6. 

INTELLIGENZA EMOTIVA: UNA CAPACITA' FONDAMENTALE. 




“Solo una volta, in tutta la mia vita, mi è capitato di essere paralizzato dalla paura. Avvenne al primo anno di università durante un esame di calcolo, per il quale non avevo aperto libro. Ricordo ancora l'aula verso la quale mi stavo dirigendo, quella mattina di primavera, con il cuore appesantito dai cattivi presentimenti. Quella mattina, però, non vedevo nulla dalle finestre, e in effetti non vedevo nemmeno l'aula nella quale avevo seguito vari corsi. Mentre trovavo posto proprio vicino alla porta, tenevo lo sguardo fisso su una macchia del pavimento di fronte a me. Non appena aprii il fascicolo con la copertina blu contenente le domande del test, sentii il cuore pulsarmi nelle orecchie e in fondo allo stomaco il sapore dell'angoscia. 

Diedi un'unica occhiata veloce alle domande. Senza speranza. Per un'ora fissai quella pagina, mentre la mia mente correva alle inevitabili conseguenze. Gli stessi pensieri si ripetevano all'infinito, una sequenza interminabile di paura e tremore. Sedevo immobile, come un animale paralizzato dal curaro a metà di un movimento. Quello che mi colpisce di più nel ricordo di quel momento di terrore è il pensiero di come fosse soggiogata la mia mente. Non passai quell'ora nel disperato tentativo di mettere insieme qualcosa che potesse avere una vaga sembianza di soluzione. Non sognavo a occhi aperti. Me ne stavo semplicemente lì seduto a contemplare il mio terrore, aspettando che quel supplizio finisse” (1). 


Il racconto di quell'ora d'angoscia è mio, e fino a oggi esso rappresenta per me la prova più convincente dell'impatto devastante che la sofferenza psicologica può avere sulla lucidità mentale. Ora mi rendo conto che il mio tormento molto probabilmente stava a testimoniare la capacità del cervello emozionale di prendere il sopravvento sul cervello razionale - addirittura, la sua capacità di paralizzarlo. 

Gli insegnanti sanno benissimo quanto i turbamenti emotivi interferiscano con la vita mentale. Quando sono ansiosi, adirati o depressi gli studenti non imparano; chi si trova in questi stati d'animo non assorbe informazioni né è in grado di applicarle proficuamente. Come abbiamo visto nel capitolo 5, quando sono forti, le emozioni negative dirottano l'attenzione dell'individuo sulle proprie preoccupazioni, interferendo con i suoi eventuali tentativi di concentrarsi su qualcos'altro. In verità, il fatto che i sentimenti diventino talmente invadenti e molesti da sopraffare tutti gli altri pensieri, sabotando continuamente ogni tentativo di prestare attenzione ad altri compiti contingenti, quali che siano, ci segnala che essi stanno sconfinando nel patologico. Nell'individuo che sta vivendo un divorzio lacerante o nel figlio di una coppia che stia facendo quell'esperienza - la mente non si sofferma a lungo sulla quotidiana routine lavorativa o scolastica, che al confronto appare banale; nel paziente clinicamente depresso, i pensieri di autocommiserazione e disperazione, la mancanza di speranza e il senso di impotenza hanno la precedenza su tutti gli altri. 

Quando le emozioni sopraffanno la concentrazione, quel che viene effettivamente annientato è una capacità mentale che gli scienziati cognitivi chiamano “memoria di lavoro”, ossia l'abilità di tenere a mente tutte le informazioni rilevanti per portare a termine ciò a cui ci stiamo dedicando. La memoria di lavoro può essere occupata da informazioni banali come le cifre di un numero telefonico, o complesse come le fila di una trama intricata elaborata da un romanziere. Nella vita mentale, la memoria di lavoro è una funzione esecutiva per eccellenza, che rende possibili tutti gli altri sforzi intellettuali, dal pronunciare una frase ad affrontare una proposizione logica ingarbugliata (2). La memoria di lavoro ha sede nella corteccia prefrontale, che, ricorderete, è il luogo in cui si incontrano sensazioni ed emozioni (3). Quando i circuiti del sistema limbico che affluiscono alla corteccia prefrontale sono in preda alla sofferenza emotiva, a rimetterci è proprio l'efficienza della memoria di lavoro; in altri termini, non riusciamo più a pensare lucidamente, come ebbi io stesso a constatare durante il mio terrificante esame di calcolo. 

