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Perché. Da qualche minuto non ripete che questo: «Perché, se stiamo bene insieme? Se non facciamo del male a nessuno? Se abbiamo sempre tante cose da dirci?»
Di solito, quando parlavamo, ero io che rimanevo fermo e lei che mi girava attorno. Accarezzava le pecore, si rotolava nel fieno, s’arrampicava sulla trebbiatrice. Non stava buona un secondo. Adesso invece Mela sembra un fantoccio – una di quelle bambole di pezza che nemmeno puoi mettere sedute – e se ne sta buttata tra il foraggio e l’abbeveratoio, mentre io mi muovo concitato avanti e indietro, a sbalzi, come il tracciato di un elettrocardiogramma. Non mi ero mai accorto di avere così tante pulsazioni.
«Non è questione, Mé, se stiamo bene. Mica la vita è sempre spasso e divertimento! Ci sono le responsabilità, i doveri, le regole. E le regole prevedono che ciascuno, alla fine, stia nel suo giardino. Che ciascuno, alla fine, frequenti le persone dei rispettivi ambienti».
«Ma quale giardino? Quali ambienti?», si rianima leggermente Mela. «A casa mia tengo un orticello spelacchiato! Una stanza co’ ’na seggia, due letti e ’nu fornello! E poi, non abbiamo sempre detto che eravamo uguali? Che ci piacciono a tutti e due le stesse cose, tipo?»
Sarà per il sudore che continua a grondarmi dalla fronte, o per la mia giovinezza che marcisce, ma le mosche non smettono di torturarmi un solo istante. Mela, invece, ogni tanto mi concede una tregua – si morde il labbro a sangue e poi riprende a tormentarmi non so neanch’io se i nervi il cuore o l’anima, con quella voce acquosa che mi scende goccia a goccia nella testa.
«Ma che è successo, Malì? Cos’è cambiato? In fondo, io mica ti ho obbligato. Non t’ho mica costretto, a incontrarci in questo posto. Ed eri tu che fino a ieri ripetevi com’è che avremmo fatto, alla fine dell’estate».
«Si dicono un sacco di cose, Mela. E poi – appunto – la fine dell’estate si avvicina, ed è meglio per tutti e due se non ci riduciamo all’ultimo giorno. A staccarci così, violentemente».
«Ah, perché adesso, invece, ci stiamo separando pacificamente, con dolcezza...»
Se gli amici li riconosci al momento del bisogno, le donne le capisci solamente quando non servono più. Diventano tutte uguali, allora. Lagnose, polemiche, concentrate solamente su sterili cavilli. Ué Mé! Di che si tratta in fondo? Abbiamo intrattenuto uno scambio interculturale. Ci siamo fatti qualche confidenza. Sì, non lo nego, talvolta ti ho allungato un paio di carezze, ma adesso è arrivato il momento di tornare ciascuno al proprio posto.
«E quale sarebbe il tuo posto, Francisco Maligno? Al campo di battaglia? Sul ponte di comando? O solennemente assittato sopra al trono, tipo?»
Mi affaccio sulla soglia e noto che il frutteto, oltre la stalla, è irrorato di veleno. Volteggia cenere nell’aria, e nel porcile i maiali fanno un chiasso infernale. Torno dentro.
«L’hai sempre saputo, che sono un generale. Un capo. Un leader carismatico. Non è colpa mia se la guerra viene prima di tutto».
«Però, una volta tanto, potrebbe essere merito tuo se venisse dopo qualcosa, Malì. Se finalmente mettessi un po’ di pace dentro di te».
«Pure tu!», sbotto. «Pure tu mi vieni a parlare di pace! Ma che ci troverete in questa pace, dico io? Che ve ne fate?»
Quindi, per riempire il silenzio che mi oppone, sostengo che l’assenza di conflitti è sempre transitoria – tanto è vero, ragiono, che la pace si mantiene, come una cosa che scappa dalle mani, si conserva per non farla andare a male, mentre la guerra viene a noi come un carisma. Come un dono di natura.
«Del resto, quanto ci si mette a fare la pace? Un attimo. Un istante. Il tempo di una firma o di una stretta di mano. Una guerra invece è per sempre. Puoi farla ogni giorno. All’infinito».
Per la prima volta, da quando le ho annunciato che non ci saremmo più rivisti, Mela si alza e viene verso di me. Poi, quando già sono convinto della sua intenzione di colpirmi (per quanto non so ancora se con uno schiaffo, uno sputo in fronte o una carezza), mi volta le spalle e si china verso una pecorella appena nata.
Per qualche minuto affonda le mani nel suo vello. M’ignora. Sembra quasi dimenticarsi di me. Io invece mi ricordo che è tardi.
«Mela, mi dispiace, ma devo proprio andare. Mi dispiace, davvero. E mi dispiace pure che a giugno ti ho tirato le meduse».
Finalmente, a questo punto, lei si gira, così che, prima dell’irreparabile congedo, io possa appurare la pressoché definitiva scomparsa dal suo viso di ogni traccia del celenterato. Laddove, per mesi, aveva campeggiato la livida impronta dei tentacoli, adesso serpeggia una strana contrazione che, dallo zigomo, risale a solcare il campo di battaglia – non a caso detto fronte – oltre il quale infuriano i tormenti di Mela.
