PARTE QUINTA.
ALFABETIZZAZIONE EMOZIONALE.
15.
IL COSTO DELL'ANALFABETISMO EMOZIONALE.
Iniziò come una discussione da poco, ma si trasformò in un contrasto sempre più grave. Ian Moore, studente all'ultimo anno della scuola superiore Thomas Jefferson di Brooklyn, e Tyrone Sinkler, più giovane, avevano litigato con un amico, il quindicenne Khalil Sumpter. Poi avevano cominciato a tormentarlo e a minacciarlo. Alla fine la situazione esplose.
Khalil, temendo che Ian e Tyrone volessero picchiarlo, un mattino si recò a scuola portando con sé una pistola calibro 38 e, a cinque metri di distanza da una guardia di sicurezza della scuola, sparò a entrambi a bruciapelo, uccidendoli nell'atrio della scuola.
Il fatto di sangue, così agghiacciante, può essere letto come un altro segnale del bisogno disperato di lezioni su come gestire le emozioni, comporre i contrasti in maniera pacifica e imparare ad andare d'accordo. Gli insegnanti, da sempre preoccupati che gli studenti non restino indietro nello studio delle materie scolastiche tradizionali, incominciano a capire che esiste un diverso tipo di lacuna, assai più pericolosa: l'analfabetismo emozionale (1). E mentre si compiono sforzi lodevoli per alzare il livello della preparazione nelle materie scolastiche, questa nuova e inquietante lacuna non viene affrontata nei programmi scolastici regolari. Come afferma un insegnante di Brooklyn, attualmente nelle scuole “ci preoccupiamo di insegnare agli alunni a leggere e a scrivere bene molto di più che di sapere se saranno o non saranno vivi la prossima settimana”.
I segnali di questa manchevolezza possono essere scorti in episodi di violenza, come l'uccisione di Ian e Tyrone, che diventano sempre più frequenti nelle scuole americane. Ma non si tratta di fatti isolati. L'aumento della turbolenza fra gli adolescenti e delle difficoltà nei bambini può essere riscontrato negli Stati Uniti - indicatore primario delle tendenze mondiali - grazie alle seguenti statistiche (2).
Nel 1990, prendendo come campione i vent'anni precedenti, gli Stati Uniti hanno conosciuto la percentuale più alta di arresti di minorenni per reati di violenza; gli arresti di adolescenti per stupro sono raddoppiati; gli omicidi compiuti da minorenni sono quadruplicati, per lo più a seguito di sparatorie (3). Durante i vent'anni di cui si è detto, il tasso di suicidi fra gli adolescenti è triplicato, come pure il numero di ragazzi sotto i quattordici anni vittime di un omicidio (4).
Un numero più elevato di adolescenti, a un'età sempre più bassa, sono rimaste incinte. Nei cinque anni precedenti al 1993 il tasso delle nascite da madri adolescenti di età compresa fra i dieci e i quattordici anni è cresciuto costantemente - ci si riferisce a questo fenomeno parlando di “madri-bambine” -, come pure sono aumentate la percentuale di gravidanze indesiderate fra le adolescenti e la tendenza ad avere rapporti sessuali per la pressione psicologica esercitata dai coetanei. Negli ultimi trent'anni è triplicata la percentuale delle malattie veneree contratte dagli adolescenti (5).
Queste cifre sono certo sconfortanti, ma se si concentra l'attenzione sui giovani afro- americani, soprattutto nei quartieri residenziali degradati dei centri urbani, le statistiche sono addirittura desolanti: tutte le percentuali risultano di gran lunga più alte, talvolta doppie, triple o ancora più elevate rispetto alla media. Per esempio, l'uso di eroina e cocaina fra i giovani bianchi è triplicato nei vent'anni precedenti al 1990; ma nei giovani afro-americani è balzato a una percentuale incredibile, “13 volte” più alta di quella dei vent'anni precedenti (6).
Fra gli adolescenti la causa più comune di infermità è la malattia mentale. Sintomi più o meno gravi di depressione colpiscono fino a un terzo degli adolescenti; per le ragazze l'incidenza della depressione raddoppia durante la pubertà. La frequenza dei disturbi del comportamento alimentare nelle adolescenti si è innalzata vertiginosamente (7).
Infine, a meno che le cose cambino, le prospettive a lungo termine di sposarsi e di avere una vita matrimoniale serena e stabile si fanno per i ragazzi di oggi sempre più cupe ad ogni generazione. Come abbiamo visto nel capitolo 9, se durante gli anni Settanta e Ottanta la percentuale dei divorzi si aggirava intorno al 50 per cento, con l'ingresso negli anni Novanta la percentuale dei divorzi tra le nuove coppie di sposi induce a prevedere che su tre nuovi matrimoni, due finiranno con un divorzio.
Un malessere emozionale.
Queste allarmanti statistiche sono un po' come il canarino che i minatori mettono nelle miniere di carbone perché con la sua morte li avverta della mancanza di ossigeno. Al di là dei numeri, che fanno riflettere, la situazione difficile dei giovani di oggi si manifesta in maniera meno vistosa nei problemi quotidiani che non sono ancora esplosi in crisi aperte. Forse i dati maggiormente rivelatori - un segnale diretto della minore competenza emozionale - provengono da un campione nazionale di ragazzi americani, di età fra i sette e i sedici anni, utilizzato per paragonare la loro condizione emozionale a metà degli anni Settanta con quella alla fine degli anni Ottanta (8). In base alle valutazioni dei genitori e degli insegnanti, si è accertato un costante peggioramento. Nessun problema si è segnalato in maniera particolare, ma tutti gli indici sono peggiorati. In media i ragazzi hanno incontrato maggiori difficoltà in questi ambiti:
- “Chiusura in se stessi
o problemi sociali”: preferenza a restare soli; non comunicare;
rimuginare in silenzio; essere privi di energia; sentirsi infelici;
dipendere eccessivamente dagli altri.
- “Ansia e depressione”: essere soli; nutrire molte paure e preoccupazioni; avere il bisogno di essere perfetti; non sentirsi amati; sentirsi nervosi o tristi e depressi.
