5. 

SCHIAVI DELLE PASSIONI. 




“Tu sei sempre stato uno che tutto sopportando nulla subisce: e con pari animo accoglie i favori e gli schiaffi della Fortuna [...] Mostrami un uomo che non sia schiavo delle passioni e me lo porterò chiuso nell'intimo del cuore, nel cuore del mio cuore, come ora te”. 


Amleto all'amico Orazio 

(William Shakespeare, “Amleto”, trad. it. di Cesare Vico Lodovici, Torino 1960). 



Una buona padronanza di sé - ossia la capacità di resistere alle tempeste emotive causate dalla sorte avversa, senza essere “schiavi delle passioni” - è una virtù elogiata fin dai tempi di Platone. L'antica parola greca che indicava questa qualità era “sophrosyne”, ossia, secondo la traduzione del grecista Page DuBois, “cura e intelligenza nel condurre la propria vita; misura, equilibrio e saggezza”. I Romani e i primi cristiani la chiamarono “temperantia” - temperanza - in altre parole, la identificavano con la capacità di frenare gli eccessi emozionali. In effetti, l'obiettivo della temperanza è l'equilibrio, non la soppressione delle emozioni: ogni sentimento ha il suo valore e il suo significato. Una vita senza passioni sarebbe come una landa desolata abitata solo dall'indifferenza - tagliata fuori, isolata e separata dalla ricchezza della vita stessa. Tuttavia, come ha osservato Aristotele, è importante che le emozioni siano “appropriate”, in altre parole che il sentimento sia proporzionato alla circostanza. Quando le emozioni sono troppo tenui, compaiono l'indifferenza e il distacco; ma quando sfuggono al controllo, diventando troppo estreme e persistenti, allora sono patologiche, come accade, ad esempio, quando siamo paralizzati dalla depressione, travolti dall'angoscia, oppure anche sopraffatti dalla collera furiosa o dall'agitazione maniacale. 

In verità, il saper controllare le proprie emozioni penose è la chiave del benessere psicologico; i sentimenti estremi - emozioni che diventano troppo intense o durano troppo a lungo - minano la nostra stabilità. Naturalmente, non sto dicendo che dovremmo provare un solo tipo di emozione; se avessimo un'espressione costantemente felice stampata sul volto, saremmo in qualche modo simili a quelle spillette con la faccia sorridente che ebbero un momento di grande popolarità negli anni Settanta, e comunicheremmo la stessa impressione di vacuità. Ci sarebbe molto da dire sul contributo costruttivo della sofferenza alla vita creativa e spirituale; il dolore può davvero temprare l'anima. 

I momenti difficili, come del resto anche quelli positivi, danno sapore alla vita, ma per farlo devono essere in equilibrio. Infatti, è il rapporto fra emozioni negative e positive che determina il senso di benessere psicologico - almeno stando a quanto è emerso da alcuni studi sugli stati d'animo condotti su centinaia di soggetti di entrambi i sessi; questi individui portavano con sé dei cicalini che ricordavano loro, suonando a caso, di registrare le emozioni che provavano in quel preciso istante (1). Non sto dicendo che per sentirsi contenti si debbano evitare i sentimenti spiacevoli; piuttosto, è importante che i sentimenti molto intensi non sfuggano al controllo, spazzando via tutti gli stati d'animo piacevoli. Le persone soggette a violenti episodi di collera o depressione possono ciò nonostante riuscire ancora a provare un senso di benessere se godono di momenti ugualmente felici o gioiosi che controbilanciano i sentimenti negativi. Questi studi hanno inoltre affermato l'indipendenza dell'intelligenza emotiva da quella scolastica, in quanto hanno rivelato la presenza di una correlazione scarsa o nulla fra le votazioni (o il Q.I.) e il benessere psicologico. 

Proprio come nella mente esiste un costante mormorio di fondo di pensieri, c'è anche un incessante rumore emozionale; se chiamate qualcuno alle sei di mattina o alle sette di sera, lo troverete sempre nell'uno o nell'altro stato d'animo. Naturalmente, se si prendono due mattine qualsiasi, una persona può trovarsi in stati d'animo molto diversi; ma quando si fa la media degli stati d'animo registrati nell'arco di intere settimane o anche di mesi, essi tendono a riflettere il senso di benessere generale di quella persona. Emerge così che nella maggior parte degli individui i sentimenti di estrema intensità sono relativamente rari e che la maggioranza di noi è compresa, sotto questo aspetto, in una grigia mediocrità animata solo da leggeri sussulti - una sorta di montagne russe emozionali. 