«A che pensi, Mé?... Lo sai, io dovrei andare...»
Lei annuisce, docilmente, e poi, con voce bassa, così spenta da non poter vedere che c’è dentro, mi domanda quante erano, le meduse che le ho tirato addosso; quale tecnica ho usato per pescarle, e se è vero che le più velenose sono quelle con l’ombrello trasparente. Non mi sembra vero, uscire di scena con un argomento su cui sono tanto preparato! Le spiego, puntualizzo, descrivo, mentre nei suoi occhi, da che erano tutte frantumate, le mandorle si ricompongono in uno sguardo concentrato, nel senso che segue attentamente ciò che dico, ma pure che là dentro si vanno ad ammassare – a concentrare, appunto – troppe cose per distinguerle tutte.
«Che c’è?», dico alla fine, vedendo che lei pensa ma non parla. «Hai bisogno di qualcosa, prima che me ne vada? Cibo? Coperte? Un po’ di soldi?»
Fuori è un concerto di cicale. Dentro, un requiem in sol minore.
La masseria è deserta, ma a me sembra di sentire una folla che m’aspetta. Che mi chiede di tornare.
«No», scuote la testa Mela, «non ho bisogno più di niente», ma un istante dopo ci ripensa, si aggrappa alle mie spalle e mi chiede un’altra volta se ho deciso veramente. Se penso che sia giusto. Se questo è ciò che voglio.
«Questo è ciò che sono», la interrompo. E allora lei si stacca, allunga le braccia e scuote il capo (nel senso della sua testa, ma anche della mia figura di leader carismatico) come se si trattasse di errore di persona, e si rifugia un’altra volta in mezzo al fieno.
«Ti offendi?», sospira. «Ti offendi se ti dico una cosa?»
Mi volto a guardarla, ed è bellissima – detto tra noi, Mela è bellissima. A parte il cerchietto tra i capelli, adesso sembra un agnellino pure lei.
«Io, Angelo Conteduca, penso che tu voglia fare la guerra per mantenerti in pace con te stesso. Per non affrontare la guerra che c’è in te. Per non ammettere che, in fondo, tu sei il più fragile di tutti» – e adesso è lei che si gira a osservarmi, come se davvero temesse di vedermi andare in frantumi. Mela è un agnellino, sì, ma con gli artigli.
«Secondo me, tu vuoi essere per forza quello che non sei. Non so, forse hai paura di cambiare. O sei preoccupato che gli altri ti vedano diverso. Di deluderli, tipo. Ma io credo di vederti come realmente sei: ’nu ragazzino buono. E anche sensibile. Dolce. Delicato».
Matò, che profonda esegesi! Che fine introspezione! Che acutezza di sguardo!
«Tanto per cominciare», sghignazzo, «non sono un ragazzino». E in quanto alla bontà, per non mettere le mani addosso a Mela, la butto più elegantemente sul sarcasmo, e m’impegno spavaldo a ridacchiare: «Ah, ah... dolce, delicato, sensibile... ah, ah... certo, Mela, come no?!»
Ma poi faccio fatica a proseguire. Un groppo mi stringe alla gola.
Non piangeva da anni, Francisco il Maligno, ed ecco che nel giro di ventiquattr’ore, dopo quelle torrenziali versate poche ore prima in giardino, le lacrime tornano ad affacciarsi un’altra volta sulle ciglia del granitico eroe. Non sono copiose, questa volta, ma cadono lente, col contagocce, come stille di collirio.
È infiammato, del resto, il mio sguardo mentre lo distolgo dalle scapole sporgenti di quell’angelo ribelle e lo poso su quel povero Angelino di me stesso. E della stessa fiamma bruciano pure gli steccati che giorno dopo giorno (semplice gesto: disinvolto, noncurante, come sollevare il bavero del loden blu quando arriva l’autunno) avevo innalzato a protezione del mio mondo.
Deglutisco. Stringo i pugni. Mi nascondo allo sguardo di Mela. Per circoscrivere l’incendio, lancio in aria uno scaracchio alla me ne frego.
«Peccato, Mé, che non vai più a scuola», commento sferzante. «Psicologa, dovevi diventare!»
Mela scrolla le spalle. Non si gira. «Tanto a te, se vado a scuola, cosa cambia?», mormora. «Cafona sono e cafona resto».
Nella sua voce non c’è ombra di rancore. E mi domando com’è possibile che, se da parte di Mela non c’è offesa, io mi ritrovi sempre tutto scorticato; mentre quando io provo ad attaccarla, a ferirla, a scagliarle addosso il fango che tengo sempre in canna, lei mi risponde con un sorriso immacolato, o tutt’al più – se per sorridere il dolore è troppo forte – con ’sto silenzio fiero e dignitoso.
Fiero e dignitoso: non era questo, un tempo, il marchio di Marinho? Spazzo via le lacrimucce e introduco i convenevoli finali: «Mela, io sono questo. E adesso devo andare».