- “Difficoltà nell'attenzione e nella riflessione”: incapaci di fare attenzione o di restare seduti tranquilli; fantasticare a occhi aperti; agire senza riflettere; essere troppo nervosi per concentrarsi; avere risultati scolastici scadenti; incapacità di distogliere la mente da un pensiero fisso.
- “Delinquenza o aggressività”: frequentare ragazzi che si cacciano nei guai; mentire e imbrogliare; litigare spesso; trattare gli altri con cattiveria; pretendere attenzione; distruggere gli oggetti altrui; disobbedire a casa e a scuola; essere testardi e di umore mutevole; parlare troppo; prendere in giro gli altri in maniera eccessiva; avere un temperamento collerico.
Anche se nessuno di questi problemi, considerato isolatamente, suscita preoccupazione, preso insieme a tutti gli altri diventa il segnale di un cambiamento dell'atmosfera, di un nuovo tipo di tossicità che si infiltra e avvelena l'esperienza stessa dell'infanzia e dell'adolescenza, rivelando impressionanti lacune di competenza emozionale. Questo malessere sembra un prezzo che la vita moderna impone a tutti i ragazzi del mondo. Benché gli americani lamentino spesso situazioni particolarmente difficili se paragonate a quelle di altri paesi, studi condotti in tutto il mondo hanno riscontrato stime uguali o peggiori di quelle degli Usa. Per esempio, negli anni Ottanta, gli insegnanti e i genitori in Olanda, in Cina e in Germania hanno indicato per i propri ragazzi lo stesso grado di problemi che era stato riscontrato nei giovani americani nel 1976. In alcuni paesi, compresi l'Australia, la Francia e la Thailandia, i giovani si trovano in condizioni peggiori di quelle attuali negli Usa. Ma questo divario potrebbe non durare a lungo. Le forze più consistenti che spingono verso il basso la spirale della competenza emozionale sembrano acquistare più velocità negli Stati Uniti rispetto a molti altri paesi sviluppati (9).
Nessun ragazzo, ricco o povero, è esente dal rischio; siamo dinanzi a problemi universali che affliggono ogni gruppo etnico e razziale e ogni fascia di reddito. Pertanto, anche se i ragazzi poveri hanno gli indici più bassi per quanto riguarda le capacità emozionali, il loro tasso di deterioramento negli anni non è peggiore di quello dei figli del ceto medio o delle classi ricche; tutti mostrano la stessa costante caduta. In ogni strato sociale è anche triplicato il numero dei ragazzi che hanno ricevuto aiuto psicologico (forse un buon segno, poiché indica la maggior disponibilità di sostegno psicologico), come pure si è avuto quasi il raddoppiamento del numero di ragazzi con problemi emozionali tali da richiedere tale aiuto, ma che non ne hanno potuto usufruire (un brutto segno): da circa il 9 per cento nel 1976 al 18 per cento nel 1989.
Urie Bronfenbrenner, l'illustre studioso di psicologia evolutiva della Cornell University che ha istituito una ricerca comparata internazionale sul benessere dei ragazzi, afferma: “In assenza di buoni sistemi di supporto, le tensioni esterne sono diventate così grandi che persino famiglie solide si frantumano. La frenesia, l'instabilità e l'incongruenza della vita familiare quotidiana aumentano in ogni segmento sociale, compresa la fascia delle persone colte e benestanti. E' a rischio nientemeno che la prossima generazione, in particolare i maschi, i quali nella crescita sono particolarmente vulnerabili a forze negative come quelle provocate dagli effetti devastanti del divorzio, della povertà e della disoccupazione. La situazione dei ragazzi e delle famiglie americane è disperata come mai prima d'ora [...] Stiamo privando milioni di ragazzi della competenza e del carattere morale” (10).
Non è un fenomeno soltanto americano, ma globale, perché a livello mondiale la concorrenza economica tende a ridurre il costo del lavoro e ciò produce contraccolpi negativi sulle famiglie. Viviamo in tempi di famiglie finanziariamente in difficoltà, nelle quali entrambi i genitori lavorano per molte ore al giorno, cosicché i figli sono abbandonati a se stessi o sotto l'influsso costante della televisione; è un'epoca nella quale un numero maggiore di ragazzi cresce nella povertà, in cui la famiglia con un solo genitore sta diventando sempre più comune, in cui un numero sempre più alto di bambini viene lasciato in asili così mal gestiti che i bimbi si trovano a essere quasi completamente trascurati. Tutto questo comporta, anche per genitori ben intenzionati, la perdita di quei continui, impercettibili, rapporti con i figli nei quali si costruisce e si alimenta la competenza emozionale.
Se le famiglie non sono più in grado di fornire ai ragazzi una base solida per vivere, che cosa dobbiamo fare? Una valutazione più attenta della dinamica dei problemi specifici ci mostra come certe lacune nelle competenze sociali o emozionali producano gravi difficoltà e come misure correttive e preventive ben dirette possano mantenere sulla retta via un più alto numero di ragazzi.
Tenere a freno l'aggressività.
Nella mia scuola elementare il duro era Jimmy, un ragazzo che quando io ero in prima frequentava la quarta. Era il classico bambino che ti rubava i soldi per comprare la merenda, che ti prendeva la bicicletta, che ti metteva le mani addosso appena ti rivolgeva la parola. Jimmy era il tipico prepotente, che attaccava briga alla minima provocazione o affatto gratuitamente. Tutti ne avevamo paura e lo tenevamo a distanza. Tutti odiavano e temevano Jimmy; nessuno voleva giocare con lui. Era come se, dovunque lui andasse nel cortile della scuola, una guardia del corpo invisibile facesse allontanare gli altri bambini dalla sua strada.
Ragazzi come Jimmy sono chiaramente in difficoltà. Ma risulta meno ovvio che un'aggressività così manifesta in età infantile è il segno premonitore di difficoltà emozionali e di altro tipo che sorgeranno in avvenire. All'età di sedici anni Jimmy era già finito in carcere per aggressione. Molti studi hanno dimostrato che in ragazzi come lui l'aggressività infantile ha effetti duraturi per il resto della vita (11). Come abbiamo visto, le famiglie di bambini così aggressivi in genere sono composte da genitori che alternano la trascuratezza alle punizioni dure e imprevedibili: una condotta che, comprensibilmente, rende i piccoli inclini alla paranoia e pronti a dare battaglia.
