno della propria capacità di controllare ciò che accade nella propria vita, ad esempio riuscire a modificare per il meglio la propria situazione. Questa capacità si esprime in valutazioni di se stessi del tipo: “Quando ho problemi a casa sono più bravo della maggior parte dei ragazzi nel contribuire a risolverli” e “Quando studio molto, ottengo buoni voti”. I ragazzi che affermano che nessuna di queste descrizioni positive corrisponde alla loro condizione non credono di poter fare qualcosa per migliorare le cose; questo senso di impotenza è maggiore nei giovani più depressi (30). 

Uno studio rivelatore ha esaminato alunni della quinta e sesta classe delle elementari nei pochi giorni successivi alla consegna delle pagelle. Come tutti ricordiamo, le pagelle sono una delle maggiori fonti di esultanza e di disperazione durante l'infanzia. I ricercatori hanno constatato una correlazione assai marcata tra la depressione e il modo in cui i bambini valutano se stessi quando ricevono un voto peggiore di quello atteso. Quelli che attribuiscono il brutto voto a un difetto personale (“Sono stupido”) si sentono più depressi di quelli che lo mettono in relazione a qualcosa che essi potrebbero modificare (“Se studio di più matematica, prenderò un voto più alto”) (31). 

I ricercatori hanno identificato un gruppo di alunni di terza, quarta e quinta classe rifiutati dai compagni di classe e hanno seguito le vicende di quelli che hanno continuato a restare emarginati l'anno seguente. Il modo in cui i bambini spiegavano il rifiuto subìto sembrava di importanza cruciale ai fini della loro depressione. Quelli che consideravano il rifiuto come conseguenza di qualche loro difetto si deprimevano maggiormente. Ma gli ottimisti, che sentivano di poter fare qualcosa per cambiare in meglio le cose, non erano particolarmente depressi nonostante il persistente rifiuto (32). In uno studio sui giovanissimi impegnati nel passaggio notoriamente difficile alla settima classe, quelli con un'attitudine pessimistica rispondevano alle accresciute difficoltà scolastiche e a ogni tensione familiare aggiuntiva diventando depressi (33). 

La prova più diretta del fatto che una visione pessimistica rende i giovanissimi altamente suscettibili alla depressione proviene da uno studio durato cinque anni su bambini osservati a partire dalla terza classe (34). Fra i più piccoli, il fattore predittivo più forte della futura depressione era una visione pessimistica della vita abbinata a un grave trauma (come il divorzio dei genitori o la morte di un familiare) che aveva lasciato il bambino sconvolto e disorientato e, presumibilmente, i genitori meno capaci di sostenerlo nella crescita. Progredendo nella scuola elementare, il modo di pensare dei bambini sui fatti positivi o negativi della loro vita, andò mutando, mostrando una sempre maggior disponibilità ad attribuirli ai tratti della propria personalità: “Prendo buoni voti perché sono intelligente”; “Non ho molti amici perché non sono divertente”. Questo mutamento pare svilupparsi gradualmente dalla terza alla quinta classe. Mentre ciò avviene, i bambini che maturano una visione pessimistica - attribuendo i propri insuccessi a qualche difetto irrimediabile di se stessi - cominciano a cadere in preda a stati d'animo depressi in risposta agli insuccessi. Cosa ancor peggiore, la stessa esperienza della depressione sembra rafforzare questi modi di pensare pessimistici, cosicché, anche dopo la scomparsa della depressione, il ragazzo rimane segnato da quella che potremmo definire una cicatrice emozionale, ossia da un insieme di convinzioni alimentate dalla depressione e solidificatesi nella mente - non sono in grado di andare bene a scuola, non sono simpatico, non posso far nulla per sfuggire ai miei cupi pensieri. Queste fissazioni possono rendere il bambino ancor più vulnerabile a un'altra crisi depressiva in futuro. 




Mandare la depressione in corto circuito. 


Una buona notizia: sembra proprio che insegnando ai ragazzi alcuni modi più produttivi di guardare alle proprie difficoltà abbassi il rischio di depressione (nota*). In uno studio su una scuola superiore dell'Oregon, circa uno studente su quattro era affetto da ciò che gli psicologi definiscono una “depressione di basso livello” - non abbastanza grave, cioè, da poter dire che superasse una normale infelicità (35). Alcuni di questi studenti potevano forse trovarsi nelle prime settimane o nei primi mesi di quella che sarebbe diventata una vera e propria depressione.

In una classe speciale del doposcuola 75 studenti affetti da questa blanda depressione impararono ad affrontare gli schemi di pensiero associati con la depressione, a migliorare la propria abilità nel fare amicizie, a migliorare i rapporti con i genitori e a intraprendere più attività sociali ritenute piacevoli. Al termine di questo programma, della durata di otto settimane, il 55 per cento degli studenti si era ristabilito; fra gli studenti che non avevano seguito il programma, invece, soltanto un quarto di soggetti aveva cominciato a uscire dalla depressione. Un anno dopo, un quarto degli studenti appartenenti a questo gruppo di controllo era caduto in preda a una depressione grave, mentre la stessa evoluzione si era verificata solamente nel 14 per cento degli studenti impegnati nel programma di prevenzione. Anche se questo programma era stato svolto in sole otto sedute, sembrava aver ridotto di metà il rischio della depressione (36). 

Risultati altrettanto promettenti erano venuti da una classe speciale di ragazzi dai dieci ai tredici anni che avevano difficoltà con i genitori e mostravano alcuni sintomi depressivi. Questa classe aveva seguito, durante il doposcuola, una lezione settimanale nel corso della quale aveva appreso abilità emozionali fondamentali, come affrontare i contrasti, pensare prima di agire, e - forse l'abilità più importante - affrontare il pessimismo associato alla depressione; per esempio, decidere di studiare di più dopo aver riportato brutti voti in un compito, invece di pensare: “Non sono abbastanza intelligente”. 

“Un ragazzo impara in queste lezioni che stati d'animo come l'ansia, la tristezza e la rabbia non calano su di te senza che tu possa esercitare alcun controllo su di essi, ma che invece tu puoi cambiare il modo in cui ti senti attraverso ciò che pensi”, rileva lo psicologo Martin Seligman, uno dei promotori del programma durato dodici settimane. Poiché mettere in discussione i pensieri deprimenti sconfigge la tristezza che incombe sull'anima, Seligman aggiunse che tale tecnica “è un corroborante istantaneo che diventa un'abitudine”. 