Mela un’altra volta scrolla il capo, amaramente, per ribadire che io, di ciò che sono, ignoro l’essenziale.
I fatti, alla fine, le danno un po’ ragione. Perché quando, dopo un altro densissimo minuto di silenzio, quella diabolica cafona fa un deciso passo avanti, mi afferra la testa tra le mani e, più che baciarmi, preme le sue labbra sulle mie come se volesse spaccarmi gli incisivi, non solo il rimescolio del sangue, il crampo nello stomaco, il brivido che sale sulla schiena, ma anche l’energia più intenzionale con cui stringendola sui fianchi dischiudo la sua bocca e vi entro dentro con quella stessa lingua che già tante volte, e da lì a poco un’altra ancora, le aveva intimato di andarsene, sparire, non farsi più vedere, sono reazioni assai diverse da quelle che mi sarei aspettato dal mio essere leader carismatico, uomo d’armi intagliato nella rovere nonché, per dirla tutta, cavaliere destinato alla mano di sua grazia, Monna Sabrina Scopinculo da Nardò.
«Devo andare, Mé!», esclamo riemergendo da quel bacio come da un’immersione troppo prolungata. «Devo andare, e noi non ci dobbiamo più vedere!»
Ma più che un’ingiunzione, un ordine impartito in nome della legge, il mio grido ricorda l’ansimare di un fuggiasco. E infatti come un ladro mi lancio fuori dall’ovile, verso quella che dovremmo definire l’aria aperta, e che risulta invece una cappa soffocante di calore. Praticamente un muro da prendere a spallate.
Matò, che capogiro – ogni passo che faccio è una salita, però mi sembra pure di precipitare!
Quando poi – sconvolto, boccheggiante – imbocco finalmente il lungomare, come un tributo doveroso m’aspetterei una folla osannante con le palme. M’aspetterei che a uno a uno mi vengano incontro per congratularsi. Per stringermi la mano. Per portarmi in trionfo. Perché è per loro – per voi, gente, che siate sudditi fedeli, modesti valvassori o addirittura entità nemiche – che Francisco Marinho ritorna nell’agone mondato dal suo stesso sacrificio.
Ma Torrematta, all’improvviso, sembra popolata soltanto da ignoranti. I cafoni vabbè, lo sono sempre stati. Gli altri, coloro che da una camicia firmata Rodrigo o da un libro di Nantas Salvalaggio sotto il braccio riconosco come possibili alleati, ignoranti lo sono invece in senso letterale, dal momento che passandomi di fianco ignorano non solo il mio olocausto, ma anche il Marinho come autorità sovrana; per tacere che, tagliandomi la strada, certe volte danno la sgradevole impressione di ignorarmi anche un po’ come persona.
Sensibile? Dolce? Delicato? Matò, altro che palme: con le pale spinose dei fichi d’India, li prenderei a mazzate!
Per calmarmi, mi fermo davanti al chiosco dei giornali: e apprendo che, mentre il capo dei signori piangeva come il Corsaro Nero abbandonando al suo destino la figlia di Wan Guld, nell’alto dei cieli gli astronauti americani della navicella Apollo si scambiavano visite di cortesia con quelli sovietici della capsula Soyuz 19.
Com’è triste e solitario, adesso, il nostro eroe! E com’è strana – per lui che si è sentito sempre avanti – questo bisogno di acciuffare il mondo per la coda!
Si sente in ritardo, Francisco Marinho, e anche quando – col cuore gonfio e la testa vuota – si affaccia all’interno del Bar Pedro, l’impressione di un evento già compiuto, forse irreparabile, lo investe: laddove, nella nicchia tra il bancone e il frigo dei gelati, per anni il riflesso dell’estate s’era fuso con i riflessi suoi felini lungo la superficie levigata del suo flipper, ora spicca una voragine molto simile a quella che s’apre sul volto di Marinho mentre contempla a bocca aperta l’oscenità del niente.
«Come sarebbe, venduto?»
«Venduto, Malì. Tu, che sei istruito, come dici? Trattare, mercanteggiare, commerciare... Tanto, sempre venduto l’ho».
Sconvolto, quasi in trance, avanzo verso il metro quadro da dove s’irradiavano i suoni argentini degli specials e quelle luci molto americane che sembrava di essere a Las Vegas: il metro quadro più grande del mondo.
«Venduto», ripeto senza forza. «E a chi l’hai venduto, Pè?...»
Non ha mai avuto l’aria molto sana, il barista del Bar Pedro detto Pedro. Una carnagione smorta che le luci al neon rendevano definitivamente cerea. Cinque capelli di riporto che gli solcavano il cranio controvoglia. Una manciata di nei sparpagliati sulla faccia come schizzi di fango – se non qualcosa di peggio.
Ma quando è il momento d’informarmi sulla sorte del mio flipper – di sapere se inoltrandomi verso l’entroterra, o magari oltre gli apuli confini, potevo ancora coltivare la speranza di entrare in un locale, sia esso rispettabile buvette o mescita malfamata, e vedermelo davanti, o se invece la silfide discinta che mi strizzava l’occhio da sotto la testata ogni volta che superavo i mille punti era perduta per sempre all’occhio mio – più che da un’aria poco florida Pedro sembra afflitto da una grave malattia, che gli fa tremare le guance e lo costringe ripetutamente a deglutire.