Non tutti i ragazzi irascibili sono prepotenti; alcuni sono tipi isolati ed emarginati che reagiscono eccessivamente allo scherno o a ciò che essi percepiscono come un'offesa o un'ingiustizia. Ma il difetto percettivo comune a tutti questi ragazzi è che essi considerano offensivi gesti e atteggiamenti del tutto innocenti e immaginano che i coetanei siano nei loro confronti più ostili di quel che effettivamente sono. Ciò li porta a fraintendere come gesti minacciosi atti del tutto insignificanti - un contatto occasionale è visto come una vendetta - e ad attaccare per reazione. Ovviamente questo comportamento induce gli altri a evitarli, isolandoli ulteriormente. Questi ragazzi irascibili e isolati sono sensibilissimi a ingiustizie e a comportamenti scorretti nei propri confronti. In genere si considerano delle vittime e possono recitare un elenco di casi in cui, ad esempio, gli insegnanti li hanno incolpati di qualcosa, mentre in realtà erano innocenti. Un altro tratto comportamentale di questi ragazzi è che quando sono in preda all'ira conoscono un solo modo di reagire: l'attacco fisico.
Questi pregiudizi percettivi possono essere osservati in un esperimento nel quale ragazzi prepotenti e ragazzi più pacifici guardano insieme alcuni filmati. In uno, un ragazzo urta un coetaneo e a quest'ultimo cadono per terra i libri: altri ragazzi che assistono alla scena si mettono a sghignazzare. Quello a cui sono caduti i libri si arrabbia e cerca di colpire uno dei presenti sorpreso a ridere. Quando i ragazzi che hanno assistito al filmato ne parlano a proiezione conclusa, i prepotenti sono sempre pronti a giustificare il ragazzo che ha menato le mani. Ancor più rivelatore è il fatto che, quando, durante la discussione del filmato, i ragazzi devono valutare l'aggressività mostrata dai protagonisti del film, i prepotenti giudicano più combattivo il ragazzo che ha urtato il suo coetaneo e giustificano la rabbia di quest'ultimo e il suo scagliarsi contro coloro che assistevano sghignazzando (12).
Questi giudizi affrettati attestano una deformazione percettiva assai profonda in coloro che hanno un'aggressività elevata: essi agiscono presupponendo l'ostilità e la minaccia altrui e prestano troppo poca attenzione a ciò che effettivamente accade. Appena presumono di essere minacciati, passano all'azione. Per esempio, se un ragazzo aggressivo gioca a dama con un altro che muove una pedina quando non è il suo turno, egli interpreterà il gesto come un tentativo di “barare”, senza soffermarsi a capire se è stato un errore innocente. Egli presuppone malevolenza piuttosto che innocenza; la sua reazione è automaticamente ostile. Alla percezione automatica di un atto ostile è legata una risposta aggressiva altrettanto automatica. Invece di far notare all'altro ragazzo che ha commesso un errore, passerà subito alle accuse, alle grida e alle botte. E più questi giovanissimi si comportano così, più l'aggressione diventa per loro automatica e si restringono le alternative possibili, quali la cortesia o lo scherzo.
Ragazzi simili sono emotivamente vulnerabili nel senso che si alterano facilmente e si stizziscono più spesso degli altri e per ragioni più numerose; una volta in collera, la loro riflessione è offuscata e pertanto considerano ostili atti benevoli e ricadono nell'abitudine di reagire menando le mani (13).
Questi pregiudizi percettivi in merito alla presunta ostilità altrui sono già visibili nelle prime classi delle elementari. Anche se la maggior parte dei bambini, soprattutto dei maschi, è indisciplinata ai tempi dell'asilo e in prima elementare, i bambini più aggressivi sono coloro che neppure in seconda classe sono riusciti ad apprendere un minimo di autocontrollo. Mentre gli altri hanno cominciato a imparare a comporre i dissidi durante il gioco con la trattativa e il compromesso, i prepotenti si affidano sempre di più alla forza e agli sfoghi rabbiosi. Per questa loro condotta pagano un prezzo sociale: durante il gioco e la ricreazione, a sole due o tre ore dal primo contatto con un bambino prepotente, gli altri affermano già di averlo in antipatia (14).
Studi condotti in maniera da seguire i bambini dagli anni prescolari fino all'adolescenza rivelano che la metà di quelli che in prima elementare sono turbolenti, incapaci di andare d'accordo con gli altri, disobbedienti ai genitori e ribelli agli insegnanti, diventano delinquenti durante l'adolescenza (15). Ovviamente, non tutti i bambini aggressivi sono destinati in seguito a diventare violenti e criminali. Ma rispetto a tutti gli altri, essi sono quelli che corrono il rischio maggiore di commettere, una volta o l'altra, reati di violenza.
La deriva verso il crimine si manifesta assai precocemente nella vita di questi ragazzi. In un asilo di Montreal una valutazione dell'ostilità e della turbolenza dei bambini ha mostrato che i soggetti più aggressivi all'età di cinque anni, dai cinque agli otto anni dopo, ossia nella loro prima adolescenza, erano di gran lunga i più inclini a comportamenti delinquenziali. Di tre volte più alta rispetto agli altri ragazzi era la probabilità che ammettessero di aver picchiato qualcuno senza motivo, di aver rubato nei negozi, di aver usato un'arma in uno scontro, di aver derubato pezzi di un'automobile o di averla forzata, di essersi ubriacati, e tutto ciò prima di aver compiuto quattordici anni (16).