Ciò nonostante, il controllo delle proprie emozioni è come un lavoro a tempo pieno: molte delle nostre azioni - soprattutto nel tempo libero - non sono altro che tentativi di controllare i nostri stati d'animo. Tutto - dalla lettura di un romanzo al guardare la televisione, dalla scelta delle nostre attività a quella degli amici - ebbene, tutto questo può essere un modo per sentirci meglio. L'arte di tranquillizzare e confortare se stessi è una capacità fondamentale nella vita; alcuni teorici della psicoanalisi, come John Bowlby e D. W. Winnicott, la considerano come uno degli strumenti psichici più essenziali. Secondo la loro teoria, i bambini emozionalmente sani imparano a confortarsi da soli imitando le persone che si prendono normalmente cura di loro e diventando così meno vulnerabili alle tempeste scatenate dal cervello emozionale. 

Come abbiamo visto, la struttura delle connessioni cerebrali comporta che non possiamo assolutamente controllare in “quale” momento verremo travolti dalle emozioni, né “quale” emozione ci travolgerà. Tuttavia, possiamo, in una certa misura, controllare “la durata” dell'emozione. Il problema non esiste nel caso in cui le emozioni che ci pervadono - tristezza, preoccupazione o collera - siano all'acqua di rose; normalmente questi stati d'animo si risolvono col tempo e un poco di pazienza. Ma quando queste stesse emozioni sono molto intense e indugiano oltre misura, ecco che sfumano nei loro estremi corrispondenti, che sono sempre associati a sofferenza - si pensi all'ansia cronica, alla collera incontrollabile e alla depressione. Nei casi più gravi e refrattari, per attenuare questi stati d'animo sarà probabilmente necessario un trattamento farmacologico, la psicoterapia, o entrambi i tipi di intervento. 

In questi momenti, anche il saper riconoscere quando l'emozione è troppo intensa e prolungata perché la si possa dominare senza aiuto farmacologico può essere un segno della capacità di operare un certo controllo. Ad esempio, due terzi di coloro che soffrono di depressione maniacale non sono mai stati curati. Tuttavia, il litio e i farmaci più recenti possono interrompere quel ciclo caratteristico che vede l'alternarsi di fasi di depressione paralizzante a episodi maniacali: un ciclo in cui si mescolano esaltazione e grandiosità caotiche con irritazione e collera. Uno dei problemi di fondo, nel caso dei pazienti maniaco-depressivi, è che spesso, quando si trovano nella fase maniacale del ciclo, questi individui hanno una tale fiducia in se stessi da essere convinti di non aver alcun bisogno di aiuto - e questo nonostante le decisioni disastrose che prendono. In disturbi emozionali di tale gravità il trattamento con psicofarmaci è un valido strumento per migliorare la qualità della vita. 

Ma quando si tratta di vincere gli stati d'animo negativi più comuni, ecco che ci troviamo a combattere con i soli nostri mezzi che purtroppo non sono sempre efficaci - almeno stando alla conclusione cui è giunta Diane Tice, psicologa della Case Western Reserve University; ella chiese a più di quattrocento persone di entrambi i sessi quali strategie usassero per sfuggire agli stati d'animo negativi, e in che misura esse si fossero rivelate efficaci (2). 

In linea di principio, non tutti sono d'accordo nel premettere che i sentimenti negativi andrebbero modificati; Tice ha scoperto che il cinque per cento dei soggetti interrogati assumeva, rispetto agli stati d'animo, un atteggiamento da “purista”; costoro dissero di non aver mai cercato di modificare un proprio stato d'animo perché, secondo loro, tutte le emozioni sono “naturali” e dovrebbero essere vissute come si presentano, non importa quanto deprimenti possano essere. Poi, c'erano perfino quelli che cercavano regolarmente di calarsi in uno stato d'animo negativo per ragioni di ordine pratico: medici che dovevano assumere un aspetto di circostanza per poter dare cattive notizie ai propri pazienti; attivisti sociali che alimentavano il proprio risentimento contro l'ingiustizia per poterla meglio combattere; c'era perfino un giovane che raccontò di fomentare la propria collera per aiutare il fratello minore contro i compagni di gioco prepotenti. Alcune persone mostrarono di essere positivamente machiavelliche nel saper manipolare le proprie emozioni: si pensi, ad esempio, ai riscossori di crediti che lavoravano intenzionalmente sul proprio stato d'animo cercando di portarlo alla collera, in modo di essere il più duri possibili con i debitori (3). Ma a parte questo alimentare a bella posta emozioni spiacevoli - peraltro un fenomeno alquanto raro - quasi tutti gli interrogati si lamentavano di essere alla mercé dei propri stati d'animo. Le diverse strategie adottate per liberarsi delle emozioni negative erano decisamente varie. 




