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Oggigiorno le tre del pomeriggio non significano più niente. Oggigiorno, alle tre del pomeriggio, c’è gente che è appena scesa sulla spiaggia. Che fa il bagno. Che, se sta a casa, accende la televisione.

A metà degli anni Settanta, invece, alle tre del pomeriggio il mondo si fermava. O dondolava appena, come una barca sul pelo dell’acqua.

Silenzio. Attesa. Qualche cigolio. Fuori, riflessi che potevano accecare. Dentro, dietro gli scuri, pensieri in controluce che non facevano dormire.

Era la controra. Un nome che non significa niente, ma che dice tutto.

Alla controra di quell’estate del ’75, io mi rigiravo dentro al letto e pensavo alla guerra. Ai cafoni. Alla prossima battaglia.

Mi voltavo su un fianco e vedevo Scaleno. Mi giravo sull’altro e trovavo Tonino. Sul soffitto, quando provavo a sdraiarmi supino, aleggiavano Racchione, Scorfano e Culacchio.

Matò, dappertutto traboccano cafoni!

E la ragazza con gli occhi a mandorla – la sua bocca corrucciata – invece dove sta? Dal mio gomito, ormai, è caduta anche l’ultima crosta, e la caviglia è ritornata come prima. Eppure di lei nessuna traccia. Scomparsa dalla sera alla mattina, come le meduse che le ho spiaccicato addosso.

Il mare, ora, è chiaro, limpido, pulito. Ma la mia coscienza di che colore è diventata? Non l’avrò davvero stroppiata, come dice Scaleno? Non l’avrò mica ammazzata?

Come un eroe tormentato, pensavo molto e non dicevo niente.

Ogni giorno montavo sopra il Caballero e m’inoltravo solitario tra le fila del nemico. Motore al minimo, tensione al massimo, percorrevo impavido tutta la litoranea e ritornavo indietro, mentre i cafoni mi sorvegliavano metro dopo metro con sguardi da scimmia, e come scimmie arruffavano il pelo.

La mia popolarità era al culmine. Se, oltre agli occhi, avessero allungato le zampe, sarebbe scoppiato in un attimo l’inferno.

«Fransiscomarì, ci fai stare sempre preoccupati!», sospiravano Vittorio, Girovitale e Topo Gigio, ogni volta che mi vedevano rientrare. Sebo Conti, invece, si divideva tra il terrore e l’idolatria: «Maremma maiala, Marinho! Ma dove lo trovi il coraggio d’infilarti in quel covo di vipere?»

Solo il mio luogotenente non diceva nulla e mi guardava, forse presagendo che quelle temerarie sortite nascondessero qualcosa. Una sensazione, niente più; perché cosa ci fosse sotto veramente non arrivavo a capirlo neanche io.

Mi sentivo in colpa? Ero curioso? O magari infastidito perché l’assenza della vittima, di fatto, rendeva impalpabile anche la natura del carnefice? Non lo so. Di sicuro, un rovello mi toglieva il sonno.

E siccome la notte non dormivo, ecco che la mattina calavo sulla spiaggia sempre più scorbutico, con le sopracciglia imbizzarrite e un muso così lungo che perfino Lucaviale, per paura di inciamparci, faceva il giro largo intorno all’ombrellone.

Era evidente, insomma, che non avevo voglia di parlare con nessuno. Ma soprattutto si leggeva cubitale il mio avvertimento, la mia esortazione, il mio sovrano monito affinché a nessuno venisse in mente di parlarmi. Eravamo signori, che diamine, mica villani incolti! E quindi m’aspettavo che, davanti a un’avvertenza grande e grossa come quella, tutti fossero abbastanza edotti da capire.

Ma Sabrina Scopinculo, evidentemente, non era come tutti. Come lei, anzi, non c’era nessuno.

Mollemente adagiata nel pareo, sfogliava rotocalchi gentileschi – tipo Charme, Letizia o Darling – e intanto esercitava alacremente l’impervia disciplina (alla lettera: ci metteva metodo e costanza) che più le si addiceva: guardare se qualcuno la guardava.

Poi, a un certo punto, siccome la guardavano tutti, per non affaticare la vista mi raggiungeva sotto l’ombrellone e si piazzava sopra gli occhi due fette di cetriolo.