La via che tipicamente conduce alla violenza e alla criminalità inizia con bambini aggressivi e difficili da controllare in prima e seconda elementare (17). Solitamente, sin dai primi anni di scuola, la loro scarsa capacità di frenare gli impulsi incide sul basso rendimento scolastico e sul fatto che considerino se stessi “stupidi”: un giudizio che vedono confermato dall'essere confinati in classi differenziali (e benché bambini simili possano avere un tasso più elevato di “iperattività” o di difficoltà nell'apprendimento, ciò non vale affatto per tutti). I bambini che, all'atto di iniziare la scuola, hanno già appreso in famiglia uno stile “coercitivo” - cioè prepotente - sono anche considerati pessimi scolari dagli insegnanti, che devono impiegare troppo tempo nel disciplinarli. Il fatto che bambini simili siano naturalmente portati a trasgredire le regole della disciplina scolastica significa, agli occhi dell'insegnante, che sprecano tempo altrimenti utilizzabile nell'apprendimento; perciò il loro fallimento scolastico è solitamente già evidente sin dalla terza elementare. Anche se i ragazzi che imboccano una strada che li porterà alla delinquenza hanno in genere quozienti di intelligenza più bassi dei coetanei, un ruolo ancor più diretto è giocato dalla loro impulsività: a dieci anni l'impulsività è un fattore predittivo della successiva attitudine delinquenziale tre volte più importante del quoziente intellettivo (18).
In quarta o in quinta, questi bambini - ormai considerati prepotenti o semplicemente “difficili” - vengono respinti dai coetanei, fanno amicizia difficilmente o non la fanno affatto, e il loro rendimento scolastico è fallimentare. Sentendosi privi di amici, gravitano attorno ad altri emarginati sociali. Tra la quarta e la nona classe, si legano al loro gruppo di emarginati e si dedicano a un'esistenza di trasgressione della legge: rispetto agli altri coetanei, compiono assenze ingiustificate da scuola e assumono alcol e droga in proporzione cinque volte maggiore, con la massima punta di tali comportamenti anomali tra la settima e l'ottava classe. Negli anni della scuola media, a questi soggetti si associa un altro genere di “ritardati”, attratti dal loro stile trasgressivo; costoro sono spesso ragazzi più giovani, che a casa vengono abbandonati a se stessi e hanno cominciato da soli a frequentare la strada durante le elementari. Negli anni delle scuole superiori questo gruppo di emarginati abbandona in genere la scuola indirizzandosi verso la delinquenza, dedicandosi a reati minori come il taccheggio, il furto e lo spaccio di droga.
(Una differenza indicativa affiora tra i ragazzi e le ragazze in questo itinerario. Uno studio su bambine “cattive” di quarta - indisciplinate e non rispettose degli insegnanti, ma non emarginate dai coetanei - ha mostrato che alla fine delle scuole superiori il 40 per cento di loro aveva avuto un bambino [19]. Questo dato è tre volte più alto della media delle ragazze rimaste incinte che frequentavano la loro stessa scuola. In altri termini le adolescenti antisociali non diventano violente, ma hanno gravidanze premature.)
Ovviamente non c'è una strada unica che porta alla violenza e alla criminalità e sono molti i fattori che possono mettere a repentaglio un ragazzo: essere nato in un quartiere ad alto tasso di criminalità, dove i giovanissimi sono più esposti alla tentazione di compiere reati e atti di violenza, provenire da una famiglia sottoposta ad alti livelli di stress o vivere in povertà. Ma nessuno di tali fattori rende inevitabile una vita di criminalità e di violenza. A parità di essi, le forze psicologiche all'opera nei bambini aggressivi intensificano grandemente la probabilità che finiscano col diventare criminali violenti. Gerald Patterson, uno psicologo che ha seguito da vicino l'itinerario di centinaia di ragazzi fino al loro ingresso nella vita adulta, afferma: “Le azioni antisociali di un bambino di cinque anni possono essere il prototipo delle azioni di un adolescente delinquente” (20).
Una scuola per i prepotenti.
La “forma mentis” che i ragazzi aggressivi portano con sé durante la vita è tale da spingerli con certezza a finire nei guai. Uno studio su minorenni colpevoli di atti di violenza e su studenti liceali aggressivi ha mostrato in loro una mentalità comune: quando hanno problemi con qualcuno, immediatamente considerano l'altro come un antagonista e traggono affrettate conclusioni sulla sua ostilità nei loro confronti, senza cercare di informarsi meglio e senza provare a risolvere i problemi in maniera pacifica. Allo stesso tempo, non pensano alle possibili conseguenze negative di una soluzione violenta - in genere uno scontro fisico. Essi giustificano mentalmente la propria attitudine aggressiva con convinzioni quali “Picchiare qualcuno è giusto, se la rabbia ti fa diventare matto”; “Se ti sottrai a un combattimento tutti penseranno che sei un vigliacco”; “Chi viene picchiato duramente in realtà non soffre poi molto” (21).
Ma un aiuto tempestivo può mutare attitudini siffatte e può bloccare il percorso di un ragazzo verso la delinquenza; numerosi programmi sperimentali hanno avuto un certo successo nell'aiutare i ragazzi aggressivi a imparare a controllare la loro inclinazione antisociale prima che essa li conduca in guai seri. Uno di questi programmi, elaborato alla Duke University, si rivolgeva a bambini difficili e irascibili delle scuole elementari, proponendo periodi di addestramento di quaranta minuti l'uno due volte alla settimana, per una durata dalle sei alle dodici settimane. Ai bambini veniva insegnato, ad esempio, a considerare come alcuni segnali sociali da loro interpretati come ostili fossero in realtà neutrali o amichevoli. I ragazzi imparavano a mettersi nei panni degli altri loro coetanei, ad acquisire la percezione di come venivano considerati dagli altri bambini e di ciò che gli altri potevano aver pensato o sentito negli episodi e nei contatti che li avevano fatti inquietare così tanto. Ricevevano anche un addestramento diretto per il controllo della collera mediante la simulazione di episodi - ad esempio essere derisi - che nella realtà avrebbero potuto far loro perdere la pazienza. Una delle abilità principali per il controllo della collera consisteva nel sorvegliare i propri sentimenti, diventando consapevoli delle sensazioni corporee, come il rossore del viso e la tensione muscolare, che si verificano quando ci si arrabbia, nel considerare queste sensazioni come segnali di stop e nel riflettere sul da farsi invece di aggredire l'altro impulsivamente.