Passeremo ora invece a considerare l'effetto di una motivazione positiva - la prevalenza di sentimenti di entusiasmo, fervore e fiducia in se stessi - ai fini della realizzazione dei propri obiettivi. Studi condotti su atleti olimpionici, musicisti di fama mondiale e grandi maestri di scacchi hanno messo in evidenza che l'aspetto comune a tutti questi individui è la capacità di automotivarsi in modo da sopportare durissimi programmi di studio o allenamento (4). Si tenga presente, inoltre, che sempre più spesso questi programmi devono essere intrapresi fin dall'infanzia, visto che il grado di eccellenza richiesto per prestazioni a livello mondiale è sempre più elevato. Ai Giochi Olimpici del 1992, i tuffatori dodicenni della squadra cinese avevano al proprio attivo un numero di tuffi pari a quello degli atleti americani, che però avevano già passato i vent'anni: i tuffatori cinesi, infatti, si sottopongono ad allenamenti rigorosi fin dall'età di quattro anni. Allo stesso modo, i più grandi virtuosi di violino del nostro secolo hanno cominciato a studiare intorno ai cinque anni; e i campioni internazionali di scacchi vengono iniziati al gioco verso i sette anni, mentre quelli che si affermano solo a livello nazionale iniziano a dieci. Cominciare prima costituisce un vantaggio in termini di tempo: nella migliore accademia musicale di Berlino, gli allievi di violino più brillanti, tutti di età compresa fra i venti e i venticinque anni, avevano alle loro spalle diecimila ore di studio, mentre gli allievi di secondo livello ne avevano al proprio attivo circa settemilacinquecento. 

Probabilmente, il fattore che sembra discriminare gli individui che svolgono attività competitive ai massimi livelli dagli altri soggetti con abilità pressappoco simili, è proprio il fatto che i primi, fin da giovanissimi, riescono a sopportare anni e anni di addestramento durissimo. E tale ostinazione dipende soprattutto dai tratti emotivi della personalità, ad esempio dalla capacità di provare entusiasmo ed essere perseveranti, nonostante gli insuccessi. 

Senza contare le altre capacità innate, la gratificazione, in termini di successo nella vita, ottenuta grazie alla motivazione, appare evidente se si considerano le eccezionali prestazioni scolastiche e professionali degli studenti di origine asiatica che vivono in America. Un attento esame dei dati indica che questi soggetti hanno mediamente un Q.I. di appena due o tre punti superiore a quello dei bianchi (5). Tuttavia, stando alle professioni - avvocato e medico - che molti di essi intraprendono una volta diventati adulti, nel loro insieme si comportano come se avessero un Q.I. molto più alto - l'equivalente di 110 nel caso dei nippoamericani e di 120 in quello dei cinoamericani (6). A quanto pare, ciò è dovuto al fatto che, fin dai primi anni di scuola, i bambini asiatici si impegnano nello studio molto più dei bianchi. Sanford Dorenbusch, un sociologo di Stanford che ha esaminato più di diecimila studenti della scuola superiore, scoprì che quelli di origine asiatica dedicavano ai loro compiti un numero di ore superiore del 40 per cento rispetto agli altri. “Mentre la maggior parte dei genitori americani è disposta ad accettare i punti deboli del proprio figlio sottolineando invece le sue particolari abilità, nel caso dei genitori asiatici, l'atteggiamento mentale è questo: 'Se non vai bene, dovrai studiare qualche ora di più la sera, e se ancora questo non basta, vorrà dire che ti alzerai un po' prima la mattina'. Essi sono convinti che chiunque possa ottenere buoni risultati scolastici, purché si impegni a dovere.” In breve, una forte etica culturale del lavoro si traduce in motivazione, entusiasmo e perseveranza maggiori - in altre parole, in un vantaggio sul piano emotivo. 

Nella misura in cui le emozioni intralciano o potenziano le nostre capacità di pensare, di fare progetti, di risolvere problemi, di sottoporci a un addestramento in vista di un obiettivo lontano, e altre ancora, esse non fanno che definire i limiti della nostra capacità di usare abilità mentali innate, e pertanto determinano il nostro successo nella vita. Ancora, nella misura in cui le nostre azioni sono motivate da sentimenti di entusiasmo e di piacere - o anche da un grado ottimale di ansia - sono proprio tali sentimenti a spingerci verso la realizzazione. In questo senso, l'intelligenza emotiva è un'abilità fondamentale che influenza profondamente tutte le altre, di volta in volta facilitandone l'espressione, o interferendo con esse. 