«A chi l’hai venduto, Pedro?»
Il barista si rifugia sotto il bancone. Quando riemerge ha in mano un’Oransoda e sulla fronte una ruga che prima non aveva.
«Che te ne importa, Marinho? Ormai il flipper è andato. Un gioco fuori moda. Antiquato. E in quello stesso spazio, la settimana prossima, ci ficco un videogame nuovo di zecca. Sei contento?»
La mia faccia sarebbe una risposta già molto esauriente. Ma quando mi sporgo oltre il bancone e afferro Pedro per il cravattino, gli ultimi dubbi sul mio stato d’animo svaniscono come dall’aria l’aroma del caffè, sommerso dall’acida zaffata del suo alito e da quella del sudore che gli scende gelido sul collo. No, non sono per niente contento.
«A chi l’hai venduto, Pedro?»
Fisso il barista negli occhi. Ma anche lui, nonostante non sia altro che un mercante, un bottegaio, un braccio che spinge avanti e indietro la leva dell’espresso, sfida i miei e non si arrende ad abbassarli.
«Mo’ che sei diventato, Fransiscomarì, la guardia di finanza? Trecentomila lire, m’hanno dato. E io, a chi mi porta trecentomila lire per un flipper sgangherato, non sto a chiedere la carta d’identità. Per me, i soldi hanno sempre la stessa faccia».
Con una smorfia di disprezzo mollo il papillon, che rimbalza sul suo pomo d’Adamo.
«Idiota», sputazzo in mezzo ai denti. «Tu credi in questo modo di curare i tuoi interessi, e invece stai soltanto distruggendo il mondo. I suoi equilibri. L’indispensabile frattura tra le classi. Ma non ti rendi conto che se i cafoni accedono al consumo, ogni divario di cultura, civiltà, decoro, rischia di crollare? Cosa vuoi fare del tuo bar, un covo di serpi velenose? Cosa vuoi farne, di questo nostro mondo, uno zoo senza barriere dove le bestie girano prive di catene?»
È l’estate delle domande, l’ho già detto. Ma anche per l’enigmatico Pedro tre di fila sono troppe. Così, dopo essere rimasto qualche istante a sbattere le palpebre, il barista mi sguscia dalle mani e si rifugia tra le tazzine sporche.
«Non so di cosa parli, ragazzino. Quanto alle bestie prive di catene, l’unico animale scatenato, l’altro giorno, mi sembravi proprio tu. Anzi», aggiunge trafficando con la lavastoviglie, «meno male che ’sto flipper l’ho venduto, così non ci stanno più problemi».
Sopra la sua testa, a brevi intervalli, entra in funzione una trappola per le zanzare. Attratti dalla luce azzurra, gli insetti si avvicinano e restano fulminati con un rumore secco che pare lo schiocco di una lingua. Dunque, alle soglie del Duemila, l’umanità ha imparato a sterminare calliforidi, ditteri e drosofile, ma spalanca le porte ingenuamente ai suoi peggior nemici. Ne entrano un paio, mentre sto riflettendo. Due cafoni grandi con le unghie nere, una Nazionale senza filtro tra le labbra e ai piedi le ciabatte tenute con lo spago. Mentre il primo ordina una Raffo, l’altro si umetta oscenamente le labbra con la lingua, chiede a Pedro qualcosa di speciale («Cé sacciu, Pè? ’Nu peritivo, magari ’nu Aperòlle») e poi, spaparanzato, si mette a sorseggiarlo beatamente al tavolino, come se il suo problema (nel giro di un’estate, di un battito di ciglia della Storia, di una rotazione del sole intorno all’asse terrestre) non fosse più togliersi la fame, ma farsela venire.
Prendo anch’io qualcosa – niente più di un Lemongelo e una gazzosa, ché se Pedro deve farti credito per un valore superiore a cento lire s’irrigidisce come se fosse morto da tre giorni.
«Ué Pè, te li porto la prossima volta, i soldi! Com’è?... Mo’ ti fidi solo dei cafoni?»
Pronuncio l’invettiva a voce alta, con le mani ben piantate sopra i fianchi, ma i bifolchi nemmeno fanno il gesto di girarsi, e Pedro, più che la provocazione, decide di raccogliere dal posacenere le cicche.
«Lasciamo perdere, Marì. Piuttosto», sorride malizioso, «non è che hai parcheggiato in doppia fila? Che qualcuno ti sta suonando per uscire?»
Dalla strada, effettivamente, arriva insistente il rumore di un clacson. Dentro il bar, invece, il silenzio che si sente è quello di budella che si torcono (sono le mie), dopo che Pedro mi guarda un po’ di sbieco e mi dice sogghignando: «Oppure la motoretta l’hai venduta, ché da qualche settimana non ti vedo più girare?»
Tra l’alito di Pedro e il fumo delle sigarette, qui dentro l’aria si è fatta irrespirabile. Il clacson non si placa e contribuisce a saturarla, come se fosse anch’esso odore, gas tonante, mefitico miasma di cafone.
