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Alex arrivò alla stanza di Marc una mezz’ora più tardi, insieme a suo padre. Ian li aveva preceduti per controllare che tutto fosse a posto e li aveva avvertiti poi con il cellulare che Daniel gli teneva a disposizione quando veniva nella modernità. Nel corridoio del reparto c’era un certo movimento perché si avvicinava la fine dell’orario di visita e molti tra gli amici e i parenti dei degenti s’incamminavano verso l’uscita, mentre alcuni facevano un’ultima corsa verso i distributori automatici per comprare una bottiglietta d’acqua o uno snack e alleviare così ai loro cari le lunghissime ore della sera in ospedale. Nella guardiola degli infermieri erano tutti indaffarati con carte e referti, nel pieno del passaggio di consegne e, transitando di lì, Alex scambiò un’occhiata fugace con sua madre che dava istruzioni a due infermiere con alcuni fogli in mano.

Nessun altro badò a padre e figlia che entrarono con uno zaino nella stanza 203. All’interno la luce era già smorzata dalle tendine abbassate, sia quelle della finestra sul cortile sia e soprattutto quelle del riquadro di vetro che dava nel corridoio. Dopo essere entrato per ultimo, Daniel controllò ancora il viavai a destra e sinistra, e poi chiuse la porta. «Muoviamoci» disse e si diresse con lo zaino verso il tavolino.

Alex andò verso il letto e Ian le lasciò il suo posto sulla poltroncina lì accanto. Marc aveva un’espressione leggermente contratta, ma un colorito sano. Era steso supino, immobile, con le braccia fuori dal lenzuolo, libere dalle flebo e con dei cerotti là dove i sottilissimi cateteri erano stati rimossi. Se n’era occupata Jodie di nascosto, contro il regolamento dell’ospedale che prevedeva un accesso in vena sempre pronto fino alle dimissioni del paziente, per essere sicura che non sanguinasse quando tutto ciò che era moderno sarebbe sparito a causa di Hyperversum. Al polso era rimasto solo un nuovo braccialetto di plastica, che ora riportava il nome “Marc Maayrkas”.

Alex si sedette accanto al letto, avrebbe voluto abbracciare Marc e baciarlo e chissenefrega se lì c’erano anche i loro padri, ma si trattenne per paura che lui si svegliasse proprio in quell’istante, contro ogni pronostico. Si limitò a sfiorargli la mano abbandonata sul lenzuolo, la trovò ruvida per i graffi che segnavano la pelle fino all’avambraccio ma calda, in qualche modo rassicurante, e l’istinto di stringersi a lui decuplicò insieme alla fatica di tenerlo a bada.

Tra poco. Dobbiamo solo passare di là, si disse Alex. Una volta tornati nel medioevo, niente le avrebbe più impedito di stringersi a Marc e non lasciarlo più finché quell’avventura orrenda non si fosse definitivamente conclusa.

«Siamo pronti» annunciò Daniel in quel momento e Alex sobbalzò senza poterselo impedire. Spostò subito la poltroncina quel tanto che bastava perché suo padre potesse trasferire il computer sul tavolino servipranzo da letto. Grazie al cielo, quando si era rotta la macchina antidiluviana su cui girava il primissimo Hyperversum, avevano pensato bene di sostituirla con un portatile che aveva chissà quante volte la sua potenza di calcolo e meno della metà del suo peso e del suo ingombro: non serviva uno schermo da cinema quando giocavi con un visore 3D e i guanti in fibra ottica, e quasi sempre si evitava anche la seccatura dei cavi sparsi in giro.

La partita era già avviata. Le immagini della sequenza di apertura sul display crearono giochi di luce in movimento sull’arredo asettico della stanza. Partì anche la musichetta medievale. Daniel imprecò sottovoce e azzerò subito il volume. Marc non ebbe la minima reazione. Ian si era spostato vicino al riquadro di vetro e sbirciò ancora nel corridoio scostando di poco la tendina. «Ancora tutto tranquillo» sussurrò mentre la richiudeva. «Fate presto.»

Alex guardò Marc; il suo viso immobile sembrava quello di una statua, il suo respiro era regolare ma lieve. «Siete davvero sicuri?» domandò, con una stretta improvvisa allo stomaco.

Ian si lasciò sfuggire un moto di esasperazione, inverosimile in lui che era sempre così misurato, ma fu Daniel a parlare per primo. «Portalo via. Sbrigati, prima che si svegli, o diventerà mille volte più difficile.»