Controllo degli impulsi: il test delle caramelle. 


Immaginate di avere quattro anni e che qualcuno vi faccia la seguente proposta: se aspetti che io ritorni da una commissione, avrai in premio due caramelle. Se non puoi aspettare, ne avrai solo una, ma subito. Si tratta di una sfida che mette alla prova qualunque bambino di quell'età e che riproduce su scala ridotta l'eterna battaglia fra impulso e repressione, id ed ego, desiderio e autocontrollo, gratificazione e rinvio. In queste condizioni, la scelta operata dal bambino è un valido test che offre una rapida interpretazione non solo del suo carattere, ma anche della traiettoria che egli probabilmente percorrerà nella sua vita. 

Forse non esiste una capacità psicologica più importante del saper resistere agli impulsi. Essa è alla base di ogni tipo di autocontrollo emotivo, poiché tutte le emozioni, per loro stessa natura, si traducono in un impulso ad agire. Ricorderete che il significato etimologico della parola “emozione” è “muovere”. A livello di funzione cerebrale, la capacità di resistere a quell'impulso, di bloccare il movimento incipiente, molto probabilmente si esprime nell'inibizione dei segnali inviati dal sistema limbico alla corteccia motrice, sebbene per adesso questa interpretazione resti ancora solo un'ipotesi. In ogni caso, in uno studio importante, bambini di quattro anni vennero sottoposti al test della caramella; i risultati ottenuti hanno dimostrato quanto sia fondamentale la capacità di reprimere le emozioni e di resistere all'impulso. Cominciato dallo psicologo Walter Mischel negli anni Sessanta presso una scuola materna del campus della Stanford University, lo studio arruolò principalmente bambini figli di docenti, studenti laureati e altri impiegati dell'università, che vennero seguiti dall'età di quattro anni fino al conseguimento del diploma di scuola media superiore (7). 

Alcuni di questi bambini di quattro anni riuscirono ad aspettare il ritorno dello sperimentatore, per quella che sicuramente dev'essere sembrata loro un'eternità - in realtà quindici-venti minuti. Per aiutarsi nella lotta, i bambini si coprivano gli occhi per non dover guardare l'oggetto della tentazione, oppure appoggiavano la testa sul braccio, parlando fra sé e sé, cantavano, giocavano con le mani o i piedi - qualcuno cercò perfino di mettersi a dormire. Questi coraggiosi bimbetti ottennero la ricompensa delle due caramelle. Ma altri, più impulsivi, afferrarono una caramella, quasi sempre dopo che lo sperimentatore aveva lasciato la stanza da pochi secondi per fare la sua “commissione”. 

Il fatto che le modalità con le quali i bambini gestivano l'impulso del momento avesse un notevole potere diagnostico, venne chiarito dodici-quattordici anni dopo, quando questi stessi bambini, ormai adolescenti, furono rintracciati. Le differenze, a livello emotivo e sociale, fra chi aveva afferrato subito la caramella e chi aveva saputo aspettare era evidentissima. 

I soggetti che all'età di quattro anni avevano resistito alla tentazione, da adolescenti dimostravano di possedere una maggiore competenza sociale: erano efficaci a livello personale, sicuri di sé e più capaci di tener testa alle frustrazioni della vita. Le probabilità che questi giovani andassero in pezzi, si paralizzassero o regredissero quando erano sottoposti a stress, o che si innervosissero o si disorganizzassero sotto pressione, erano inferiori; essi accettavano le sfide e perseguivano i propri obiettivi senza rinunciare nemmeno di fronte alle difficoltà; avevano fiducia in se stessi, ed erano a loro volta degni di fiducia; prendevano l'iniziativa e si immergevano nei progetti. Non solo: a distanza di più di dieci anni, questi adolescenti erano ancora capaci di perseguire i propri obiettivi, rinviando la gratificazione. I soggetti che a quattro anni non avevano resistito alla tentazione, che complessivamente ammontavano circa al 30 per cento del gruppo, tendevano però ad avere meno qualità di questo tipo, condividendo invece un profilo psicologico relativamente più inquieto. Durante l'adolescenza, era probabile che essi scansassero i contatti sociali a causa della timidezza; che fossero facilmente turbati dalle frustrazioni, testardi e indecisi; che pensassero a se stessi come “cattivi” o privi di valore; che regredissero o si paralizzassero di fronte allo stress; che fossero diffidenti e risentiti perché convinti di non “ottenere abbastanza”; ancora, era più probabile che questi giovani andassero soggetti alla gelosia e all'invidia e che reagissero all'irritazione in modo tagliente, innescando così liti e conflitti. Inoltre, nonostante fossero passati tutti quegli anni, essi erano ancora incapaci di rinviare le gratificazioni. 