Anche in questo caso le lezioni speciali abbassarono di metà il tasso di depressione e questo risultato si protrasse per due anni. Un anno dopo la fine del programma, solo l'8 per cento dei partecipanti al corso risultò affetto da una depressione moderata o grave, rispetto al 29 per cento di ragazzi di un gruppo di controllo. E dopo due anni, circa il 20 per cento di coloro che avevano seguito il corso mostrava alcuni sintomi di una blanda depressione quanto meno blanda, che era emersa invece nel 44 per cento del gruppo di controllo. 

Apprendere queste abilità emozionali al culmine dell'adolescenza può essere particolarmente utile. Seligman osserva: “Questi ragazzi sembrano saper affrontare meglio le consuete sofferenze adolescenziali dovute ai rifiuti. Sembrano aver imparato questa abilità in un momento cruciale per il rischio di ammalarsi di depressione, proprio mentre fanno il loro ingresso nell'adolescenza. E la lezione appresa sembra persistere e rafforzarsi nel corso degli anni, indicando che essi la stanno effettivamente mettendo in pratica nella loro vita quotidiana”. 

Altri esperti di depressione infantile plaudono a questi nuovi programmi. “Se si vuol fare davvero qualcosa di utile per malattie psichiatriche come la depressione, bisogna agire prima che i bambini si ammalino la prima volta” osservò la Kovacs. “La vera soluzione è una 'vaccinazione' psicologica.” 

NOTA * Nei bambini, diversamente dagli adulti, l'assunzione di farmaci non rappresenta nel trattamento della depressione una chiara alternativa alla psicoterapia o all'educazione preventiva; infatti i bambini metabolizzano i farmaci diversamente dagli adulti. Gli antidepressivi triciclici, che spesso hanno successo con gli adulti, secondo studi specifici nei bambini non si sono dimostrati migliori di un placebo farmacologicamente inattivo. Nuovi antidepressivi, inclusa la fluoxetina, non sono stati ancora sperimentati per l'impiego sui bambini. La desipramina, uno dei triciclici più comuni e più sicuri impiegati per gli adulti, all'epoca in cui scrivo è oggetto di un severo esame da parte della Food and Drug Administration come possibile causa di morte nei bambini. 




Disturbi del comportamento alimentare. 


Durante il corso postlaurea di psicologia clinica che seguii alla fine degli anni Sessanta, conobbi due donne che soffrivano di disturbi del comportamento alimentare, anche se compresi la natura dei loro problemi solo molti anni dopo. Una si era brillantemente laureata in matematica ad Harvard ed era mia amica dagli anni dell'università; l'altra era una bibliotecaria del M.I.T. La dottoressa in matematica, benché fosse magrissima, non riusciva a mangiare: il cibo, a suo dire, la disgustava. La bibliotecaria era una donna formosa e si abbuffava di gelati, torte e altri dolci; poi - come una volta mi confidò non senza imbarazzo - andava di nascosto al bagno e si procurava il vomito. Oggi alla dottoressa in matematica verrebbe diagnosticata l'anoressia nervosa, mentre alla bibliotecaria la bulimia. 

All'epoca, simili definizioni non esistevano. I medici stavano appena cominciando a esaminare il problema; Hilda Bruch, un pioniere di questi studi, pubblicò il suo articolo fondamentale sui disturbi del comportamento alimentare nel 1969 (37). La Bruch, che si interrogava sui casi di donne che rifiutavano il cibo fino a morire, ipotizzò che una delle molteplici cause consistesse nella incapacità di identificare e di rispondere appropriatamente agli stimoli corporei, in particolare, com'è ovvio, a quello della fame. Da allora la letteratura medica sui disturbi alimentari ha conosciuto una fioritura impressionante ed è stata avanzata una molteplicità di ipotesi sulle loro cause, che vanno da una sensazione di inadeguatezza delle ragazze e delle bambine di fronte a modelli inarrivabili di bellezza femminile con i quali si sentono costrette a competere, alla presenza di madri importune che invischiano le proprie figlie in una trama di sensi di colpa e di rimproveri per sottoporle al proprio controllo. 

La maggior parte di queste ipotesi soffriva di un grosso inconveniente: erano estrapolazioni da osservazioni eseguite durante la terapia. Molto più attendibili, da un punto di vista scientifico, sono gli studi condotti su gruppi di persone piuttosto ampi, per verificare quali di esse, in un arco di tempo di diversi anni, finiranno per essere afflitte da una di queste patologie. Studi simili consentono un paragone chiaro che può indicare, per esempio, se la presenza di genitori dominanti predispone una ragazza a disturbi del comportamento alimentare. Oltre a ciò, è possibile identificare l'insieme delle condizioni che suscitano il problema, distinguendole da altre che potrebbero sembrare cause, ma che in effetti si riscontrano altrettanto spesso in persone non affette dal problema e in quelle che si sottopongono alla terapia. 

Quando uno studio di questo tipo venne svolto su più di novecento adolescenti dalla settima alla decima classe, si riscontrò che le carenze emozionali - in particolare l'incapacità di individuare i sentimenti dolorosi e di controllarli - erano un fattore chiave che conduceva a disturbi del comportamento alimentare (38). In una scuola superiore della periferia ricca di Minneapolis, nella decima classe c'erano 61 adolescenti che già soffrivano di gravi sintomi di anoressia o di bulimia. Più i problemi erano gravi - più le ragazze reagivano a insuccessi, difficoltà e seccature con forti sentimenti negativi che non potevano placare - minore era la consapevolezza di ciò che esattamente stavano provando. Quando queste due tendenze emozionali venivano associate a un sentimento di pronunciata insoddisfazione per il proprio corpo, allora l'esito era l'anoressia o la bulimia. La presenza di genitori eccessivamente dominanti non sembrava giocare un ruolo di primo piano nel provocare i disturbi del comportamento alimentare. (Come la stessa Bruch aveva avvertito, era improbabile che le teorie basate sul senno di poi fossero accurate; per esempio, è facile che i genitori si controllino maggiormente in risposta ai disturbi della figlia, nel disperato tentativo di aiutarla.) Irrilevanti furono anche giudicate spiegazioni diffuse come la paura della sessualità, l'inizio precoce della pubertà e una bassa autostima. 