Alex deglutì a vuoto e infine si decise a indossare il visore e i guanti. C’erano ancora troppe cose che potevano andare storte, prima tra tutte l’accesso al medioevo tramite Hyperversum. E se il gioco avesse deciso di non funzionare più? Se Marc non avesse più potuto passare di là? Alex si sentiva schiacciare da pensieri contrastanti, aveva paura di tutto e del contrario di tutto. Mentre il suo cuore accelerava, percepì suo padre spostarsi verso il letto e armeggiare con l’altra accoppiata di visore e guanti per farli indossare a Marc.

«Vai» le disse Daniel, ma le mise anche una mano sulla spalla. «Aspetterò finché posso con il computer acceso. Se di là c’è qualcosa che non va, torna qui di corsa, è chiaro?»

Alex annuì. «Inizio partita» scandì e la sua voce suonò rauca alle sue stesse orecchie.

Per qualche istante non accadde nulla e Hyperversum si limitò a proiettarle nel visore le immagini cupe dello stramaledetto fienile da cui si era dileguata il giorno prima. Secondo l’orologio della partita nel medioevo era trascorsa una mezz’ora, il tempo materiale che era servito a Daniel per trovare Ian e tornare con lui nella modernità. La partita riprendeva da quel momento e nel fienile non era cambiato nulla. La sagoma della contessa di Sembry era sempre nel suo angolo, coricata sullo stesso fianco e nella medesima posa in cui Alex l’aveva vista l’ultima volta. Anche Marc era visibile, immobile nel giaciglio di paglia e coperto alla bell’e meglio dal mantello di lana infangato: il buio quasi totale rendeva quella sagoma molto realistica, ma Alex sapeva che si trattava solo di un avatar 3D perché lei stessa avvertiva ancora i jeans e la maglietta addosso e sulla pelle e nel naso il tepore odoroso di medicinali della stanza d’ospedale.

Poi, a tradimento come di consueto, arrivarono le vertigini.

Dopo le vertigini arrivò il freddo, insieme all’odore penetrante di cavallo, di paglia e legno umido e alla sensazione di avere la camicia di lino appiccicata addosso dal sudore. Alex rabbrividì fino all’ultimo capello, era caduta sul sedere quando la poltroncina le era scomparsa da sotto, ma si puntellò con le mani dietro la schiena e aspettò di ritrovare stabilità. Quando si sentì più sicura, gattonò da Marc e s’inginocchiò accanto a lui. Gli liberò il viso dai capelli e lo trovò tiepido, ispido là dove la barba aveva iniziato a spuntare, e tangibile senza alcuna ombra di dubbio.

Erano passati entrambi dall’altra parte senza problemi, senza impedimenti. Tendendo tutti i sensi, Alex controllò il fienile e lo trovò esattamente come le era sembrato dalla panoramica del gioco, esattamente come l’aveva lasciato: silenzioso e senza altra anima viva al suo interno, a parte loro due, la contessa di Sembry e i cavalli. Il silenzio era totale anche fuori.

Alex abbracciò Marc di slancio, restando con la testa sul suo petto, mentre parte del peso di piombo che le aveva gravato addosso fino a quel momento si dissolveva, respiro dopo respiro. Ascoltò a lungo il battito deciso e regolare del cuore su cui aveva appoggiato l’orecchio e le si inumidirono gli occhi al pensiero di quando aveva temuto che si fermasse. Ora Marc doveva solo svegliarsi e tornare da lei.

Si risollevò, conscia che le restavano ancora alcune cose di cui preoccuparsi per far sì che tutto andasse come speravano.

Si sedette sui talloni ed esaminò Marc. Come si aspettava, non gli trovò addosso né il braccialetto di plastica né i cerotti sulle braccia, Vide invece le minuscole croste lasciate dai cateteri, ma ce n’erano altre molto simili e di varie dimensioni sulle mani e gli avambracci, lasciate invece dalla vegetazione intricata che aveva persino lacerato una manica fatta di panno di lana. Impossibile distinguere a colpo d’occhio le une dalle altre, a meno di sapere esattamente dov’erano state attaccate le flebo.

Alex ritrovò il pugnale che aveva tenuto inutilmente nella cintura per tutta la fuga e tagliò via la metà inferiore della sua camicia, poi la ridusse a strisce sufficienti per sostituire le vecchie bende di Marc. Adesso si trattava di vedere cosa fosse successo sotto la fasciatura. Trattenne il fiato quando dovette mettere a nudo la ferita, ma riprese a respirare nel vedere che era ben sigillata e che dalla crosta sporgevano le minuscole estremità del filo di ogni punto di sutura. Nonostante il disagio provocato da quella vista, Alex ringraziò il cielo perché almeno il suo timore che Marc riprendesse a sanguinare era stato scongiurato. Con cautela e parecchia fatica riuscì a fare una nuova fasciatura, strinse bene i nodi e infine stese il mantello su Marc a mo’ di coperta.