A dire il vero, nascosto dietro le lenti a specchio Rossignol, io spesso facevo finta di niente. Ma se ignorare le grazie di Sabrina – il suo smalto fiammeggiante, le ciglia basculanti, il carré perfettamente bilanciato alla Carmen Villani – appariva piuttosto inverosimile, fingere di non sentire la sua voce era un’impresa pressoché impossibile.

Voce da sirena, l’aveva definita Lucaviale. Ma da sirena della polizia!

Insomma, quella mattina me ne sto ancora più accigliato del solito a scrutare l’orizzonte, quando la mia fidanzata, sprezzante del pericolo, varca il cerchio di fuoco che virtualmente mi divide dal mondo dei mortali, e con fare mellifluo e un po’ allusivo mi annuncia che è arrivato il cinemino. Poi, siccome io faccio orecchio da mercante, si accosta alle mie labbra e sussurra direttamente al cavo orale: «Angelì, mi ci porti Angelì?...»

Ora, a parte il fatto che io mi chiamo Francisco Marinho, su ’sto cinemino varrebbe la pena spenderci sopra due parole. Non più di due, a dire il vero, ché quattro sarebbero già troppe per descrivere un lenzuolo sospeso sulla sabbia, due megafoni gracchianti e un vecchio proiettore.

Ogni fine settimana, ad allestire questo sfarzo, sopraggiungeva caracollando un camioncino che portava scritto lungo il fianco: Film da Oscar. E noi Oscar avevamo puntualmente battezzato il ceffo losco e sepolcrale che ne discendeva con impeccabile tenuta da becchino e l’espressione arcana.

In effetti, quello che Oscar approntava accanto alla giostra assomigliava a un rito funebre impreziosito da un tocco di magia. Accendeva dei lumini. Stendeva il sudario. Invocava qualche santo se la pellicola non si metteva a fuoco. Quando finalmente prendevano a scorrere i titoli di testa, ecco il momento più prodigioso, sbalorditivo, quasi esoterico: non sto parlando del film, ovviamente (ché di regola – altro che Oscar! – si trattava di Lo chiamavano Tresette e giocava sempre con il morto o Ultimo tango a Zagarol), ma della misteriosa disinvoltura con cui il proiezionista risaliva sul suo camion e si dileguava.

«Ma dove va?», ci siamo chiesti la prima volta, un po’ smarriti. E a ogni minuto che passava, anziché appassionarci a quello che accadeva sullo schermo, tenevamo gli occhi fissi sopra il proiettore, affascinati dalla visione della pellicola che scorreva nei binari come un treno senza guida, alla mercè del fato.

Cosa sarebbe accaduto al termine del primo tempo? E Oscar? Possibile che avesse abbandonato baracca e burattini?

Sprofondati nella sabbia, io, Lucaviale e Toshiro Mifune già meditavamo di trafugare il proiettore incustodito, quando, a non più di mille fotogrammi dalla fine, due fari un po’ sbilenchi annunciarono l’appropinquarsi di un camion sulla litoranea. Oscar saltò giù con insospettabile agilità. In quattro e quattr’otto, cupo come un la minore, sostituì la bobina e nuovamente sfumò all’orizzonte.

Matò, che razza di figuro!

Per diverse settimane vagliammo le evenienze più disparate. Incontinenza. Problemi con la legge. Un neonato da allattare. Ipotizzammo anche un disprezzo viscerale (e schizofrenico, giacché se l’era scelta per mestiere) nei confronti della settima arte. Ma mai potevamo immaginare che, a dispetto del suo stile un po’ rétro, Oscar avesse già un piede nel futuro.

Senza neppure possedere un vero cinematografo, ma solo proiettori arrugginiti e una dozzina di drappi rammendati, quel pezzente stava infatti anticipando le moderne e sfavillanti multisale. Bastava trasferirsi al villaggio successivo ed ecco un’altra offerta. E se non ti andava a genio neanche quella, potevi raggiungere la spiaggia ancora dopo. Ce n’era per tutti i gusti, il sabato sera. E anche per tutti gli orari, dal momento che Oscar, per montare e smontare le bobine con perfetta sincronia, doveva programmare le proiezioni a intervalli scaglionati.

La gente era entusiasta, anche perché spesso bastava aspettare che iniziasse, e che quindi Oscar salpasse verso nuovi lidi, per scavalcare il labile recinto e guardarsi il film a sbafo.

Per me invece, da quando c’era il cinemino, il fine settimana era diventato una tortura.

«Angelì, andiamo a Porto Selvaggio a vedere Franco e Ciccio?»