La catena causale messa in luce da questo studio, invece, iniziava con gli effetti prodotti sulle giovanissime adolescenti dal fatto di crescere in una società ossessionata dall'aver assunto una magrezza innaturale come simbolo della bellezza femminile. Molto prima dell'adolescenza le bambine sono già sensibili al loro peso corporeo. Una bambina di sei anni, ad esempio, quando la madre le chiese di andare in piscina, scoppiò a piangere dicendo che sarebbe sembrata grassa in costume da bagno. In realtà, afferma il pediatra della bimba che riferisce l'episodio, il suo peso era normale per l'altezza (39). In uno studio su 271 adolescenti, metà delle ragazze pensavano di essere troppo grasse, benché la grande maggioranza di loro fosse normale. Ma lo studio di Minneapolis ha mostrato che l'ossessione di essere sovrappeso non è in sé sufficiente a spiegare come mai alcune ragazze sviluppino disturbi del comportamento alimentare. 

Alcuni obesi sono incapaci di esprimere la differenza tra aver paura, essere arrabbiati e aver fame e perciò trattano tutte queste sensazioni come se significassero soltanto fame; ciò li induce a mangiare in eccesso ogni volta che si sentono male (40). Qualcosa di simile sembra succedere alle ragazze dello studio di cui sopra. Gloria Leon, la psicologa della Minnesota University che ha condotto lo studio sui disturbi del comportamento alimentare delle adolescenti, osservò che esse “hanno scarsa consapevolezza dei propri sentimenti e dei segnali del proprio corpo; questo era il più forte fattore predittivo del fatto che avrebbero sviluppato un disturbo alimentare nell'arco dei due anni successivi. Nella grande maggioranza i giovani imparano a distinguere le proprie diverse sensazioni, a dire se si sentono annoiati, arrabbiati, depressi o affamati: questa è una parte fondamentale dell'apprendimento emozionale. Ma queste adolescenti fanno fatica a distinguere le sensazioni più elementari. Può darsi che abbiano un problema con il loro ragazzo e non sono sicure se sono arrabbiate, ansiose o depresse; semplicemente sperimentano una diffusa tempesta emozionale che non sanno come affrontare efficacemente. Imparano a procurarsi una sensazione di benessere mangiando; questa può diventare un'abitudine emozionale fortemente radicata”. 

Ma quando una tale abitudine rassicurante interagisce con la pressione che le ragazze avvertono a restare magre, ecco aprirsi la strada allo sviluppo dei disturbi del comportamento alimentare. “All'inizio l'adolescente può cominciare ad abbuffarsi” osserva la Leon. “Ma per rimanere magra, può ricorrere al vomito o ai lassativi o a intensi esercizi fisici per perdere il grasso accumulato mangiando troppo. Questa lotta per far fronte alla confusione emozionale può prendere però anche un'altra strada, ossia quella di non mangiare affatto: può essere un modo per farti sentire che esercitano almeno un qualche controllo sui sentimenti che le sommergono.” 


La combinazione di una scarsa consapevolezza interiore e di deboli abilità sociali comporta che queste ragazze, quando si trovano in difficoltà con i genitori o gli amici, non siano in grado di agire efficacemente per migliorare il rapporto o per alleviare la propria angoscia. Al contrario, il dispiacere scatena in loro i disturbi del comportamento alimentare, che siano la bulimia o l'anoressia, o semplicemente il mangiare troppo. Gloria Leon ritiene che un trattamento efficace per queste ragazze debba includere un certo recupero delle abilità emozionali di cui sono carenti. “I medici constatano che la terapia è più efficace se si affrontano le carenze” mi ha detto la Leon. “Queste ragazze hanno bisogno di imparare a riconoscere i propri sentimenti e di apprendere i metodi per rasserenarsi e migliorare i rapporti senza ricorrere alle proprie cattive abitudini alimentari.” 




Soli con se stessi: abbandoni. 


Ecco un dramma da scuola elementare: Ben, un bambino di quarta con pochi amici, ha appena saputo dal suo unico compagno, Jason, che durante la pausa per il pranzo non giocheranno assieme, perché Jason vuole giocare con Chad, un altro bambino. Ben, sconfortato, abbassa il capo e si mette a piangere. Quando i singhiozzi sono cessati, Ben si avvicina al tavolo dove Jason e Chad stanno consumando il pasto. 

“Ti odio!” grida Ben a Jason. 

“Perché?” gli chiede quest'ultimo. 

“Perché hai mentito” risponde Ben in tono d'accusa. “Hai detto che per tutta la settimana avresti giocato con me e hai mentito.” 

Poi Ben gli gira le spalle e torna al proprio tavolo vuoto, piangendo in silenzio. Jason e Chad vanno da lui e cercano di parlargli, ma Ben si mette le dita nelle orecchie, ignorandoli volutamente, e corre via dal refettorio andando a nascondersi dietro i bidoni dei rifiuti della scuola. Alcune ragazzine che hanno assistito al fatto cercano di farli riappacificare. Trovano Ben e gli riferiscono che Jason è disposto a giocare anche con lui. Ma Ben non ne vuol sapere e dice loro di lasciarlo in pace. Medica da solo le proprie ferite, singhiozzando e rimuginando in silenzio (41). 

Senza dubbio un episodio struggente; la sensazione di essere respinti e di rimanere senza amici è qualcosa che quasi tutti abbiamo provato in qualche momento dell'infanzia o dell'adolescenza. Ma ciò che è più rivelatore della reazione di Ben è la sua incapacità di rispondere agli sforzi di Jason per ristabilire l'amicizia, un atteggiamento che prolunga la sua situazione critica quando essa avrebbe potuto aver termine. Una tale incapacità di cogliere segnali fondamentali è tipica dei bambini considerati antipatici; come abbiamo visto nel capitolo 8, i bambini oggetto di rifiuto sociale sono in genere poco abili nel decifrare i segnali emozionali e sociali e, anche quando ci riescono, il repertorio delle loro risposte è spesso assai limitato. 

L'abbandono scolastico è un rischio che colpisce in modo particolare i ragazzi rifiutati dagli altri. Il tasso di abbandono scolastico di questi giovanissimi è tra le due e le otto volte maggiore di quello dei ragazzi che hanno amici. Uno studio ha scoperto, ad esempio, che circa il 25 per cento dei ragazzi che alle elementari venivano considerati antipatici, ha abbandonato gli studi prima di ultimare la scuola secondaria superiore, rispetto a una percentuale complessiva dell'8 per cento (42). C'è poco da stupirsi: immaginate di dover trascorrere trenta ore alla settimana in un posto dove non siete simpatici a nessuno. 