E anche questa è fatta, pensò, asciugandosi il sudore dalla fronte con il dorso della mano. Adesso poteva affermare di aver medicato Marc e non sarebbe nemmeno stata una menzogna, o per lo meno non una menzogna completa. Gettò nell’angolo più lontano possibile le vecchie bende intrise di sangue, perché non sopportava di vederle un solo istante in più, e si augurò di non dover mai rifare una cosa del genere in futuro, perché la sola idea le chiudeva lo stomaco in un groppo grande quanto una noce. E per fortuna che non aveva dovuto ricucire davvero la ferita, perché sarebbe svenuta di sicuro trovandosi tra le mani ago e filo che non…

Un lampo di paura le attraversò la testa, interrompendo le sue considerazioni.

L’ago e il filo! Se Marc si fosse svegliato in quel momento e le avesse chiesto com’era riuscita a medicarlo, lei non avrebbe saputo come giustificare la sutura perché non aveva né ago né filo con sé e di certo non poteva dire di averli trovati in un fienile.

Che cosa faccio adesso? pensò Alex con un brivido. Ecco un dettaglio sfuggito a tutti che poteva mettere a rischio la messinscena. Calma, cercò di dirsi subito dopo. Devo soltanto restare sul vago e impedirgli di vedere la ferita fino a quando non arriveranno papà e Ian e lo porteremo in un luogo sicuro. Poi qualcosa inventeremo insieme.

Un’altra menzogna da tenere a mente per sempre senza cadere in contraddizione, un altro tassello del grande inganno che teneva in piedi il castello di carte in cui anche lei aveva scelto di vivere.

Un mugugno inarticolato la fece sobbalzare. Nel suo angolo lontano Anne Sembry si rigirò nella paglia, ma non riemerse dal sonno agitato.

Alex riprese a respirare per calmare il battito frenetico del cuore. Non doveva svegliare la contessa, altrimenti non sarebbe stato credibile affermare di aver medicato in modo così efficace un ferito tanto grave come Marc. Per lei erano passate ventiquattr’ore, ma per la contessa no. Doveva guadagnare tempo per avere un maggior margine di manovra nell’inventare le sue spiegazioni. Per fortuna lady Anne sembrava davvero troppo stanca per svegliarsi prima di un bel pezzo.

Alex piegò le ginocchia vicino al petto e le abbracciò. Abbassò la testa. Aveva a malapena iniziato a giocare sul serio a quel gioco di maschere e stava già diventando paranoica. Sbuffò, sperando invano di cacciare fuori la tensione insieme all’aria.

Il tempo passò, lento ma senza novità, e lei poco a poco riuscì a calmarsi. Il fienile ormai appariva buio anche ad occhi già abituati alla semioscurità, il legno delle sue pareti e del tetto emetteva qualche sporadico cigolio e oltre al respiro dei cavalli si udiva un lieve fruscio. Alex tese l’orecchio più che poté. Topi? Purtroppo era più che probabile.

Augurandosi che almeno fossero soltanto topi di campagna e non ratti, ascoltò meglio e capì che il fruscio non veniva da dentro ma da fuori e più precisamente da sopra.

Pioveva. Nel giro di qualche istante il fruscio diventò uno scroscio inconfondibile e Alex sorrise. La pioggia era davvero un regalo perché, come Marc le aveva insegnato, cancellava le tracce meravigliosamente.

Si alzò e raggiunse il portone in punta di piedi. Lo scorgeva a malapena grazie alla luce lieve che trapelava dalle fessure nel perimetro della cornice e quando lo raggiunse dovette tastarlo per trovare il chiavistello. Lo tirò con cautela, schiuse i battenti e sbirciò fuori. La pioggia scendeva copiosa e velava il panorama già buio. Non si muoveva un’anima né nel pascolo né sullo sfondo della foresta.

Rassicurata, Alex sprangò di nuovo il portone e tornò a tentoni da Marc. Avrebbe pagato qualsiasi cosa per avere a disposizione una luce e una fonte di calore di qualsiasi genere, ma si accontentò di accoccolarsi sulla paglia raccattando la spada ancora nel suo fodero e mettendosela in braccio con l’elsa appoggiata sulla spalla. Non si sdraiò perché si sarebbe addormentata di sicuro e non poteva permetterselo. Gettò da un lato la cotta di maglia di Marc che le era rimasta sotto il sedere e si avvolse nel mantello per stare più calda. Ora doveva solo aspettare che da Châtel-Argent venissero a recuperarli tutti.