Anatomia della collera. 


Immaginate che, mentre state percorrendo la superstrada, un'altra auto vi tagli pericolosamente la strada a distanza di pochi metri. Supponiamo che il vostro pensiero immediato sia “Brutto figlio di puttana!”. Ai fini dell'evoluzione - della traiettoria - della vostra collera, è molto importante sapere se esso sia poi seguito da altri pensieri di risentimento e vendetta. “Avrebbe potuto venirmi addosso! Quel bastardo - non gliela farò passare liscia!” Mentre stringete la presa sul volante - che in questo momento è una sorta di surrogato della gola di quel tale - le nocche delle mani vi diventano bianche. Il vostro corpo è pronto a combattere - certo non si appresta alla fuga - e restate lì tremanti, con la fronte imperlata di sudore, il cuore che batte forte e i muscoli del volto contratti in una smorfia. Vorreste ucciderlo, quel tizio. Immaginate ora che, avendo evitato per miracolo la collisione con lui, abbiate rallentato l'andatura e che proprio in quel momento un'auto dietro di voi si metta a strombazzare: sareste sicuramente pronti ad esplodere di collera anche contro questo secondo automobilista. Meccanismi di questo tipo sono l'essenza dell'ipertensione, della guida spericolata e perfino delle sparatorie sulle strade. 

Confrontiamo la sequenza appena descritta, nella quale la collera va gradualmente montando, con un atteggiamento mentale più indulgente nei confronti dell'automobilista che vi ha tagliato la strada: “Può darsi che non mi abbia visto, o che avesse qualche buona ragione per guidare in modo così spericolato, forse stava portando qualcuno in ospedale”. Questo atteggiamento possibilista mitiga la collera con la compassione, o per lo meno con una certa apertura mentale, e questo le impedisce di aumentare ulteriormente diventando violenta. Aristotele ammoniva affinché la collera fosse sempre misurata e appropriata: il problema, infatti, sta nel fatto che essa molto spesso sfugge al nostro controllo. Benjamin Franklin lo disse molto bene: “La collera non è mai senza ragione, ma raramente ne ha una buona”. 

Ci sono, naturalmente, diversi tipi di collera. Probabilmente, l'amigdala è una delle fonti principali di quel tipo di rabbia improvvisa che proviamo nei confronti dell'automobilista la cui guida imprudente ha messo a repentaglio la nostra sicurezza. L'altro componente del circuito emozionale, la neocorteccia, molto probabilmente fomenta invece una collera più calcolata, ad esempio il desiderio di vendetta a sangue freddo o il senso di offesa di fronte alla slealtà o all'ingiustizia. Questo tipo di collera, più razionale, è quella che con maggiori probabilità, per usare le parole di Franklin, ha, o sembra avere, “buone ragioni”. 

Di tutti gli stati d'animo che la gente desidera evitare, la collera sembra essere il più ostinato; Tice ha scoperto che è quello più difficile da controllare. In effetti, fra tutte le emozioni negative, la collera è la più seduttiva; l'ipocrita monologo interiore che le fa da propellente, satura la mente sommergendola con le argomentazioni più convincenti per indurci a dare sfogo all'impulso. A differenza della tristezza, la collera è energizzante e a volte perfino tonificante; il suo potere seduttivo e persuasivo può di per se stesso spiegare come mai, su di essa, persistano idee tanto comuni: mi riferisco alla convinzione che la collera sia incontrollabile o che, comunque, non dovrebbe essere controllata, e che la soluzione migliore sia quella di sfogarla in una sorta di “catarsi”. Una concezione opposta, sorta forse per reazione al quadro cupo offerto da queste altre due, sostiene la possibilità di prevenire completamente questo sentimento. Ma un'attenta lettura dei risultati ottenuti dalla ricerca indica che tutti questi atteggiamenti, peraltro molto comuni, se non sono miti veri e propri, sono comunque frutto di malintesi (4). 