Le inclinazioni emozionali che portano i ragazzi all'emarginazione sociale sono di due tipi. Come abbiamo visto, una è la propensione a scoppi d'ira violenti e a percepire l'ostilità altrui anche in assenza di reali intenzioni ostili. Il secondo è la timidezza e l'apprensione nei contatti sociali. Al di là e al di sopra di questi fattori caratteriali stanno poi i ragazzi “imbranati” - i cui impacci mettono gli altri ripetutamente a disagio e che solitamente vengono emarginati. 

Uno dei modi in cui questi giovanissimi mostrano la propria “imbranataggine” consiste nel tipo di segnali emozionali che essi inviano. Quando ai bambini delle elementari con pochi amici si chiede di associare un'emozione come il disgusto o la rabbia con immagini di volti che manifestano una vasta gamma di emozioni, essi commettono errori più numerosi dei bambini simpatici. Quando ai bambini dell'asilo è stato chiesto di spiegare come fare amicizia o evitare di scontrarsi con qualcuno, i soggetti considerati antipatici - cioè quelli con i quali gli altri evitano di giocare - se ne sono usciti con risposte del tutto inappropriate (“Dargli un pugno” come soluzione al conflitto quando due bambini vogliono lo stesso giocattolo, ad esempio) o con vaghe richieste di aiuto a una persona più grande. E quando è stato chiesto ad alcuni adolescenti di fingere di essere tristi, arrabbiati o maliziosi, i più antipatici recitarono la parte nel modo meno persuasivo. Non c'è forse da stupirsi che questi ragazzi giungano a considerarsi incapaci di fare amicizie; la loro incompetenza sociale si trasforma così in una profezia che si autoavvera. Invece di imparare nuovi modi di fare amicizia, essi semplicemente continuano a ripetere gli stessi errori già rivelatisi tali in passato, oppure reagiscono in maniera ancor più stupida (43). 

Nella roulette della simpatia, questi ragazzi non soddisfano i criteri emozionali di base: stare con loro non è considerato divertente ed essi non sanno mettere a proprio agio un coetaneo. Osservazioni compiute su ragazzi antipatici durante il gioco, mostrano ad esempio che essi sono molto più inclini degli altri a ingannare, a tenere il broncio, a abbandonare il gioco quando perdono o a vantarsi quando vincono. Ovviamente la maggior parte dei ragazzi vuol vincere, ma è capace di contenere la propria reazione emotiva sia in caso di sconfitta sia in caso di vittoria, così da non danneggiare il rapporto con i compagni di gioco. 

Mentre i ragazzi socialmente disadattati - che hanno continue difficoltà a decifrare le emozioni e a rispondere a esse - finiscono per restare socialmente isolati, questo esito non riguarda, com'è ovvio, i ragazzi che attraversano un'emarginazione solo temporanea. Ma per quelli continuamente esclusi e rifiutati, il penoso stato di emarginazione persiste con il passare degli anni scolastici. Mentre il giovane entra nell'età adulta, le possibilità di finire ai margini della società sono molto elevate. E' nell'ambito delle amicizie intime e nel tumulto del gioco che gli adolescenti affinano le abilità sociali ed emozionali che impiegheranno nei rapporti interpersonali. I ragazzi esclusi da questa sfera di apprendimento risultano, ovviamente, svantaggiati. 

Comprensibilmente, chi viene rifiutato denuncia uno stato di grande ansia e riferisce di avere molte preoccupazioni, di sentirsi depresso e solo. In effetti è stato dimostrato che il grado di simpatia di cui gode un bambino in terza classe è un fattore predittivo più attendibile di ogni altro per quanto riguarda problemi di salute mentale che possono insorgere a diciotto anni: più attendibile delle valutazioni di insegnanti e assistenti sanitari, del rendimento scolastico, del quoziente intellettivo e perfino dei risultati ottenuti nei test psicologici (44). E, come abbiamo visto, nelle fasi successive della vita le persone con pochi amici e cronicamente sole corrono rischi maggiori di malattia e di morte precoce. 

Come ha evidenziato lo psicoanalista Harry Stuck Sullivan, impariamo a intrattenere rapporti intimi - ad accettare le differenze e a condividere i sentimenti più profondi - nell'ambito delle nostre prime grandi amicizie con individui del nostro sesso. Ma rispetto ai loro coetanei i bambini socialmente respinti hanno soltanto la metà delle probabilità di avere un amico preferito durante gli anni cruciali della scuola elementare; pertanto viene loro a mancare un'opportunità essenziale per la crescita emozionale (45). Un amico può fare la differenza, anche quando tutti gli altri coetanei ti girano le spalle (e anche quando quell'amicizia non sia affatto solida). 




Addestrare all'amicizia. 


C'è una speranza per i ragazzi rifiutati, nonostante la loro inadeguatezza. Steven Asher, uno psicologo dell'Università dell'Illinois, ha ideato un corso di “addestramento all'amicizia” per bambini antipatici, che si è rivelato di una certa efficacia (46). Dopo aver identificato in terza e quarta classe i bambini che erano considerati meno simpatici, Asher impartì loro sei lezioni su come “rendere più divertenti i giochi” essendo “cordiali, divertenti e gentili”. Per evitare di etichettarli come i più antipatici, ai bambini fu detto che avrebbero avuto la funzione di “consulenti” dell'istruttore, il quale stava cercando di imparare come rendere più divertenti i giochi dei bambini. 

I bambini furono addestrati a comportarsi secondo modalità che Asher aveva trovato tipiche dei ragazzi più simpatici. Per esempio, vennero incoraggiati a pensare a soluzioni e a compromessi alternativi (invece di accapigliarsi), nel caso in cui sorgessero tra loro contrasti sulle regole del gioco; a ricordarsi di parlare con il compagno di giochi e di fargli domande; ad ascoltarlo e a osservarlo per vedere come agisce; a dire qualcosa di gentile quando l'altro bambino fa bene qualcosa; a sorridere e a offrire aiuto, suggerimenti o incoraggiamento. I bambini provarono anche a praticare questi comportamenti gradevoli mentre giocavano con un compagno di classe e in seguito l'istruttore commentò con loro gli aspetti positivi della loro condotta. Questo breve corso su come andare d'accordo con gli altri ebbe un effetto notevole: un anno dopo, i bambini che l'avevano seguito - tutti scelti tra i meno amati nella rispettiva classe - si erano saldamente guadagnata la simpatia dei compagni. Nessuno di loro era diventato un campione di popolarità, ma nessuno veniva più rifiutato. 