Lo è, difatti. Perché quando impugno il mio ghiacciolo e, ostentando come un crocifisso il suo algido profilo, m’inoltro verso l’infernale vampa meridiana, nemmeno esorcizzare il diavolo in persona m’avrebbe traumatizzato più di quel ritmico e ossessivo trombeggiare che Scaleno ricavava dal suo orrido Ape Piaggio.
Pe-pe-pe. Come una pernacchia. O una campana a morto. Quando mi vede uscire, Scaleno smette di suonare e, facendo scintillare il dente d’oro, mette prima il suo catorcio di traverso e poi, a rischio di mandare a gambe all’aria un paio di ciclisti di passaggio, lo gira per offrirmi la vista delle terga – ché la targa non si legge per la morchia.
Fosse solo quello. Come non un’ape, ma cento tutte insieme, la visione del mio flipper su quella carretta mi punge e mi procura una sorta di shock anafilattico.
«Matò!», esclamo. E proprio in quel momento, da dietro la nobile testata Erremmegi, sbuca quella testa d’asino di Cugginu, che mi sfida con sguardo adulterato, e intanto accarezza voluttuoso le sue tornite gambe in legno massello.
«Francisco Maligno!», raglia. «Guarda bene! Se io voglio una cosa me la piglio. Con l’astuzia. Con la forza. O con... li surdi!»
E per avvalorare il suo concetto estrae dalla tasca una moneta da cinquanta e me la tira in mezzo ai piedi. Faccio un salto all’indietro, come se, tra la polvere, avessi visto saettare un serpente velenoso.
«Fransiscomalì!», ci mette il carico Scaleno attraverso il finestrino. «Vedi che se mo’ ti vuoi giocare una partita, non devi fare complimenti! A casa nostra devi venire. Una bella accoglienza ti facciamo...»
Mostruosa, la loro risata crepita nel fuoco di quel mezzogiorno. Improvvisamente, Torrematta è una landa incenerita. Nessuno alle finestre. Le porte sbarrate. Deserto il marciapiede.
Qualcuno che mi trattenga ci vorrebbe, perché altrimenti io adesso salto sopra all’Ape e a questi malacarne gli ficco nel culo il pungiglione! Qualcuno che mi trattenga, per piacere – e intanto resto là, sul ciglio della strada, a osservare quegli esseri mostruosi che accennano a una danza belluina: Cugginu contorcendosi e dimenando i fianchi, Scaleno sobbalzando freneticamente sul sedile. Entrambi accennano a una versione scellerata di «Sugli sugli bane bane», e quando arrivano a intonare il ritornello («Tu miscuuugli le banaaane») spingono avanti oscenamente il bacino e ridono sguaiati all’indirizzo del signore dei signori.
Che devo sopportare! Già, Francisco Marinho, ma perché devi? Perché, invece di esitare col ghiacciolo che ormai sciolto ti cola sulle dita, non attacchi a testa bassa e li addobbi di mazzate? Per molto meno, fino a ieri, hai fatto fuoco e fiamme!
Avanzo. Mi fermo. Avanzo ancora un poco. «Adesso la finite!», urlo. «La finite, o altrimenti vi miscuglio io tutti i denti».
Scaleno, di risposta, dà un’energica sgassata e per qualche istante il rumore del motore va a coprire la voce gracchiante di Cugginu. «Non sai che paura!», ripete insolente; ma da come retrocede sul pianale e si fa scudo con il corpo del mio Pinball, è evidente (e ne ha ben donde!) che la paura del Maligno lui sa bene cosa sia. Raccolgo una pietra dalla strada.
«Ascoltami», gli dico. «Ti faccio una proposta. Una proposta seria. Adesso voi ve ne tornate a casa buoni buoni, e vi prometto che, per tutto il resto dell’estate, non alzo più un dito contro i cafoni. Non entro nel vostro territorio. Non minaccio le vostre misere esistenze. Però adesso sparite dalla faccia della terra e tornate a rintanarvi nelle fogne. Senza proteste. Senza discussioni. E ovviamente scaricando qua il mio flipper».
Silenzio. Caldo. Tensione. Poi si sente una portiera cigolare e la purpurea cicatrice di Scaleno sbuca da dietro il camioncino. Si tiene a distanza, il vigliacco!
«Malì», grida, «forse tu non hai capito. Mo’ la guerra è cosa nostra. Decidiamo noi come e quando farla. E che? Vuoi attaccare solo tu?... Noi ci siamo stancati di difenderci. Anche perché, da difendere, non teniamo proprio niente. Lo sai, siamo cafoni! Ignoranti! Poveracci! Tu, piuttosto, che sei signore... tu sì che ti devi preoccupare!»
È una strana sensazione, parlare con Scaleno. Prima di tutto perché mai e poi mai lo avrei creduto capace d’infilare due parole in croce; e poi perché, io e lui, non abbiamo mai avuto niente da dirci. La guerra era dentro di noi e, quando veniva fuori, tutto era tranne che soggetti, verbi e predicati.
«Malì. Mi stai sentendo, Malì?»