La sequenza di pensieri risentiti che alimentano la collera è anche, potenzialmente, un efficace meccanismo per disinnescarla, in primo luogo facendo vacillare le convinzioni che la fomentano. Quanto più a lungo rimuginiamo su ciò che ci ha fatto andare su tutte le furie, tanto più numerose sono le “buone ragioni” e le giustificazioni che riusciamo a inventare per giustificare la nostra collera. Le riflessioni cupe non fanno che attizzare il fuoco interiore: per gettarvi sopra dell'acqua, invece, occorre considerare le cose da una prospettiva diversa. Tice constatò che uno dei metodi più potenti per sedare la collera era quello di reinquadrare la situazione in termini più positivi. 


L'“ONDA” DELLA RABBIA. 


Questa constatazione ben si accorda con le conclusioni alle quali è giunto Dolf Zillmann, uno psicologo della Alabama University, che nel corso di una lunga serie di accurati esperimenti ha compiuto misure precise della collera e delle sue espressioni più violente (5). Date le radici fisiologiche di questa emozione, che affondano nella reazione di “combattimento o fuga”, la scoperta di Zillmann, secondo la quale uno dei suoi fattori scatenanti universali sarebbe la sensazione di trovarsi in pericolo, non ci sorprende. Il segnale di pericolo può venire non solo da una vera e propria minaccia fisica, ma anche, anzi più spesso, da una minaccia simbolica all'autostima o alla dignità della persona, ad esempio quando essa è trattata in modo ingiusto o sgarbato, insultata o umiliata o, ancora, quando vede frustrati i suoi tentativi di raggiungere uno scopo importante. Questa percezione di pericolo è il fattore innescante che scatena una tempesta nel sistema limbico, producendo un duplice effetto sul cervello. Parte di tale tempesta si traduce nel rilascio delle catecolamine, che inducono un'onda rapida ed episodica di energia; come dice Zillmann, quel tanto che basta per “una singola, energica, azione di combattimento o fuga”. Questa tempesta di energia dura qualche minuto, preparando l'organismo a un buon combattimento o a una fuga veloce, a seconda del modo in cui il cervello emozionale giudica la situazione contingente. 

Nel frattempo, la seconda reazione, guidata dall'amigdala e mediata dalle ghiandole surrenali, crea una condizione tonica di fondo che predispone all'azione e che dura molto più a lungo della tempesta di energia legata al rilascio delle catecolamine. Questo eccitamento corticosurrenale generalizzato può durare per ore e anche per giorni, con l'effetto di mantenere il cervello emozionale in uno stato di particolare attivazione e diventando così la base sulla quale è possibile innescare molto velocemente eventuali reazioni successive. In generale, questa condizione di innesco creata dall'attivazione corticosurrenale spiega come mai individui già provocati o irritati siano tanto inclini alla collera. Gli stress - di qualunque tipo essi siano - creano uno stato generale di attivazione corticosurrenale, abbassando così la soglia necessaria per innescare la collera. Ad esempio, un individuo che abbia avuto una giornata molto dura sul lavoro è particolarmente soggetto, una volta tornato a casa, ad andare su tutte le furie per qualcosa che in altre circostanze non arriverebbe a scatenare una simile reazione - come i bambini che fanno troppo rumore o mettono la casa a soqquadro. 

Zillmann arrivò a comprendere questi meccanismi della collera grazie ad accurate sperimentazioni. In uno dei suoi studi, ad esempio, egli si era precedentemente accordato con un assistente, il quale avrebbe dovuto provocare i partecipanti all'esperimento - tutti volontari, di entrambi i sessi - rivolgendo loro commenti sprezzanti. In seguito i volontari guardavano un film che poteva essere piacevole oppure tale da turbarli. Si dava poi loro la possibilità di vendicarsi dell'assistente villano, dando una valutazione su di lui che - stando a quanto si faceva loro credere - sarebbe stata usata per decidere se licenziarlo o meno. L'intensità del loro comportamento vendicativo era direttamente proporzionale al grado di attivazione indotto dal film che avevano appena visto; dopo il film spiacevole i volontari erano molto più risentiti ed esprimevano valutazioni più severe. 


LA COLLERA SI AUTOALIMENTA. 


Gli studi di Zillmann sembrerebbero spiegare la dinamica di un tipico dramma familiare al quale mi capitò di assistere un giorno mentre facevo la spesa. Nei corridoi del supermercato risuonava la voce di una giovane madre che si rivolgeva con tono enfatico e misurato al figlio di circa tre anni: “Rimettila... a... posto!”. 