Risultati simili sono stati riscontrati da Stephen Nowicki, uno psicologo della Emory University (47). Il suo programma addestra gli emarginati sociali ad affinare la propria capacità di decifrare i sentimenti altrui e di rispondere a essi nella maniera più appropriata. I ragazzi, ad esempio, vengono filmati mentre tentano di esprimere sentimenti come la felicità o la tristezza e vengono istruiti su come migliorare la propria espressività emozionale. Poi, mettono alla prova le loro migliorate capacità con un coetaneo del quale vogliono diventare amici. 

Tali programmi hanno riscosso una percentuale di successi compresa fra il 50 e il 60 per cento nell'accrescere la simpatia dei ragazzi rifiutati. Questi programmi (almeno nelle versioni attuali) sembrano funzionare meglio per i bambini di terza e quarta classe che non per ragazzi più grandi e sembrano più utili per i bambini incapaci di stabilire rapporti sociali che per quelli molto aggressivi. Ma è solo questione di metterli a punto; il segnale positivo è che molti ragazzi rifiutati, o comunque la maggior parte di essi possono essere introdotti nel circolo dell'amicizia con un po' di addestramento emozionale di base. 




Alcol e droghe: la dipendenza come automedicazione. 


Gli studenti nel mio campus universitario lo definiscono “bere fino al nero”, ossia riempirsi di birra fino al punto di perdere i sensi. Una delle tecniche consiste nell'attaccare un imbuto a un tubo da giardinaggio in modo che una lattina di birra possa essere scolata in circa dieci secondi. Non si tratta di una stranezza isolata. Un'indagine ha mostrato che due quinti degli studenti universitari di sesso maschile si scolano sette o più birre in una sola volta, mentre l'11 per cento si autodefinisce “forte bevitore”. Ovviamente, un'altra definizione potrebbe essere quella di “alcolizzato” (48). Quasi la metà degli studenti e quasi il 40 per cento delle studentesse universitarie si ubriacano almeno due volte in un mese (49). 

Anche se negli Stati Uniti l'uso della maggior parte delle droghe fra i giovani ha conosciuto in generale una contrazione negli anni Ottanta, c'è una tendenza costante verso un maggior uso dell'alcol in fasce di età sempre più basse. Un'inchiesta condotta nel 1993 ha scoperto che il 35 per cento delle studentesse universitarie afferma di bere per ubriacarsi, mentre appena il 10 per cento faceva altrettanto nel 1977; complessivamente uno studente su tre beve per ubriacarsi. Questo comportamento è fonte di altri pericoli: il 90 per cento di tutti gli stupri denunciati nei college universitari è avvenuto quando o l'aggressore o la vittima, o entrambi, avevano bevuto (50). Gli incidenti legati all'abuso di alcol sono la principale causa di morte fra i giovani dai quindici ai ventiquattro anni (51). 

La sperimentazione delle droghe e dell'alcol potrebbe apparire un rito di passaggio per gli adolescenti, ma per alcuni di loro questo primo episodio può avere effetti duraturi. Per la maggioranza dei drogati e dei tossicodipendenti l'inizio della dipendenza può esser fatto risalire all'adolescenza, anche se pochi di quelli che in quegli anni fanno esperienza di droga e sesso finiscono per diventare alcolizzati o tossicodipendenti. Quando prende il diploma, più del 90 per cento degli studenti delle superiori ha sperimentato l'alcol e tuttavia solo il 14 per cento circa finisce col diventare alcolizzato; dei milioni di americani che hanno sperimentato la cocaina, meno del 5 per cento è diventato dipendente (52). Da che cosa dipende la differenza? 

Certamente chi vive in quartieri con un'alta presenza di criminalità, nei quali la droga è venduta a ogni angolo di strada e il trafficante è l'espressione locale più evidente del successo economico, corre maggiori rischi di diventare tossicodipendente. Alcuni finiscono tossicodipendenti dopo essere diventati piccoli spacciatori; altri per la facile reperibilità della droga o per effetto di una sottocultura giovanile che esalta l'uso delle stesse, un fattore, quest'ultimo, che innalza il rischio di tossicodipendenza in ogni quartiere, anche (e forse soprattutto) nei più benestanti. E tuttavia la domanda rimane: fra quanti sono esposti a queste attrattive o a queste pressioni e che continuano a sperimentare la droga, chi sono coloro che hanno maggiori probabilità di contrarre un'abitudine duratura? 

Una teoria scientifica corrente è che a contrarre l'abitudine, diventando sempre più dipendenti dall'alcol e dalla droga, sono coloro che fanno uso di queste sostanze come di una sorta di medicinale un modo per placare sentimenti di ansia, di rabbia o di depressione. Durante la loro prima sperimentazione si imbattono in una soluzione chimica, un modo per calmare i sentimenti di ansia o di malinconia che li tormentano. Così, su molte centinaia di studenti di settima e ottava classe seguiti per due anni, quelli che risultarono soggetti ai livelli più alti di sofferenza emozionale risultarono in seguito maggiormente dediti all'abuso di alcol o di stupefacenti (53). Questo spiegherebbe perché tanti giovani possono sperimentare le droghe e l'alcol senza diventare dipendenti, mentre altri lo divengono sin dall'inizio: i più vulnerabili alla dipendenza sembrano trovare nella droga o nell'alcol un modo immediato per lenire le emozioni che li hanno fatti soffrire per anni. 

Come ha affermato Ralph Tarter, uno psicologo del Western Psychiatric Institute and Clinic di Pittsburgh: “Per le persone biologicamente predisposte, la prima bevuta o la prima dose di stupefacenti sono esperienze immensamente corroboranti, in un modo che altri semplicemente non sperimentano. Molti tossicodipendenti in fase di recupero mi dicono: 'Quando ho preso la mia prima dose di droga, mi sono sentito normale per la prima volta'. La droga dà loro stabilità psicologica, almeno a breve termine” (54). Questo, ovviamente, è il patto col diavolo della dipendenza: una sensazione positiva a breve termine in cambio del continuo disfacimento di tutta una vita.