John Lochman, uno psicologo della Duke University che era stato tra coloro che avevano progettato questo programma, mi disse: “I bambini discutono di situazioni nelle quali si sono trovati di recente, come venire urtati nell'atrio della scuola quando pensano che il gesto sia stato fatto apposta per provocarli. Discutono di come avrebbero potuto affrontare la situazione. Ad esempio, uno di loro ha detto di essersi limitato a fissare chi lo aveva urtato, di avergli detto di non farlo più e di essersi allontanato. Questa condotta lo aveva messo nella posizione di esercitare un certo controllo e di mantenere l'autostima senza iniziare uno scontro”.
Queste proposte di autocontrollo vengono accolte con favore. Molti bambini aggressivi sono infatti scontenti di arrabbiarsi così facilmente e perciò sono propensi a imparare l'autocontrollo. Ovviamente, quando cadono in preda alla collera, reazioni così fredde come allontanarsi o contare fino a dieci per far scemare l'impulso a reagire battendosi, non vengono automatiche; i ragazzi imparano a praticare queste alternative recitando scenette come quella di salire su un autobus dove altri ragazzi cominciano a prenderli in giro. In questo modo possono cercare di escogitare reazioni amichevoli che consentano loro di mantenere la propria dignità senza essere costretti a fare a botte, a piangere o a fuggire pieni di vergogna.
Tre anni dopo aver iniziato l'addestramento, Lochman ha paragonato questi ragazzi ad altri che erano stati altrettanto aggressivi, ma non avevano usufruito delle lezioni per il controllo dell'irascibilità. Scoprì che, nell'adolescenza, i ragazzi che avevano seguito il programma di autocontrollo erano molto meno turbolenti in classe, nutrivano sentimenti più positivi verso se stessi, e avevano minori probabilità di bere e di drogarsi. Più a lungo avevano seguito il programma, meno aggressivi erano diventati da adolescenti.
Prevenire la depressione.
“Dana, sedicenne, era sempre andata d'accordo con gli altri. Ma ora, all'improvviso, non riusciva più ad avere buoni rapporti con le sue amiche e, cosa che la turbava ancor di più, non riusciva a restare legata a un ragazzo, anche se ci andava a letto. Di umor nero e con una sensazione costante di stanchezza, Dana perse interesse al mangiare e a qualunque forma di divertimento; disse che si sentiva disperata e incapace di fare qualcosa per uscire da quello stato d'animo e che stava pensando al suicidio.Il precipitare nella depressione era stato provocato dall'ultima rottura con un ragazzo. Dana riferì che non sapeva come uscire con un ragazzo senza avere subito rapporti sessuali - anche se questo la faceva sentire a disagio - e che non sapeva porre termine a una relazione anche se era insoddisfacente. Andava a letto con i ragazzi, quando tutto ciò che voleva veramente era di conoscerli meglio.Si era appena trasferita in una nuova scuola e si sentiva timida e apprensiva nel fare amicizia con le ragazze nel nuovo ambiente. Per esempio, si asteneva dall'iniziare una conversazione e si limitava solo a rispondere quando qualcun'altra le rivolgeva la parola. Si sentiva incapace di comunicare agli altri ciò che provava e le sembrava persino di non saper dire nulla dopo un banale: “Ciao, come stai?”” (22).
Dana seguì a scopo terapeutico un programma sperimentale per adolescenti depressi alla Columbia University. Il trattamento mirava ad aiutarla a migliorare la propria vita di relazione: come sviluppare un'amicizia, come sentirsi più sicura di sé con i coetanei, come imporre limiti all'intimità sessuale, come costruire un rapporto intimo, come esprimere i propri sentimenti. In sostanza si trattava di un addestramento volto a recuperare alcune delle più basilari abilità emozionali. Funzionò: la sua depressione scomparve.
Le difficoltà della vita di relazione, in particolare nei giovani, sono un fattore che scatena la depressione. Spesso le difficoltà nascono nel rapporto dei ragazzi con i genitori, come pure in quello con i coetanei. Spesso i bambini e gli adolescenti depressi non sono capaci - o non sono disposti - a parlare della loro tristezza. Non sembrano in grado di definire con accuratezza i propri sentimenti e manifestano invece sorda irritazione, impazienza, nervosismo e rabbia, soprattutto verso i genitori. Di conseguenza un tale comportamento rende più difficile per i genitori offrire loro quel sostegno emotivo e quella guida di cui ha necessità il ragazzo depresso. Si innesca perciò una spirale discendente che in genere porta a discussioni continue e a una sempre maggiore estraniazione.
Un nuovo esame delle cause della depressione nei giovani evidenzia lacune in due aree di competenza emozionale: da un lato, le abilità relazionali, e dall'altro un modo di interpretare gli insuccessi che favorisce la depressione. Anche se la predisposizione alla depressione è quasi certamente in parte di natura genetica, per altri versi essa sembra derivare da modi di pensare pessimistici che, pur essendo correggibili, inducono i bambini a reagire alle piccole sconfitte della vita - un brutto voto, le discussioni con i genitori, un rifiuto sociale - deprimendosi. Sembra inoltre che la predisposizione alla depressione, quali che ne siano le basi, si stia diffondendo sempre più largamente tra i giovani.
Un costo della modernità: la crescita della depressione.
Questi anni di fine millennio ci introducono a un'Epoca di Malinconia, così come il Ventesimo secolo è stato un'Epoca di Ansia. I dati internazionali mostrano quella che appare una moderna epidemia di depressione, che si diffonde ovunque a causa dell'adozione, in tutto il mondo, degli stili di vita moderni. Su scala mondiale, tutte le generazioni susseguitesi dall'inizio del secolo hanno conosciuto un rischio maggiore rispetto a quello dei genitori di soffrire, nel corso della vita, di una depressione seria, che non è semplicemente una condizione di tristezza, ma è apatia, abbattimento, autocommiserazione paralizzante e senso di disperazione schiacciante (23). E gli episodi depressivi si presentano in età sempre più giovane. La depressione infantile, un tempo quasi sconosciuta (o, almeno, non riconosciuta) si affaccia come un tratto costante dello scenario attuale.