Stringo con più forza il sasso tra le dita. «Sentire ti sento, Scaleno. Ma non ti vedo bene. Forse perché hai vergogna di esibire la tua faccia. O forse perché ti blocca la paura che Francisco Marinho te la riduca ancora peggio. E comunque, anche se ti sento, io quello che dici proprio non lo capisco. E sì che sono colto. Preparato. Che a scuola studiamo il latino, il francese e anche l’inglese. Vuoi provare a dirmelo in inglese, Scalè, di che cosa mi devo preoccupare?»
Come un lupo, il capo dei cafoni punta avanti le orecchie e digrigna i denti. Poi si allunga verso suo cugino e confabula con lui qualche secondo.
«Prima di tutto, Maligno, io l’inglese lu sacciu. Certo, mica tutte le minchiate! Quello che serve! Le parole più importanti! Cé sacciu?... Yuppy du... O Prisencolinensinainciusol».
«Orrait!», aggiunge Cugginu, con espressione molto convinta.
«E poi, Malì, parliamoci chiaro. Per ficcare la pizza mica serve lu latino!»
Istintivamente, da che aveva messo fuori il suo naso a becco, Scaleno torna a rintanarsi dietro la sagoma dell’Ape. Lo sento ansimare come se avesse fatto una gran corsa, mentre l’altro, con le sue manacce lerce, resta avvinghiato al cassone del mio flipper.
«E mo’ che c’entra ficcare la pizza?», esclamo. «Le femmine fuori dalla guerra devono stare. Oppure, Scalè, niente niente hai preso gusto a inchiappettare i tuoi soldati?»
Scosso dal fremito di rabbia di Scaleno, il camioncino oscilla leggermente.
«Lascia perdere le chiappe dei miei soldati, Malì, e pensa piuttosto a quelle della femmina tua... Te la ricordi ancora, Maligno, la femmina tua, sì?»
(Una volta, penso, i ricordi non servivano. Una volta tutto c’era, e ci sarebbe sempre stato.)
«Tu, Scalè, la femmina mia non la devi nemmeno nominare. Anzi, nemmeno pensare, la devi!»
«E chi la nomina? Chi la pensa? Quella è una racchia, Malì. ’Nu cesso a rotelle. Mi toglie l’appetito. Parliamo piuttosto delle femmine veramente belle», dice – e sento che gli scappa una risata.
«Parliamo per esempio... cé sacciu?... di Carmela! Tu la conosci, Malì, Carmela detta Mela? La sorella di quel figlio di puttana di Tonino detto lo Storduto?»
Ci sono tanti tipi di silenzio; ma uno come quello non l’ho sentito mai.
Uno scoppio. Un fragore. Un boato senza suono.
«No, Malì? Non la conosci? Che peccato! È una femmina da sogno», e ride un’altra volta. «Da innamorarsi proprio. Con quelle zizze piatte piatte. Li capiddi arruffati. Le jamme che parono due scope. Cose sciccose, Malì. Prelibate. Mica come quella fetecchia di Sabrina Scopinculo!»
Faccio due passi avanti. Uno indietro. Ancora tre avanti, Poi, quando decido di lasciar cadere il sasso e voltare le spalle a quello schifo, Scaleno aggiunge che gli sembra proprio strano (perché Mela – dice – tutti la conoscono, con quella macchia sulla faccia che pare ’na palata di materia stercoraria). E allora non resisto: scaglio il proiettile all’indirizzo del nemico e poi mi scaglio io, così veloce che arriviamo quasi insieme – pietra calcare e roccia umana – sul corpo di Scaleno e lo gettiamo a terra, mentre dall’Ape Piaggio Cugginu si lancia a corpo morto nella mischia.
Corpo morto. Modo di dire che, nell’evolversi complesso della guerra, a ogni scontro si fa sempre più concreto; perché (sarà la rabbia, la paura o lo sviluppo muscolare) adesso i colpi sono pesanti, e mirano a far male. A ferire. A uccidere, se serve.
Mentre ci rotoliamo nella polvere – avvinti e insieme persi nella lotta – sento la saracinesca del Bar Pedro che s’abbassa. Per liberarmi della morsa di Cugginu, che mi stringe il braccio intorno al collo, con la nuca gli do una capocciata e, dal sangue che sento schizzarmi sui capelli, capisco che ho centrato in pieno il sopracciglio.
«Bastardo! Vaffammocca a chitemmuorto!», urla mollando la presa.
Poi si rialza e mi sferra un calcio nelle costole, colpendo però anche il fianco di Scaleno. Il capo dei signori e quello dei cafoni, del resto, in questo momento sono una cosa sola che si contorce sulla litoranea di uno sperduto villaggio del Salento, mentre tutt’intorno, oltre la strada, nelle file candide di case, e poi dentro i paesi, nei palazzi di città, sopra i grattacieli a dieci piani delle periferie, la gente accende la televisione come se niente fosse (come se non solo dalle notizie principali, ma anche dai secondari sintomi delle proprie nevrosi quotidiane, non si rendesse conto di quanto il momento sia cruciale) e dopo essersi riempita il piatto di orecchiette, s’ingozza accompagnandole con la Coca-Cola.