«Porto Selvaggio?! Matò, Sabrì! ’Nu fottio ’e chilometri, è!»

«Embè, Angelì?... Mo’ tenimm’ lu Caballo!»

Finivamo con l’esprimerci tali e quali a due cafoni, tanto la questione ci rendeva nervosi. A Sabrina, al solo pensiero di esibire le sue scollature su un lungomare più mondano del nostro, spuntava una terza di reggiseno. A me, invece, sintomi da quarta malattia.

Odiavo abbandonare il territorio. La mia guerra. Il ponte di comando.

«Dobbiamo proprio, Sabrì?», le domandavo.

Quella sera sì – a Punta Prosciutto c’era L’ultima neve di primavera, e noi proprio dovevamo.

«Con Renato Cestié, Angelì!», ci mise il carico Sabrina. E alle otto meno un quarto eravamo già sul piede di partenza.

Vai, fermati, scendi, risali – ché una volta le era entrato un moscerino dentro l’occhio, un’altra s’impigliava il vestito nel sellino – arrivammo giusto in tempo per vedere il padre del protagonista (un attore grande e grosso che solo un paio d’anni prima ricordavo molto maschio interpretare Ulisse alla televisione) scoppiare in lacrime come una femminuccia ripensando al rampollo appena deceduto.

Ah, cominciamo bene!, pensai. E con la mia mandibola pietrificata alla Luc Merenda stesi la rennetta scamosciata su uno scoglio per far stare più comoda Sabrina.

In realtà (purtroppo), Renato Cestié non era crepato manco per niente. O meglio: era crepato, però il film cominciava dalla fine, così che per tutto il tempo – mentre lui sorseggiava beato del buon bourbon, faceva lo sci d’acqua e altre cose veramente fiche per la sua età – noi sapevamo già che brutta fine avrebbe fatto, e restavamo là a guardarlo con la pelle d’oca e l’occhio inumidito. Oddio, in realtà la pelle d’oca io ce l’avevo perché senza giubbino, in riva al mare, la sera tira sempre un po’ di vento. Mentre l’occhio lacrimava a forza di scrutare avanti e indietro l’orizzonte, pensando a come trascorreva la serata a Torrematta.

«Angelì, ti piace il film, Angelì?», mi risvegliò Sabrina dal torpore.

Era appena finito il primo tempo e già il suo trucco era disfatto. Intorno a lei, una dozzina di genitori singhiozzanti componeva un quadro da parenti delle vittime. Anche i rispettivi pargoli, tra le loro braccia, non sembravano vinti dal sonno, ma da una morte crudele.

Matò, che tragedia!

Ci mancava giusto Oscar col suo completo da necroforo. E infatti eccolo là, puntuale, scendere dal camion con il secondo tempo tra le braccia e una faccia così mesta che la gente già piangeva a vedere la bobina.

Potessi entrarci dentro!, pensai. Quel fichetto effeminato di Cestié lo avrei finito anzitempo con le mie stesse mani!

Immaginatevi pertanto lo stupore quando, sistemato il proiettore, anziché lo start vedo Oscar che si preme una mano sulla fronte, fruga nelle tasche e risale frettolosamente la platea fino allo schermo, dove – in un fermo immagine per la verità non troppo fermo, anzi piuttosto mosso – campeggia tremula la scritta Secondo tempo.

Oscar vi si staglia davanti. In mezzo. Tra la o e la t.

Oscar è dentro il film.

Laddove, pochi minuti prima, c’era Agostina Belli che implorava il piccolo Renato di trovare nel suo cuore un briciolo d’amore adesso c’è un uomo col riporto e gli occhiali bifocali che cerca di farsi tornare in mente un nome da demonio.

«Francisco Maligno?», ipotizzo in preda a un brutto presentimento. Ancora abbacinati dall’ultima neve di primavera, gli spettatori si girano verso il mare d’estate e mi guardano come se il film adesso fossi io.

«Vabbuò, Maligno», scaracchia Oscar alquanto polemico. «Premesso che è la prima e ultima volta che faccio il postino, c’è un messaggio per lei da Torrematta».

Tira fuori dalla tasca un foglietto stropicciato. Avvicina il naso al biglietto, poi allontana il biglietto dagli occhiali, infine si riassesta gli occhiali sopra il naso.

«Un certo... un certo... Topo Gigio» (si avverte un diffuso disorientamento, e forse anche una leggera ilarità) «le manda a dire...»