Ciò che traspare in tono minore già nei primi stadi di crescita, con gli anni si sviluppa in una vasta gamma di competenze nella sfera emotiva e sociale. La capacità di frenare i propri impulsi è alla base di moltissimi sforzi dell'adulto, dal mettersi a dieta al prendere la laurea in medicina. Alcuni bambini, anche a soli quattro anni, erano già padroni delle fondamentali tecniche di quest'abilità: sapevano interpretare la situazione sociale, riconoscendo che in quel caso specifico il rinvio era conveniente; sapevano come distogliere l'attenzione dalla tentazione proprio lì di fronte a loro; e, infine, riuscivano a distrarsi senza abbandonare l'obiettivo che si erano prefissi - le due caramelle. 

Fatto ancora più sorprendente, quando i bambini del primo esperimento vennero nuovamente sottoposti a test, a distanza di anni, quando ormai adolescenti stavano terminando la scuola superiore, quelli che da piccoli avevano aspettato pazientemente si dimostrarono studenti di gran lunga superiori a quelli che dieci anni prima avevano agito spinti dal capriccio. Secondo le valutazioni dei loro genitori, essi erano più competenti sul piano scolastico: sapevano esprimere verbalmente le proprie idee in modo più chiaro, usavano il ragionamento, sapevano concentrarsi, fare progetti e attenersi ad essi ed erano anche più avidi di apprendere. Fatto assai sorprendente, nei test Sat essi ottenevano punteggi molto superiori. Gli adolescenti che da bambini avevano afferrato subito la caramella avevano un punteggio medio di 524 nell'area verbale e di 528 in quella “matematica”; un terzo del campione dei soggetti che avevano saputo aspettare più a lungo aveva, rispettivamente, punteggi medi di 610 e 652, con una differenza nel punteggio totale di ben 210 punti (8).

I risultati ottenuti dai bambini di quattro anni nel test sul rinvio della gratificazione costituiscono un fattore predittivo dei futuri punteggi Sat due volte più potente di quanto non sia, alla stessa età, il Q.I.; quest'ultimo diventa un fattore predittivo più potente solo dopo che i bambini hanno imparato a leggere (9). Questo indica che la capacità di rinviare la gratificazione contribuisce in modo importante e indipendente dallo stesso Q.I. al potenziale intellettuale dell'individuo. (Una scarsa capacità di controllare i propri impulsi nell'infanzia è anche un potente fattore predittivo della delinquenza in anni successivi, e anche in questo caso si rivela più efficace del Q.I.) (10). Come vedremo nella Quinta parte del libro, sebbene alcuni sostengano che il Q.I. sia immodificabile e che pertanto costituisca una limitazione insormontabile alle potenzialità del bambino, numerose prove dimostrano la possibilità di apprendere alcune abilità della sfera emotiva, quali ad esempio la capacità di controllare gli impulsi e di interpretare accuratamente una situazione sociale. 

Quella che Walter Mischel, autore dello studio, descrive con l'espressione alquanto infelice “rinvio della gratificazione autoimposto e diretto a un fine” è forse l'essenza stessa dell'autoregolazione delle emozioni; la capacità di negare l'impulso in vista e al servizio di un obiettivo, indipendentemente dal fatto che si tratti di fare un affare, di risolvere un'equazione algebrica o di aggiudicarsi la Stanley Cup. Questi risultati sottolineano il ruolo dell'intelligenza emotiva in quanto meta-abilità che determina la misura in cui gli individui sono in grado di usare le loro altre capacità mentali.