Certe caratteristiche emozionali sembrano indurre a trovare sollievo in una sostanza piuttosto che in un'altra. Per esempio, ci sono due percorsi emozionali che conducono all'alcolismo. Uno comincia quando una persona molto tesa e ansiosa durante l'infanzia scopre, in genere da adolescente, che l'alcol placa l'ansia. Molto spesso si tratta di figli, in genere maschi, di alcolisti, che sono ricorsi anche loro all'alcol per calmare il proprio nervosismo. Un contrassegno biologico di questo tipo di alcolizzati è dato dalla scarsa secrezione di Gaba, un neurotrasmettitore che regola l'ansia: una carenza di Gaba si manifesta soggettivamente con un alto livello di tensione. Uno studio ha rilevato che i figli di padri alcolizzati hanno bassi livelli di Gaba e sono molto ansiosi, ma quando bevono alcol i loro livelli di Gaba salgono e l'ansia si attenua (55). Questi figli di alcolizzati bevono per allentare la tensione, trovando nell'alcol un rilassamento che, in apparenza, non saprebbero ottenere in altro modo. Persone simili possono ricorrere all'abuso di sedativi come di alcol col medesimo scopo di ridurre l'ansia. 

Uno studio neuropsicologico su figli di alcolizzati che all'età di dodici anni hanno mostrato sintomi di ansia, quali un aumento della frequenza cardiaca in risposta allo stress e un alto grado di impulsività, ha riscontrato che questi adolescenti avevano anche una scarsa funzionalità del lobo frontale (56). Pertanto, le aree cerebrali che avrebbero potuto attenuare l'ansia o controllare l'impulsività erano in loro meno funzionanti che in altri individui. E poiché i lobi prefrontali sono anche sede della memoria di lavoro - che presenta alla mente le conseguenze delle varie possibilità di azione mentre si prende una decisione - la loro carente funzionalità può indurli a scivolare nell'alcolismo, facendogli ignorare le conseguenze a lungo termine del bere, proprio mentre - grazie all'alcol - sperimentano un'immediata azione calmante sull'ansia. 

Questo estremo desiderio di serenità sembra essere il contrassegno emozionale di una predisposizione genetica all'alcolismo. Uno studio su 1300 familiari di alcolisti ha mostrato che i figli degli alcolisti più a rischio di diventare essi stessi alcolizzati erano quelli soggetti a livelli di ansia cronicamente elevati. In effetti i ricercatori conclusero che l'alcolismo si sviluppa in persone di questo tipo come “automedicazione dei sintomi di ansia” (57). 

Un secondo percorso emozionale che porta all'alcolismo scaturisce da un alto livello di agitazione, di impulsività e di noia. Questo tipo si mostra nell'infanzia in bambini irrequieti, nervosi e indisciplinati; negli anni delle elementari sotto forma di agitazione, iperattività e tendenza a mettersi nei guai, una propensione che, come abbiamo visto, può spingere tali bambini a cercare amici nelle aree marginali, portandoli talvolta a una carriera da criminali o alla diagnosi di “disturbo antisociale della personalità”. Queste persone (e si tratta prevalentemente di uomini) si lamentano soprattutto di essere agitate; la loro prima debolezza è un'impulsività incontrollata; la loro reazione usuale alla noia, che spesso li affligge, è una ricerca impulsiva del rischio e dell'eccitazione. Da adulti, persone con tratti simili (che possono essere collegati a carenze di altri due neurotrasmettitori, la serotonina e le Mao) constatano che l'alcol può placare la loro agitazione. E il fatto di non poter sopportare la monotonia li rende disposti a provare qualunque cosa; questa attitudine, abbinata alla loro generale impulsività, li predispone all'abuso di alcol e di molte altre droghe (58). 

Anche se la depressione può indurre a bere, gli effetti metabolici dell'alcol dopo un sollievo di breve durata spesso peggiorano la depressione. Chi ricorre all'alcol come un palliativo emozionale, lo fa molto più spesso per placare l'ansia che per sfuggire alla depressione; una categoria di droghe del tutto diversa lenisce le sensazioni delle persone depresse, almeno temporaneamente. Il sentirsi cronicamente infelici espone a un maggior rischio di dipendenza da stimolanti come la cocaina, che forniscono un diretto antidoto al senso di depressione. Uno studio ha rilevato che a più della metà dei pazienti curati in una clinica per dipendenza da cocaina era stata diagnosticata una depressione grave prima che incominciassero ad assumere lo stupefacente in via abitudinaria; più profonda era stata la precedente depressione e più forte era diventata l'abituale assunzione di droga (59). 

Una irascibilità cronica può condurre a un altro tipo di predisposizione. In uno studio su quattrocento pazienti in cura per tossicodipendenza da eroina e da altri oppiacei, il più evidente tratto emozionale era una permanente difficoltà a controllare la collera e la tendenza ad arrabbiarsi facilmente. Alcuni pazienti ammisero che con gli oppiacei finalmente si sentivano normali e rilassati (60). 

Anche se la predisposizione all'abuso di stupefacenti può in alcuni casi avere una base organica cerebrale, i sentimenti che inducono le persone ad “automedicarsi” con l'alcol o le droghe possono essere controllati senza ricorso a medicinali, come hanno dimostrato da decenni gli Alcolisti Anonimi e altri programmi di recupero. Acquisire la capacità di controllare quei sentimenti - placare l'ansia, scacciare la depressione, calmare la collera - rimuove la tendenza a far uso di droghe o di alcol come prima risposta. Queste abilità emozionali fondamentali vengono insegnate nei programmi terapeutici di recupero dall'abuso di droga e di alcol. Ovviamente sarebbe molto meglio se venissero apprese presto nella vita, molto prima che si stabilisca l'abitudine a ricorrere a queste sostanze. 




Non più guerre: un comune percorso di prevenzione definitivo. 


Nell'ultimo decennio si è dichiarata “guerra” di volta in volta a mali sociali come le gravidanze precoci, gli abbandoni scolastici, la droga e, più recentemente, la violenza. Il guaio di queste campagne è però che arrivano troppo tardi, dopo che il male da colpire ha già raggiunto proporzioni epidemiche e si è radicato stabilmente nella vita dei giovani. Si tratta di interventi in momenti ormai critici, come risolvere un problema sanitario con l'invio di un'ambulanza per salvare il malato piuttosto che con una vaccinazione che scongiurerebbe in anticipo la malattia. Invece di continuare simili “guerre”, abbiamo bisogno di seguire la logica della prevenzione offrendo ai nostri bambini quelle capacità per affrontare la vita che aumenteranno le loro probabilità di sottrarsi a un destino sfortunato (61). 