Pausa. Pausa breve, ma comunque troppo lunga sia per chi attende impaziente il trapasso di Cestié, sia per me che forse – se Oscar non si sbriga – sono destinato a morire di crepacuore ancora prima.

«Le manda a dire», conclude con un ghigno poco persuaso, «che i cafoni hanno attaccato».

Ora, lo sanno tutti che un cafone è un cafone, che un attacco è un attacco, e che mettendo insieme le due cose si ottiene una combinazione a dire poco rovinosa. Eppure nessuno si mosse. Niente fu detto. Qualcuno addirittura sbadigliò.

Fosse stato anche l’intero blocco comunista ad attaccarci, nella compatta coalizione di quei cuori – pure disposti a infrangersi alla prima lacrimuccia che appaia sullo schermo – non si sarebbe aperta una crepa.

Trecento lire, avevano sborsato per vedere Renato Cestié che schiatta tra i singhiozzi! E mo’ singhiozzi dovevano essere!

«Quadro!», reclamarono dal fondo.

Se un giorno la terra fosse stata governata dai cafoni, dal disordine, dal caos – altro che quadro!, un culo tondo come una frisella vi avrebbero fatto quei bifolchi. Allora sì che ci sarebbe stato da piangere!

Per un istante mi caddero le braccia. Forse il mondo meritava di venire abbandonato a un destino di bacche e radici, versi gutturali e pastorizia. Ma se un cafone è un cafone, a maggior ragione un signore sarà sempre un signore. E perciò ecco che Marinho si alza e poi cammina – combatterò anche per voi, ciechi miserabili! – cammina e immantinente inciampa, ché con ’sto buio nemmeno lui distingue niente.

«Angelì, cé tieni?», sbottò Sabrina sentendomi trafficare.

«Naaa, Sabrì! Niente hai capito, allora? Li cafuni ci hanno attaccato!»

In realtà Sabrina aveva capito benissimo. Talmente bene che adesso metteva a repentaglio lo smalto delle unghie avvinghiandosi allo scoglio e al sacro vincolo della nostra unione, avvertendo non solo me, ma anche quattro o cinque nuclei familiari accampati nelle vicinanze che, se adesso io me ne andavo, l’anello di fidanzamento lei lo lanciava in mezzo al mare.

«Silenzio», intimò qualcuno alle nostre spalle. Non erano passati nemmeno tre minuti del secondo tempo e già Renato Cestié cominciava a manifestare segni di cedimento. Giramenti di testa. Qualche colpo di tosse. Palpitazioni.

«Ti prego, Angelì», pigolò Sabrina. «Almeno finché non muore!»

«Naaa, Sà! Questo ci mette almeno un’altra ora!»

Avevo il cuore in gola pure io. Matò, che agonia! C’era un mare così fermo che pareva una lastra di marmo. E intanto, di sicuro, a Torrematta tremavano pure le finestre!

«Sabrina, io devo andare!», esclamai con piglio definitivo. Da signore, ma anche un po’ da padrone.

La mia fidanzata fece finta di non aver sentito. Solo finta, è evidente, perché intorno tutti gli altri intesero benissimo e si voltarono impazienti. Come a dire: se devi andare, vai. Muoviti. Sbrigati. E se no, almeno taci.

Li guardai furente (tutto questo sempre nell’oscurità), strinsi i pugni, feci una faccia truce e pure qualche gesto, ché tanto la notte senza luna garantiva una totale impunità.

Tornai a sedermi e pregai Dio che cominciasse a piovere. Che il vento sradicasse il telone. Che la pellicola prendesse fuoco. Poi pregai Sabrina di lasciarmi andare, ma anche in questo caso non ottenni risposta.

«Sabrì!», la richiamai all’ordine. E allora, per quanto la notte senza luna garantisse una totale impunità, si vide con chiarezza che era furente anche la mia fidanzata. Che la faccia truce e più di qualche gesto (i bracciali tintinnavano indefessi) nella tenebra avvolgente li stava facendo pure lei. I pugni, invece, credo che li strinse sul momento. Ma con tanta forza che, nel centrarmi la bocca dello stomaco, mi tornarono in gola i peperoni.