“Ma la “voglio”!” piagnucolò il piccolo, stringendo ancora più forte una confezione di cereali delle Tartarughe Ninja. 

“Rimettila a posto!” insistette la madre, stavolta alzando la voce, mentre la collera prendeva il sopravvento. 

In quel momento, la bambina più piccola, seduta sul seggiolino del carrello, fece cadere il vasetto di gelatina che stava succhiando. Quando il barattolo si frantumò sul pavimento la madre esplose “Adesso basta!” e, come una furia, diede uno scappellotto alla bambina più piccola, strappò di mano all'altro la scatola dei cereali e la sbatté sullo scaffale più vicino; poi tirò su il figlio tenendolo per la vita e fece di corsa tutto il corridoio con il carrello che sbandava pericolosamente di fronte a lei, la bambina più piccola che piangeva e l'altro che agitando le gambe protestava “Mettimi “giù”, mettimi “giù”!”. 

Zillmann ha scoperto che quando l'organismo si trova già in uno stato di tensione, com'era appunto il caso della madre dei due bambini, e qualcosa interviene a scatenare uno di quelli che abbiamo chiamato “sequestri” neurali, l'emozione successiva - poco importa se si tratta di collera o di angoscia - è particolarmente intensa. Questa dinamica è all'opera quando un individuo si infuria. Zillmann vede l'“escalation” della collera come “una sequenza di provocazioni, ciascuna delle quali innesca una reazione eccitatoria che si dissipa lentamente”. In tale sequenza, ogni pensiero - o percezione - successivo, tale da innescare la collera, diventa una sorta di micro-fattore scatenante che stimola il rilascio delle catecolamine controllato dall'amigdala, e il cui effetto va ad aggiungersi all'ondata di ormoni prodotta dagli stimoli precedenti. Il secondo pensiero emerge prima che il primo sia svanito; il terzo si aggiunge ai primi due, e così via; ogni onda cavalca la scia di quelle precedenti, aumentando rapidamente il livello di attivazione fisiologica dell'organismo. Un pensiero che insorga in un punto intermedio di questa catena scatena una collera di gran lunga più intensa di uno che si presenti al suo inizio. In altre parole, la collera si autoalimenta; il cervello emozionale si riscalda, e l'ira, non più frenata dalla ragione, sfocia facilmente nella violenza. 

A questo punto le persone diventano implacabili e non sentono più ragioni; tutti i loro pensieri ruotano attorno a idee di vendetta e rappresaglia, incuranti delle possibili conseguenze. Secondo Zillmann, questo elevato livello di eccitazione “alimenta quell'illusione di potere e invulnerabilità che può ispirare e facilitare l'aggressività”; infatti, “venendogli meno la guida cognitiva” l'individuo adirato torna a far ricorso alle risposte più primitive. Gli impulsi provenienti dal sistema limbico aumentano e i più crudi esempi di brutalità assurgono al ruolo di guide. 


COME UN BALSAMO. 


Data questa analisi della collera, Zillmann vede due possibili modalità di intervento. Un primo modo per disinnescarla è quello di fermarsi sui pensieri che la alimentano mettendoli in discussione; infatti, lo scoppio d'ira iniziale viene incoraggiato e confermato dal nostro primo, originale giudizio su un'interazione, mentre le successive rivalutazioni hanno l'effetto di spegnere le fiamme. Anche la tempestività dell'intervento conta; quanto più presto si agisce sul ciclo della collera, tanto più l'intervento si rivelerà efficace. In effetti, si può ottenere una completa sedazione purché l'informazione atta a mitigare la collera arrivi prima che si agisca dietro il suo potente impulso. 

Il fatto che una migliore comprensione della situazione abbia il potere di sgonfiare la collera emerge chiaramente da un altro esperimento di Zillmann, nel quale un assistente villano (anche stavolta d'accordo con lui) insultava e provocava i volontari che stavano pedalando su delle biciclette da camera. Quando si diede ai volontari la possibilità di vendicarsi della villania dell'assistente (anche in questo caso dandogli una valutazione negativa, nella convinzione che sarebbe stata usata per vagliare la sua candidatura per un lavoro), essi lo fecero con grande soddisfazione. Ma in una variante dell'esperimento un'altra assistente entrava dopo che i volontari erano stati provocati, proprio prima che fosse loro data la possibilità di vendicarsi, e avvertiva il suo collega sgarbato che era atteso nell'atrio al telefono. Uscendo, egli fece commenti sprezzanti anche su di lei. Ma la donna non se la prese, e dopo che quello fu uscito, spiegò che era sottoposto a pressioni tremende, fuori di sé per i suoi imminenti esami orali di diploma. Dopo di ciò, i volontari adirati, avendo la possibilità di vendicarsi, decisero di non farlo; piuttosto, espressero compassione per l'assistente e per il suo stato. 