Il mio richiamare l'attenzione sulle carenze emozionali e sociali non vuol rappresentare la negazione del ruolo giocato da altri fattori di rischio, come il crescere in una famiglia frantumata, violenta e caotica o in un quartiere povero, segnato dal crimine e dalla droga. La povertà da se stessa infligge traumi emozionali ai bambini: i bambini più poveri già a cinque anni sono più timorosi, ansiosi e tristi dei loro coetanei benestanti. Hanno anche maggiori problemi comportamentali - ad esempio fanno i capricci frequentemente e rompono gli oggetti - una tendenza che continua durante l'adolescenza. La pressione della povertà corrode anche la vita familiare: in genere ci sono minori espressioni di affetto da parte dei genitori, più depressione nelle madri (che spesso sono sole e senza lavoro) e un maggior ricorso a punizioni severe come sgridate, botte e intimidazioni (62). 

Ma la competenza emozionale esercita un ruolo che va ben oltre i fattori familiari ed economici, che può rivelarsi decisivo nel determinare fino a che punto un certo bambino o adolescente è indifeso dinanzi alle avversità o trova un nucleo di resistenza per sopravvivere a esse. Studi a lungo termine su centinaia di bambini cresciuti in povertà, in famiglie violente o allevati da un genitore con gravi disturbi mentali mostrano che coloro che sanno resistere persino di fronte alle più tremende avversità posseggono in genere abilità emozionali fondamentali (63). Queste comprendono la capacità decisiva di socializzare in maniera vincente attirando gli altri verso di sé, la fiducia in se stessi, un ottimismo persistente anche di fronte al fallimento e alla frustrazione, la capacità di riprendersi in fretta dai dispiaceri e un'indole accomodante. 

Ma la grande maggioranza dei bambini affronta le difficoltà della vita senza queste risorse. Ovviamente molte di queste capacità sono innate, una fortunata eredità genetica, ma perfino le qualità del carattere possono mutare in meglio, come abbiamo visto nel capitolo 14. Una linea di intervento è ovviamente di carattere politico ed economico e consiste nell'alleviare la povertà e le altre condizioni sociali che generano questi problemi. Ma a prescindere da questi provvedimenti (che sembrano passare sempre più in secondo piano nei programmi di governo) si può offrire molto ai bambini per aiutarli ad affrontare meglio avversità così debilitanti. 

Prendiamo il caso dei disturbi emozionali, di cui fa esperienza nel corso della vita circa un americano su due. Uno studio su un campione rappresentativo composto da 8098 americani ha scoperto che il 48 per cento di essi ha sofferto di almeno un problema psichiatrico nel corso della vita (64). Più severamente colpito è stato il 14 per cento, afflitto contemporaneamente da tre o più problemi psichiatrici. Questo gruppo raccoglie le persone che hanno maggiori disagi e corrisponde al 60 per cento di tutti i disturbi psichiatrici che si verificano in un qualsiasi momento e al 90 per cento di quelli più gravi e invalidanti. Benché pazienti simili abbiano bisogno di una terapia intensiva nel presente, il migliore approccio terapeutico sarebbe la prevenzione dei loro problemi sin dall'inizio, dovunque fosse possibile. Certamente non tutti i disturbi mentali possono essere prevenuti, ma ve ne sono alcuni, forse molti. che sono suscettibili di prevenzione. Ronald Kessler, il sociologo dell'Università del Michigan che ha condotto lo studio, mi ha detto: “Dobbiamo intervenire presto. Prendiamo il caso di una ragazza che in sesta classe abbia una fobia sociale e che nei primi anni delle scuole superiori cominci a bere per dominare le sue ansie. A ventotto, ventinove anni, quando diviene oggetto del nostro studio, è ancora una persona piena di paure, è ormai dedita all'alcol e alle droghe ed è depressa perché la sua vita è un fallimento. Il grosso problema è: che cosa avremmo potuto fare prima, per evitare tutto questo?”. 

Lo stesso discorso vale, ovviamente, per uscire dalla spirale della violenza o per la maggioranza dei pericoli che si parano dinanzi ai giovani di oggi. Programmi educativi per prevenire vari problemi specifici come l'uso di droga e la violenza sono proliferati in maniera incontrollata negli ultimi dieci anni, creando una sorta di piccola industria nel mercato educativo. Ma molti di essi, compresi molti dei più commercializzati e utilizzati, si sono dimostrati inefficaci. Con rammarico degli educatori, alcuni programmi hanno perfino dato l'impressione di accrescere i problemi che dovevano evitare, in particolare l'abuso di sostanze stupefacenti e i rapporti sessuali fra adolescenti. 



L'INFORMAZIONE NON E' SUFFICIENTE. 


Un esempio istruttivo è offerto dagli abusi sessuali sui bambini. Nel 1993 sono stati denunciati negli Stati Uniti circa duecentomila casi accertati con una crescita su base annua di circa il 10 per cento. Benché le stime siano molto varie, la maggior parte degli esperti concorda sul fatto che fra il 20 e il 30 per cento delle ragazze e circa la metà dei ragazzi sono o sono stati vittime di qualche forma di abuso sessuale entro il diciassettesimo anno di età (le cifre salgono o calano a seconda della definizione di abuso sessuale, a prescindere da altri fattori) (65). Non esiste un profilo tipologico unico per descrivere il bambino particolarmente vulnerabile all'abuso sessuale; ma per effetto di ciò che è loro accaduto la maggior parte di loro si sentono privi di protezione, incapaci di resistere da soli e isolati dagli altri. 

Tenendo presenti questi pericoli, molte scuole hanno cominciato a offrire programmi di prevenzione degli abusi sessuali. La maggior parte di questi programmi si concentra strettamente sulle informazioni fondamentali circa l'abuso sessuale, insegnando, ad esempio, ai ragazzi a distinguere tra contatti fisici “buoni” e “cattivi”, mettendoli in guardia contro i pericoli ed esortandoli a riferire a un adulto se capita loro qualcosa di increscioso. Ma un'inchiesta nazionale su duemila ragazzi ha riscontrato che questa istruzione di base era di scarsissima utilità nell'aiutare i giovanissimi a fare qualcosa per evitare di diventare le vittime di un compagno prepotente a scuola o di un potenziale molestatore di bambini (66). Ancor peggio, i ragazzi che avevano seguito solo questo programma educativo e che in seguito erano diventati vittime di aggressioni sessuali denunciavano l'accaduto con una frequenza inferiore alla metà rispetto a coloro che non avevano seguito alcun programma. 