Anche se la probabilità della depressione aumenta con l'età, gli incrementi maggiori riguardano i giovani. Per i nati dopo il 1955, la probabilità di soffrire di una grave depressione a un certo momento della vita è, in molti paesi, tre volte o più alta di quella dei loro nonni. Fra gli americani nati prima del 1905, la percentuale di coloro che nell'arco della vita hanno sofferto di una grave depressione era solo dell'1 per cento; per i nati dopo il 1955, all'età di ventiquattro anni circa, il 6 per cento era depresso. Per i nati fra il 1945 e il 1954, le possibilità di aver avuto una depressione grave prima del trentaquattresimo anno di età sono dieci volte maggiori che per i nati fra il 1905 e il 1914 (24). E per ogni generazione l'insorgenza di un primo episodio depressivo si è verificata in età sempre più bassa.
Uno studio mondiale condotto su più di 39 mila persone ha rilevato la stessa tendenza in paesi tra loro diversissimi come Porto Rico, il Canada, l'Italia, la Germania, la Francia, Taiwan, il Libano e la Nuova Zelanda. A Beirut la crescita della depressione ha seguito da vicino gli eventi politici: le tendenze al rialzo hanno conosciuto una brusca impennata durante la guerra civile. In Germania, la percentuale di depressione all'età di 35 anni per i nati prima del 1914 è del 4 per cento, mentre per i nati nel decennio antecedente al 1944 è del 14 per cento. A livello mondiale, le generazioni che hanno raggiunto la maggiore età in tempi di turbamenti politici, hanno avuto tassi più elevati di depressione, anche se la tendenza complessiva al rialzo è indipendente da ogni avvenimento politico.
Anche l'abbassamento dell'età in cui si hanno le prime esperienze depressive sembra una tendenza mondiale. Quando ho chiesto agli esperti di formulare un'ipotesi sulle cause, ho raccolto numerose teorie.
Il dottor Frederick Goodwin, allora direttore del National Institute of Mental Health, ha ipotizzato: “C'è stata una tremenda erosione dei nuclei familiari, un raddoppiamento della percentuale dei divorzi, un calo del tempo che i genitori dedicano ai figli e un aumento della mobilità. Non si cresce più all'interno di una famiglia allargata. La perdita di queste fonti stabili di autoidentificazione comporta una maggiore suscettibilità alla depressione”.
Il dottor David Kupfer, titolare del corso di psichiatria alla facoltà di medicina dell'Università di Pittsburgh, ha sottolineato un'altra tendenza: “Con la diffusione dell'industrializzazione dopo la seconda guerra mondiale, in un certo senso nessuno si è più trovato a casa sua. In un numero sempre più alto di famiglie c'è stato un aumento dell'indifferenza dei genitori verso i bisogni dei figli durante la loro crescita. Questa non è una causa diretta della depressione, ma provoca una condizione di vulnerabilità. Fattori precoci di stress emotivo possono incidere sullo sviluppo nervoso e ciò può portare a una depressione anche molti decenni dopo, quando ci si trovi in una situazione di grande stress”.
Martin Seligman, psicologo dell'Università della Pennsylvania, ha proposto questa teoria: “Negli ultimi trenta o quarant'anni abbiamo assistito alla crescita dell'individualismo e a un declino delle più diffuse credenze religiose e dei sostegni offerti dalla comunità e dalla famiglia allargata. Questo significa una perdita delle risorse che possono proteggere dalle sconfitte e dai fallimenti. Nella misura in cui si considera un fallimento qualcosa di durevole, e lo si ingigantisce come se rovinasse tutta la propria vita, si è inclini a fare di una sconfitta temporanea una fonte duratura di disperazione. Ma se si possiede una prospettiva più ampia, ad esempio se si crede in Dio e nell'al di là, la perdita del lavoro verrà considerata solo una sconfitta temporanea”.
Quale che ne sia la causa, la depressione nei giovani è un problema pressante. Negli Stati Uniti, le stime del numero di bambini e adolescenti depressi in un determinato anno sono molto varie, al contrario di quelle che concernono la loro vulnerabilità nell'arco dell'intera vita. Tali studi epidemiologici, che ricorrono a criteri rigorosi - i sintomi considerati nella diagnostica ufficiale della depressione -, hanno scoperto che per ragazzi e ragazze fra i dieci e i tredici anni la percentuale di incidenza di depressione grave nel corso di un anno si aggira sull'8-9 per cento, anche se altri studi la dimezzano (e in alcuni studi essa scende al 2 per cento). Alcuni dati suggeriscono che nella pubertà la percentuale raddoppia per i soggetti di sesso femminile; fino al 16 per cento delle ragazze fra i quattordici e i sedici anni soffrono di una crisi depressiva, mentre il valore resta immutato per i ragazzi (25).
Il decorso della depressione nei giovani.
Il fatto che nei giovanissimi la depressione non dovrebbe soltanto essere curata, ma prevenuta, risulta evidente da una scoperta allarmante: episodi depressivi anche lievi nel bambino possono essere il segno premonitore di crisi più gravi nella vita adulta (26). Questo smentisce la vecchia tesi secondo la quale la depressione infantile non avrebbe conseguenze importanti a lungo termine, visto che i bambini la supererebbero con lo sviluppo. Ovviamente di tanto in tanto ogni ragazzo diventa triste; l'infanzia e l'adolescenza sono, come l'età adulta, periodi di delusioni occasionali e di perdite grandi o piccole con le conseguenti sofferenze. La necessità di una prevenzione non riguarda questi casi, ma i bambini che vengono precipitati dalla tristezza in una spirale di incupimento che li lascia disperati, irritabili e chiusi in se stessi, in preda a una malinconia molto grave.
Fra i giovanissimi la cui depressione era abbastanza grave da rendere consigliabile un trattamento terapeutico, tre quarti hanno conosciuto un episodio successivo di depressione grave, secondo i dati raccolti da Maria Kovacs, una psicologa del Western Psychiatric Institute and Clinic di Pittsburgh (27). La Kovacs ha studiato i bambini ai quali era stata diagnosticata una depressione all'età di otto anni, valutandoli costantemente a distanza di pochi anni finché alcuni raggiunsero i ventiquattro.