Queste informazioni, che hanno un effetto calmante, consentono una rivalutazione degli eventi che altrimenti provocano la collera. Tuttavia, esistono condizioni specifiche per cogliere l'opportunità di questa “de-escalation”. Zillmann ha constatato che tali informazioni hanno effetto nel caso in cui la collera sia di livello moderato; quando l'emozione è assurta al livello di furia, l'arrivo di queste informazioni non fa effetto a causa di quella che egli chiama “incapacità cognitiva” - in altre parole, in tali condizioni l'individuo non è più in grado di pensare lucidamente. Quando è già furioso, egli liquida le informazioni che dovrebbero attenuare la sua collera con un “Questo è davvero troppo!” oppure, come spiega eufemisticamente Zillmann, con le “più tremende volgarità messegli a disposizione dalla lingua inglese”. 


L'INCENDIO SI SPEGNE. 


“Una volta, quando avevo circa tredici anni, in un accesso di collera, uscii di casa gridando che non vi avrei più fatto ritorno. Era una bellissima giornata d'estate e camminai a lungo per viali incantevoli finché, gradualmente, la tranquillità e la bellezza che mi circondavano ebbero su di me un effetto calmante e confortante, e dopo qualche ora tornai pentito e alquanto ammorbidito. Da allora, quando sono in collera, se appena posso, faccio sempre così, e trovo che sia la cura migliore”. 


Questo è il racconto di un soggetto che partecipò a uno dei primissimi studi sulla collera, compiuto nel 1899 (6). Esso costituisce ancora un ottimo esempio del secondo sistema per disinnescare la collera: raffreddarsi fisiologicamente, aspettando che l'ondata di adrenalina si estingua, in un ambiente nel quale ci siano scarse probabilità di imbattersi in altri fattori che possano stimolare l'ira. Nel corso di una lite, ad esempio, ciò significa allontanarsi per qualche tempo dagli altri. Durante il periodo di raffreddamento, l'individuo può frenare la sequenza di pensieri ostili cercando di distrarsi. La distrazione, come ha constatato Zillmann, è un meccanismo molto potente per alterare gli stati d'animo, e questo per una ragione semplicissima: è difficile restare in collera quando stiamo passando dei momenti piacevoli. Lo stratagemma, ovviamente, sta nel raffreddare la collera fino al punto in cui si possano effettivamente “passare” momenti piacevoli. 

L'analisi di Zillmann sulle diverse modalità in cui la collera cresce e diminuisce spiega molti dei risultati ottenuti da Diane Tice sulle strategie che gli individui affermano di usare per smorzare la collera. Una strategia relativamente efficace consiste nell'allontanarsi per starsene da soli mentre l'emozione va via via scemando. Molti uomini traducono questa strategia nell'uscire in macchina - un riscontro che impone una certa prudenza quando si guida (e che, come mi confessò Tice, la ispirò a guidare stando più sulla difensiva). Forse un'alternativa più sicura è quella di fare una lunga passeggiata; anche l'attività fisica contribuisce a dissipare la collera. Altrettanto utili possono essere le tecniche di rilassamento, come la respirazione profonda e il rilassamento muscolare, forse perché modificano la fisiologia dell'organismo facendola passare da uno stato di attivazione generale - caratteristico della collera - a uno stato di minore attivazione - e forse anche perché servono a distrarre da qualunque fattore possa innescare questa emozione. L'attività fisica funziona più o meno per le stesse ragioni: dopo essere stato portato ad alti livelli di attivazione fisiologica durante lo sforzo fisico, l'organismo, una volta cessata l'attività, ritorna a un livello di attivazione inferiore. 