All'opposto, gli adolescenti a cui era stata fornita un'istruzione più ampia, che comprendeva le competenze sociali ed emozionali correlate, erano più capaci di proteggersi dal pericolo di diventare vittime di abusi sessuali: erano molto più inclini a esigere di essere lasciati in pace, a gridare o a combattere, a minacciare di riferire l'episodio e a raccontare effettivamente se era loro accaduto qualcosa di male. Quest'ultimo vantaggio - denunciare la violenza subita - ha un notevole valore preventivo, poiché molti molestatori prendono di mira centinaia di bambini. Uno studio su molestatori di bambini tra i quaranta e i cinquant'anni ha mostrato che, in media, essi fanno una vittima al mese a partire dagli anni dell'adolescenza. Una denuncia relativa a un conduttore di autobus e a un insegnante di informatica in una scuola superiore rivela che essi, tra tutti e due, hanno molestato circa trecento minori ogni anno, nessuno dei quali denunciò di aver subito abusi sessuali; gli abusi vennero alla luce solo dopo che uno dei ragazzi, che era stato molestato dall'insegnante, cominciò a sua volta a molestare la sorella (67). 

I ragazzi che avevano ricevuto un'istruzione più ampia sugli abusi sessuali erano tre volte più pronti a denunciare l'abuso rispetto a quelli che avevano seguito solo un corso preventivo minimo. Che cosa produceva risultati così interessanti? Questi programmi non trattavano l'argomento una sola volta, ma venivano ripetuti parecchie volte a livelli diversi nel corso della carriera scolastica di un ragazzo, come parte dell'educazione sanitaria e sessuale. Inoltre i genitori venivano invitati a trasmettere al bambino lo stesso messaggio insegnato a scuola (i bambini con i genitori che accolsero l'invito erano i più preparati nel resistere alla minaccia di abusi sessuali). 

Oltre a questo, le competenze sociali ed emozionali facevano la differenza. Per un bambino non è sufficiente saper distinguere i contatti fisici “buoni” da quelli “cattivi”; essi devono essere consapevoli di saper riconoscere quando una situazione prende una piega sbagliata o pericolosa assai prima che inizi il contatto fisico. Questo comporta non solo l'autoconsapevolezza, ma anche una fiducia in se stessi e una sicurezza di sé sufficienti a metterli in condizione di credere alle proprie sensazioni di pericolo e di agire di conseguenza, anche di fronte a un adulto che rassicuri il minore affermando che “non c'è niente di male”. Perciò un adolescente deve poter disporre di un repertorio di soluzioni - dallo scappare al minacciare di riferire l'episodio - per scongiurare quello che sta per accadere. Per questi motivi, i migliori programmi educativi insegnano ai ragazzi a far valere la propria volontà, ad affermare i propri diritti invece di rimanere passivi, a conoscere quali sono i confini della propria persona che devono essere rispettati e a difenderli. 

I programmi più efficaci integrano l'informazione di base sugli abusi sessuali con le abilità emozionali e sociali essenziali. Questi programmi insegnano ai ragazzi a trovare il modo di risolvere positivamente i conflitti interpersonali, ad avere più fiducia in se stessi, a non autoincolparsi se accade qualcosa di negativo, a sentire di poter contare su una rete di sostegno costituita da insegnanti e genitori, a cui possono rivolgersi. Se a ragazzi così preparati capita qualcosa di spiacevole, sono molto più propensi degli altri a riferirlo. 



I COMPONENTI ATTIVI. 


Simili acquisizioni hanno portato a riconsiderare quali dovrebbero essere i componenti di un programma preventivo ottimale, in base agli elementi che valutazioni imparziali hanno dimostrato essere veramente efficaci. In un progetto quinquennale, promosso dalla W. T. Grant Foundation, un gruppo di ricercatori ha studiato la situazione e ha individuato i componenti attivi che apparivano fondamentali nel determinare il successo dei programmi (68). Secondo questi ricercatori, l'elenco delle abilità fondamentali che dovrebbero essere insegnate, qualunque sia il problema specifico da prevenire, comprende tutti i componenti dell'intelligenza emozionale (vedi Appendice D per l'elenco completo) (69). 

Le abilità emozionali comprendono l'autoconsapevolezza; identificare, esprimere e controllare i sentimenti; frenare gli impulsi e rimandare la gratificazione; controllare la tensione e l'ansia. Un'abilità fondamentale, nel trattenere gli impulsi, sta nel conoscere la differenza tra sentimenti e azioni, e nell'apprendere a migliorare le proprie decisioni emozionali, innanzitutto frenando l'impulso ad agire e poi identificando (prima di agire) le azioni alternative e le relative conseguenze. Molte competenze sono interpersonali: decifrare i segnali sociali ed emozionali, ascoltare, essere in grado di resistere alle influenze negative, mettersi dal punto di vista dell'altro e capire quale comportamento sia accettabile in una situazione. 

Queste sono le abilità sociali ed emozionali più importanti nella vita e comprendono rimedi almeno parziali per la maggior parte delle difficoltà che ho discusso nel capitolo, se non proprio per tutte. La scelta di problemi specifici per la soluzione dei quali queste abilità offrono una sorta di vaccinazione preventiva è quasi a piacimento: il ruolo delle competenze sociali ed emozionali può essere esemplificato nei casi più diversi, dalle gravidanze premature indesiderate, al suicidio degli adolescenti. 

Certamente le cause di tutti questi problemi sono complesse, perché comprendono un intreccio di determinazione biologica, dinamica familiare, di politica della povertà e cultura della strada. Nessun intervento singolo, compreso quello che ha di mira le emozioni, può pretendere di risolvere da solo i problemi. Ma dal momento che le carenze emozionali provocano rischi aggiuntivi nella vita dei ragazzi - e abbiamo constatato che ne producono molti - l'attenzione dev'essere rivolta ai rimedi emozionali, non per escludere altre risposte, ma in combinazione con esse. La prossima domanda è: come dev'essere un'educazione delle emozioni?