I bambini affetti da depressione grave soffrirono in media di episodi della durata di circa undici mesi, anche se in un caso ogni sei la depressione si protrasse per diciotto mesi. La depressione lieve, iniziata in alcuni bambini già all'età di cinque anni, produceva menomazioni minori ma durava assai più a lungo, in media circa quattro anni. Kovacs ha scoperto che i bambini che hanno sofferto di una depressione lieve hanno maggiori probabilità che essa si intensifichi trasformandosi in una depressione grave: la cosiddetta doppia depressione. Coloro che sviluppano una doppia depressione sono molto più inclini a soffrire di ricorrenti episodi depressivi col passare degli anni. Quando i bambini che hanno avuto un episodio depressivo diventano adolescenti e adulti, soffrono di depressione o di disturbi maniaco-depressivi, in media, un anno ogni tre.
Il prezzo pagato dai giovanissimi va oltre la sofferenza causata dalla depressione in se stessa; la Kovacs mi ha detto: “I ragazzi imparano le abilità sociali (per esempio, che cosa fare se vuoi qualcosa e non riesci ad averla) nei rapporti con i coetanei: osservando come gli altri affrontano una situazione simile e cercando di emularli. Ma i ragazzi depressi hanno forti probabilità di essere tra gli alunni più trascurati della scuola, quelli con i quali i compagni non giocano molto” (28).
L'umor nero o la tristezza provata da questi bambini li induce a evitare di inaugurare contatti sociali e a distogliere lo sguardo quando un altro bambino cerca di stabilire un contatto con loro: un segnale sociale che l'altro interpreta come un rifiuto. Il risultato conclusivo è che i bambini depressi finiscono per essere quelli rifiutati o trascurati nel gioco e nella ricreazione. Questa lacuna nella loro esperienza interpersonale significa che a loro viene a mancare ciò che normalmente apprenderebbero nelle baruffe di gioco: una carenza che può renderli ritardati dal punto di vista sociale ed emozionale, creando un lungo distacco che dovrà essere recuperato una volta superata la depressione (29). Infatti, quando i ragazzi depressi sono stati confrontati a quelli che non hanno sofferto di depressione, si sono rivelati socialmente più disadattati, con meno amici, meno preferiti come compagni di gioco, meno simpatici e più a disagio nei rapporti con i coetanei.
Un altro prezzo pagato da questi giovanissimi è lo scarso rendimento scolastico; la depressione interferisce con la memoria e la concentrazione e rende più difficile prestare attenzione in classe e tenere a mente ciò che si è appreso. Per un ragazzo che non prova piacere in niente sarà faticoso radunare le energie necessarie a capire a fondo lezioni impegnative, anche perché difficilmente sarà dotato della capacità di apprendere con facilità. Comprensibilmente, più a lungo rimanevano depressi i ragazzi studiati dalla Kovacs, meno buoni erano i loro voti e più scadenti i loro risultati nelle verifiche scolastiche. In effetti si manifestò una correlazione positiva tra la durata della depressione di un bambino e i voti scolastici, con un costante calo di rendimento nel corso dell'episodio depressivo. Ovviamente, le difficoltà scolastiche peggiorano la depressione. Osserva la Kovacs: “Immagina di sentirti già depresso e poi di lasciare la scuola in seguito ai risultati sempre più scadenti finendo per restare seduto a casa da solo invece di giocare con gli altri ragazzi”.
Modi di pensare che ingenerano la depressione.
Proprio come accade negli adulti, un modo pessimistico di interpretare le sconfitte della vita sembra alimentare il senso di incapacità e di disperazione al centro della depressione infantile. E' noto da tempo che le persone già depresse hanno questo modo di pensare. Ciò che è emerso solo recentemente è che invece i ragazzi più inclini alla malinconia mostrano una tendenza verso questa visione pessimistica ancor prima di diventare depressi. Questa osservazione suggerisce la possibilità di “vaccinarli” contro la depressione prima che la malattia esploda.
Una prova del nesso esistente tra depressione e visione pessimistica della vita proviene dagli studi sulle opinioni che i giovanissimi hanno della propria capacità di controllare ciò che accade nella propria vita, ad esempio riuscire a modificare per il meglio la propria situazione. Questa capacità si esprime in valutazioni di se stessi del tipo: “Quando ho problemi a casa sono più bravo della maggior parte dei ragazzi nel contribuire a risolverli” e “Quando studio molto, ottengo buoni voti”. I ragazzi che affermano che nessuna di queste descrizioni positive corrisponde alla loro condizione non credono di poter fare qualcosa per migliorare le cose; questo senso di impotenza è maggiore nei giovani più depressi (30).
Uno studio rivelatore ha esaminato alunni della quinta e sesta classe delle elementari nei pochi giorni successivi alla consegna delle pagelle. Come tutti ricordiamo, le pagelle sono una delle maggiori fonti di esultanza e di disperazione durante l'infanzia. I ricercatori hanno constatato una correlazione assai marcata tra la depressione e il modo in cui i bambini valutano se stessi quando ricevono un voto peggiore di quello atteso. Quelli che attribuiscono il brutto voto a un difetto personale (“Sono stupido”) si sentono più depressi di quelli che lo mettono in relazione a qualcosa che essi potrebbero modificare (“Se studio di più matematica, prenderò un voto più alto”) (31).
I ricercatori hanno identificato un gruppo di alunni di terza, quarta e quinta classe rifiutati dai compagni di classe e hanno seguito le vicende di quelli che hanno continuato a restare emarginati l'anno seguente. Il modo in cui i bambini spiegavano il rifiuto subìto sembrava di importanza cruciale ai fini della loro depressione. Quelli che consideravano il rifiuto come conseguenza di qualche loro difetto si deprimevano maggiormente. Ma gli ottimisti, che sentivano di poter fare qualcosa per cambiare in meglio le cose, non erano particolarmente depressi nonostante il persistente rifiuto (32). In uno studio sui giovanissimi impegnati nel passaggio notoriamente difficile alla settima classe, quelli con un'attitudine pessimistica rispondevano alle accresciute difficoltà scolastiche e a ogni tensione familiare aggiuntiva diventando depressi (33).