Tuttavia, questo periodo di raffreddamento non funzionerà se sarà impiegato per seguire i pensieri che innescano la collera; ciascuno di quei pensieri è infatti di per se stesso un fattore scatenante minore che può provocare altre reazioni a cascata. Nella sua inchiesta sulle strategie usate per controllare la collera, Tice ha constatato che le distrazioni in senso lato aiutano a calmare questa emozione; la televisione, il cinema, la lettura e altre attività simili interferiscono con i pensieri di risentimento che alimentano la collera nelle sue forme più violente. Tuttavia, Tice scoprì che il lasciarsi andare concedendosi delle gratificazioni - ad esempio uscire a fare acquisti e mangiare leccornie - non ha molto effetto; è troppo facile perseverare nella sequenza di pensieri negativi mentre si percorre in lungo e in largo un centro commerciale o si divora una fetta di torta al cioccolato. 

A queste strategie possiamo aggiungere quelle sviluppate da Redford Williams, uno psichiatra della Duke University che cercava di aiutare individui abitualmente ostili ad alto rischio di cardiopatie, a controllare la propria irritabilità (7). Una delle sue raccomandazioni consiste nell'usare l'autoconsapevolezza per bloccare i pensieri cinici e ostili non appena essi si presentano, e nel metterli per iscritto. Una volta che i pensieri negativi vengono fissati in questo modo, è possibile metterli in discussione e rivalutarli; come constatò lo stesso Zillmann, però, questo approccio funziona meglio se si interviene prima che la collera si sia tramutata in vera e propria furia. 


IL MITO DELLO SFOGO. 


Mi trovavo a New York ed ero appena salito su un taxi quando un giovane che stava attraversando la strada si fermò davanti a noi aspettando di poter passare. L'autista, impaziente di partire, suonò il clacson, facendo cenno al giovane di togliersi dalla strada. Per tutta risposta ricevette uno sguardo minaccioso e un gesto osceno. 

“Brutto figlio di puttana!” gridò l'autista, e fece uno scatto in avanti premendo nello stesso tempo sull'acceleratore e il freno. Di fronte a questa minaccia letale, il giovane si spostò a mala pena di lato, con fare torvo, e colpì il taxi con un pugno mentre quello si muoveva a passo d'uomo nel traffico. L'autista replicò vomitandogli addosso una spaventosa litania di imprecazioni. 

Mentre ci muovevamo, l'uomo, ancora visibilmente agitato, mi disse: “Non puoi farti prendere a pesci in faccia da chiunque. Bisogna pur reagire - almeno ci si sente meglio!”. 

La catarsi, ossia questo dare sfogo alla rabbia - viene a volte magnificata come un sistema per controllare l'emozione. La teoria, molto diffusa, sostiene che dopo “ci si sente meglio”. Tuttavia, stando ai risultati di Zillmann, c'è un argomento anche contro la strategia dello sfogo. Esso è stato avanzato fin dagli anni Cinquanta, quando gli psicologi cominciarono a saggiare sperimentalmente gli effetti della catarsi e, di volta in volta, scoprirono che dare sfogo alla collera contribuiva poco o nulla a dissiparla (anche se, a causa della natura seduttiva di questa emozione, poteva dare una sensazione di soddisfazione) (8). In alcune condizioni specifiche, abbandonarsi a una collera violenta può essere una strategia efficace: ad esempio, quando essa viene espressa direttamente alla persona che ne è il bersaglio, o quando ripristina un senso di autocontrollo o raddrizza un'ingiustizia, oppure ancora quando infligge all'altro una “giusta punizione” impedendogli di fare qualcosa di male senza però assumere i contorni della rappresaglia. Tuttavia, poiché la collera ha una natura incendiaria, questo può essere più facile a dirsi che a farsi (9). 

Tice scoprì che il dare libero sfogo alla collera è uno dei modi peggiori per raffreddarla: di solito gli scoppi di collera alimentano l'attivazione del cervello emozionale, lasciando l'individuo ancora più adirato, di certo non più calmo. Tice constatò che quando la gente le raccontava di avere espresso tutta la propria collera alla persona che l'aveva provocata, l'effetto netto era stato quello di prolungare lo stato d'animo negativo invece di porgli fine. Una tattica di gran lunga più efficace era quella in primo luogo di raffreddarsi, e solo dopo, in modo più costruttivo e sicuro di sé, confrontarsi con l'altro per ricomporre la disputa. Io stesso sentii Chogyam Trungpa, un maestro tibetano, rispondere a chi gli aveva chiesto quale fosse il modo migliore di controllare la collera dicendo: “Non sopprimetela. Ma non agite mai sotto il suo impulso.”