Noi intanto ci battiamo. Lottiamo. Ci ammazziamo. Quel mondo, che si pasce mollemente al desco quotidiano, noi ce lo giochiamo a colpi di mazzate.
Scaleno me ne infligge una sulla tempia che dentro sembra esserci l’acciaio. Io gli rispondo con un frontale in ghisa.
È bello – sebbene doloroso – combattere all’antica. E per un secondo, per un secondo solo, vorrei quasi sospendere il furioso corpo a corpo per chiedere a Scaleno se anche lui non senta ’sta libidine carnale di fondere le membra col nemico; ma siccome, si è già detto, i tempi stanno accelerando, precipitando dentro il buco nero di una lavatrice che centrifuga ogni cosa e tinge il bene e il male dello stesso grigio sporco, quel prototipo di nuovo cittadino che è l’orrido Cugginu, con la sua camiciola traforata e i pantaloni che gli fasciano la vita, mica aspetta lo scoccare degli anni di piombo, o di sapere dal telegiornale cos’è una P38.
No, Cugginu ha fretta: con il sangue che gli cola sulla guancia, barcolla fino all’abitacolo dell’Ape e ne esce con una pistola che subito riluce, scintilla, s’impone ai nostri sguardi. Come a volere subito chiarire che, da adesso in poi, il ruolo di protagonista spetta a lei.
«Mo’ t’ammazzo, Malì», annuncia il pistolero sputazzando sangue dappertutto. Afferra l’arma con entrambe le mani e freme così tanto che il tremore di Scaleno, mentre gli dice: «Cuggì, che stai facendo? Cuggì, sei uscito pazzo?», sembra solo una scossa di assestamento nel terremoto che ci unisce.
«Togliti di mezzo, Scalè, che mo’ lo faccio fuori...»
Noi a terra. Cugginu ci sta sopra, con gli occhi da pazzo. Scaleno prova a divincolarsi, ma aggrovigliati come siamo non è facile, anche perché la mia unica speranza è di usarlo come scudo.
«Togliti di mezzo, Scalè!», strepita Cugginu a squarciagola, e io mi sento con le spalle al muro, così che – rimbalzando contro il muro – la sua voce riecheggia nell’afa che ci avvolge. M’aggrappo al mio nemico. Al suo sudore. Al suo fetore di carogna. Afferrandolo per la collottola mi sollevo sulle ginocchia («Togliti, Scalè!») e mi trascino qualche metro nella polvere.
«Togliti Scalè, che gli apro un buco nella testa!»
Scaleno è un blocco di cemento. Incapace di reagire. Alla puzza d’ordinanza ora si aggiunge quella acre del suo piscio che gli cola sulla gamba, e un poco pure sulla mia.
Matò, che morte invereconda! Sangue di signore che si mescola a minzione di cafone!
Mentre ci gira intorno per trovare il varco in cui sparare, il respiro di Cugginu è così sincopato che assomiglia a un singhiozzo. E a singhiozzo ci muoviamo avanti e indietro, come ubriachi che provano a ballare.
«Togliti Scalè, togliti di mezzo!»
Trema Francisco Marinho. Trema il capo dei cafoni. Trema la pistola nella mano di Cugginu. E in tutto ’sto tremore è impossibile capire se l’urlo strozzato di Scaleno sia un perentorio ordine o una supplica; se Cugginu rida o pianga. Se io sono pronto a morire a testa alta o ad abbassare le penne.
«Aspetta. Calma. Ragioniamo». E intanto Scaleno quasi sviene, così che nell’istante in cui il mio acerrimo rivale diventa una carcassa inerme, un moribondo da finire, un ostaggio nelle mani spietate del nemico, anziché abbatterlo definitivamente per decretare la sua morte, mi tocca sostenerlo per difendere la mia sopravvivenza.
La situazione è nera – talmente nera che quando il tre ruote di Scaleno si accende all’improvviso, lo scoppio del motore risuona come un fuoco d’artificio in una notte senza stelle.
Nella marmitta rimbombano petardi. Nei cilindri mortaretti. Sembra pronto a decollare, ma quando è il momento di spiccare il volo, spicca solo l’imperizia di chi guida, che costringe l’Ape a saltellare, a impuntarsi, a tossicchiare, e infine a ripartire con un colpo di coda da scheggiare l’aria.
«Matò», rantola Scaleno, «lu motocarro cammina solo solo!...»
Quindi allunga il rostro. Aggrotta il ciglio. Storce il grugno.
Con un irresistibile strattone, il capo dei selvaggi si scioglie dalla morsa del mio braccio e io mi ritrovo più scoperto del suo conto in banca – se mai ne aprirà uno. Per fortuna, però, mentre Marinho abbassa la sua guardia, Cugginu abbassa la pistola e resta lì – intontito, quasi assente – con la mandibola che pende e il sangue che gli vela l’occhio destro.
«Cuggì!», l’apostrofa Scaleno. «Muoviti, Cuggì! Ché mi stanno fregando lu tre ruote!»