La prova più diretta del fatto che una visione pessimistica rende i giovanissimi altamente suscettibili alla depressione proviene da uno studio durato cinque anni su bambini osservati a partire dalla terza classe (34). Fra i più piccoli, il fattore predittivo più forte della futura depressione era una visione pessimistica della vita abbinata a un grave trauma (come il divorzio dei genitori o la morte di un familiare) che aveva lasciato il bambino sconvolto e disorientato e, presumibilmente, i genitori meno capaci di sostenerlo nella crescita. Progredendo nella scuola elementare, il modo di pensare dei bambini sui fatti positivi o negativi della loro vita, andò mutando, mostrando una sempre maggior disponibilità ad attribuirli ai tratti della propria personalità: “Prendo buoni voti perché sono intelligente”; “Non ho molti amici perché non sono divertente”. Questo mutamento pare svilupparsi gradualmente dalla terza alla quinta classe. Mentre ciò avviene, i bambini che maturano una visione pessimistica - attribuendo i propri insuccessi a qualche difetto irrimediabile di se stessi - cominciano a cadere in preda a stati d'animo depressi in risposta agli insuccessi. Cosa ancor peggiore, la stessa esperienza della depressione sembra rafforzare questi modi di pensare pessimistici, cosicché, anche dopo la scomparsa della depressione, il ragazzo rimane segnato da quella che potremmo definire una cicatrice emozionale, ossia da un insieme di convinzioni alimentate dalla depressione e solidificatesi nella mente - non sono in grado di andare bene a scuola, non sono simpatico, non posso far nulla per sfuggire ai miei cupi pensieri. Queste fissazioni possono rendere il bambino ancor più vulnerabile a un'altra crisi depressiva in futuro.
Mandare la depressione in corto circuito.
Una buona notizia: sembra proprio che insegnando ai ragazzi alcuni modi più produttivi di guardare alle proprie difficoltà abbassi il rischio di depressione (nota*). In uno studio su una scuola superiore dell'Oregon, circa uno studente su quattro era affetto da ciò che gli psicologi definiscono una “depressione di basso livello” - non abbastanza grave, cioè, da poter dire che superasse una normale infelicità (35). Alcuni di questi studenti potevano forse trovarsi nelle prime settimane o nei primi mesi di quella che sarebbe diventata una vera e propria depressione.
In una classe speciale del doposcuola 75 studenti affetti da questa blanda depressione impararono ad affrontare gli schemi di pensiero associati con la depressione, a migliorare la propria abilità nel fare amicizie, a migliorare i rapporti con i genitori e a intraprendere più attività sociali ritenute piacevoli. Al termine di questo programma, della durata di otto settimane, il 55 per cento degli studenti si era ristabilito; fra gli studenti che non avevano seguito il programma, invece, soltanto un quarto di soggetti aveva cominciato a uscire dalla depressione. Un anno dopo, un quarto degli studenti appartenenti a questo gruppo di controllo era caduto in preda a una depressione grave, mentre la stessa evoluzione si era verificata solamente nel 14 per cento degli studenti impegnati nel programma di prevenzione. Anche se questo programma era stato svolto in sole otto sedute, sembrava aver ridotto di metà il rischio della depressione (36).
Risultati altrettanto promettenti erano venuti da una classe speciale di ragazzi dai dieci ai tredici anni che avevano difficoltà con i genitori e mostravano alcuni sintomi depressivi. Questa classe aveva seguito, durante il doposcuola, una lezione settimanale nel corso della quale aveva appreso abilità emozionali fondamentali, come affrontare i contrasti, pensare prima di agire, e - forse l'abilità più importante - affrontare il pessimismo associato alla depressione; per esempio, decidere di studiare di più dopo aver riportato brutti voti in un compito, invece di pensare: “Non sono abbastanza intelligente”.
“Un ragazzo impara in queste lezioni che stati d'animo come l'ansia, la tristezza e la rabbia non calano su di te senza che tu possa esercitare alcun controllo su di essi, ma che invece tu puoi cambiare il modo in cui ti senti attraverso ciò che pensi”, rileva lo psicologo Martin Seligman, uno dei promotori del programma durato dodici settimane. Poiché mettere in discussione i pensieri deprimenti sconfigge la tristezza che incombe sull'anima, Seligman aggiunse che tale tecnica “è un corroborante istantaneo che diventa un'abitudine”.
Anche in questo caso le lezioni speciali abbassarono di metà il tasso di depressione e questo risultato si protrasse per due anni. Un anno dopo la fine del programma, solo l'8 per cento dei partecipanti al corso risultò affetto da una depressione moderata o grave, rispetto al 29 per cento di ragazzi di un gruppo di controllo. E dopo due anni, circa il 20 per cento di coloro che avevano seguito il corso mostrava alcuni sintomi di una blanda depressione quanto meno blanda, che era emersa invece nel 44 per cento del gruppo di controllo.
Apprendere queste abilità emozionali al culmine dell'adolescenza può essere particolarmente utile. Seligman osserva: “Questi ragazzi sembrano saper affrontare meglio le consuete sofferenze adolescenziali dovute ai rifiuti. Sembrano aver imparato questa abilità in un momento cruciale per il rischio di ammalarsi di depressione, proprio mentre fanno il loro ingresso nell'adolescenza. E la lezione appresa sembra persistere e rafforzarsi nel corso degli anni, indicando che essi la stanno effettivamente mettendo in pratica nella loro vita quotidiana”.
Altri esperti di depressione infantile plaudono a questi nuovi programmi. “Se si vuol fare davvero qualcosa di utile per malattie psichiatriche come la depressione, bisogna agire prima che i bambini si ammalino la prima volta” osservò la Kovacs. “La vera soluzione è una 'vaccinazione' psicologica.”
NOTA * Nei bambini, diversamente dagli adulti, l'assunzione di farmaci non rappresenta nel trattamento della depressione una chiara alternativa alla psicoterapia o all'educazione preventiva; infatti i bambini metabolizzano i farmaci diversamente dagli adulti. Gli antidepressivi triciclici, che spesso hanno successo con gli adulti, secondo studi specifici nei bambini non si sono dimostrati migliori di un placebo farmacologicamente inattivo. Nuovi antidepressivi, inclusa la fluoxetina, non sono stati ancora sperimentati per l'impiego sui bambini. La desipramina, uno dei triciclici più comuni e più sicuri impiegati per gli adulti, all'epoca in cui scrivo è oggetto di un severo esame da parte della Food and Drug Administration come possibile causa di morte nei bambini.