Dopodiché si scaraventa all’inseguimento del catorcio, che, sbandando da un lato all’altro della carreggiata, a sua volta sembra inseguire un suo irraggiungibile assetto. Cugginu sbatte le palpebre, come se si stesse risvegliando in quel momento. Mi guarda e io lo guardo. Anzi, per essere sicuro di centrarla in pieno, più che il suo ceffo devastato io guardo la sua mano e poi sferro un destro di calcagno che gli fa volare la rivoltella sull’asfalto.
«Vaffammocca a chitemmuorto», ripete sfregandosi le dita, mentre intanto la pistola cade, ruzzola, rimbalza e finisce tra le grate di un tombino.
«Tu finisci in una tomba!», mi predice, e poi – piegato in due – si lancia anche lui dietro a Scaleno. Imbrattato di sangue, piscio e sudore, lavo almeno l’onta del suo affronto con uno sputo e il gesto dell’ombrello. E sull’unico punto ancora asciutto – ’sta gola secca per l’affanno – sento preannunciarsi un’altra volta la pioggia del mio pianto.
S’acquatta tra i rovi, il capo dei signori, mentre quello dei cafoni, ciabattando forsennato, starnutisce bestemmie come gnocchi di catarro. Anche il suo tre ruote, forse per il polverone che solleva, manifesta problemi alle vie respiratorie: tossisce, ansima, sputa dallo scappamento un fumo denso e nero, e infine boccheggiando si sbraca in mezzo al rettilineo.
«Forza Cuggì», incita Scaleno. «Forza, ché si è spento lu motore».
Nel minuscolo abitacolo, in effetti, qualcuno sta cercando disperatamente di riaccenderlo; ma più insiste e più sembra di poter diagnosticare una letale crisi d’asma.
Scaleno è un animale che ha percepito il sangue. Quello rappreso sul volto di Cugginu, invece, più che a una bestia viva fa pensare a una carcassa dilaniata sul ciglio della strada. E sul ciglio della strada, infatti, si accascia pancia all’aria.
«Scalè, non ce la faccio più, Scalè».
«Forza Cuggì, ’nu sforzo ancora devi fare».
Anche il numero uno dei cialtroni, però, appare allo stremo delle forze. E quando – giunto ormai Scaleno a pochi metri dall’ammasso di ferraglia – miracolosamente l’Ape si rimette in moto, si direbbe che ’sto furto, alla fine, sia riuscito; se non fosse che quel ladro (come ladro e come gestione del proprio autocontrollo) evidentemente ha ancora molto da imparare, giacché invece di allungare il passo a poco a poco, e stroncare in questo modo la resistenza di Scaleno, preso dal panico apre a manetta l’acceleratore, col risultato che non solo il motocarro si spegne un’altra volta, ma prima di afflosciarsi quasi s’imbizzarrisce, scalcia, s’impunta, e con esso comincia paurosamente a oscillare anche il mio flipper.
Pende da un lato. Si piega sull’altro. E intanto, arpionato il suo rottame, Scaleno sbatacchia la maniglia per mettere le grinfie su quello sventurato.
«Pizzarrone! Sempre tu, sei!»
Il fratello di Mela (sì, perché non è altri che lui, Tonino detto Stonino detto lo Storduto, che si è intrufolato nell’Ape, che ha distolto l’attenzione di nu, che mi ha salvato da una morte certa per arma da fuoco) si catapulta fuori dallo sportello opposto e si lancia verso la campagna, mentre Scaleno prima accenna a inseguirlo e poi, stravolto, riserva l’ultimo fiato che gli resta alle minacce, a urlargli dietro che tanto i traditori lui li prende, e se li prende gli ficca un amo in gola e li usa come vermi per pescare.
Urla così forte, il capo dei cafoni, che lo spostamento d’aria infligge al flipper il colpo di grazia. Resta qualche istante in bilico sul fianco. Poi, con una pesantezza che mai avrei sospettato quando insieme ci libravamo a colpi d’ala oltre i mille punti, si abbatte al suolo e si sfascia in altrettanti pezzi.
Segue una lunga striscia nera.
Dentro quel nero tutto si nasconde. Si ferma. S’inchioda.
Solo Tonino detto Stonino detto lo Storduto, dentro quel nero, continua a correre senza voltarsi indietro. Supera la spiaggia, il villaggio, la campagna. Supera le fertili terre dei signori e, tra le ceneri di mille falò, quelle arse e sitibonde dei cafoni. Supera il crinale degli anni Settanta, Tonino lo Storduto, e naturalmente supera anche la casetta in calce viva dove abita con Mela.
Continua a correre per rimanere vivo. Così che, correndo dentro al nero, gli è impossibile vedere sua sorella che decide di morire. Così che, correndo dietro alla paura, non può afferrare il coraggio con cui Mela riempie la tinozza; con cui – già immersa nei pensieri – si aggrappa al bordo della vasca e fissa l’acqua che elettrica scintilla.
Cento meduse, là sotto, mandano bagliori. Cento meduse sono una scarica letale. Uno spettro fosforescente dentro al nero, così che il nero diventa un lampo bianco.
Sventola il bianco davanti ai suoi occhi come un segno di resa. Mela conta fino a tre (il numero di maglia, le ho spiegato, che Francisco Marinho porta sulle spalle) e poi si lascia andare.