Le femmine! Sono capaci di tenere più alla morte di un attore che alla vita tua! Annaspai qualche secondo, poi l’invocai ancora, più flebilmente, quasi rantolando. Ma ormai era chiaro che la mia gamma espressiva influiva poco o niente sul tenore monocorde del suo parossismo. Mi colpì tre, quattro, cinque volte, a raffica, ciecamente, come si fa con la vittima che non vuole saperne di esalare.

«Sabrì!», ripetei. Ma questa volta non si trattava di un richiamo, né di una protesta, e tantomeno di un’implorazione. Era un andare a capo, un’enunciazione alla quale seguirono due punti e pochissime parole. Ché per invitarla a tornarsene a casa da sola non usai certo molte allocuzioni.

Sabrina trasalì. «Angelino», minacciò, «se te ne vai m’ammazzo, Angelì!»

E poi, con una voce che pareva appena uscita dalla mola d’un arrotino, domandò come pensavo che avrebbe fatto ritorno a Torrematta.

«A’, se vuoi che faccia l’autostop, A’... all’una di notte, A’... basta che me lo dici, A’...»

Quando mi chiamava A’, sapevo che Sabrina diventava un osso duro. Non soltanto disconosceva la mia natura di Francisco Marinho, ma riducendomi a una semplice vocale – che peraltro sapeva declamare in mille sfumature, e tutte ugualmente velenose – era come se annunciasse di essere ormai prossima a cancellarmi del tutto.

«Aaà?!... Aà?... A!...», solfeggiò intanto che io rimuginavo.

Sabrina Scopinculo col pollice per aria lungo il viale di Punta Prosciutto? Non se ne parlava proprio. E se fossi riuscito ad andare, sgominare i cafoni e tornare indietro entro la fine del film? Impossibile, Cestié già peggiorava.

Rimaneva solamente una soluzione, ma quando la materializzai sotto gli occhi di Sabrina nemmeno io riuscii a capire se a far tintinnare il portachiavi era il vento o il tremore della mano.

«A’, e queste che sarebbero, A’?»

«Torni tu col Caballero», annunciai. E poi con un sorriso sgangherato, che per fortuna si perse nella notte, le dissi che sarebbe stato un gioco da ragazzi.

(Fantic Motor Caballero con carburatore modificato dell’Orto 19.

Cilindrata: 49 cc.

Motore Minarelli P4-SS due tempi.

Sei marce regolarità.

Accensione a volano magnete 6V-18W calettato a sinistra dell’albero motore. Trasmissione primaria a ingranaggi elicoidali, secondaria a catena con pignone da 12 denti e corona da 45.

Cambio a 4 rapporti.

Peso: 66 kg a vuoto.)

All’epoca dei fatti, monili inclusi, Sabrina Scopinculo non arrivava a 50 chilogrammi.

Le uniche cose che sapeva accendere – a parte, si capisce, gli sguardi concupiscenti della gente – erano il phon e lo scaldabagno.

Se le parlavi di trasmissione tirava subito fuori Canzonissima.

Se nominavi i denti ti consigliava Valda F3.

Ciononostante, fin dalla prima volta in cui andai a prenderla all’uscita della scuola in groppa al Caballero, non facevamo in tempo ad arrivare al primo incrocio che già Sabrina aveva allungato una mano sulla mia, e alterando – non senza qualche rischio – la pressione attenta e calibrata che esercitavo sulla manopola del gas, mi domandava nell’orecchio se, un giorno, il Caballero l’avrei fatto portare pure a lei.

«Sabrì, mica è un gioco, Sabrì», drizzavo il pelo, e lei tornava a stringermi sui fianchi con maggiore vigoria, non si capiva se per farmi male o perché, così rude e selvatico, diventavo definitivamente irresistibile.

Del resto, le femmine chi le capisce? Prima vogliono una cosa, e poi, quando l’ottengono, sono subito lì pronte a sottoporti domande. Problematiche astruse. Questioni aleatorie.

«E se cado, Angelì? Se foro una gomma? Se mi ferma la stradale?»

Afferrai le sue dita e le serrai intorno al portachiavi. Quindi la baciai teneramente (appena un po’ sbrigativo) sulla fronte. Era fredda come la relazione di un perito. «Non succede niente, Sabrì», dissi con una voce che nemmeno Alberto Lupo. «Mo’ goditi il film».

Nell’alzarmi barcollai. Anzi, tutta la spiaggia rollò come se stessimo andando alla deriva in mezzo ai flutti. Matò, che avevo fatto? Non soltanto abbandonavo ai rispettivi destini la seconda e terza cosa a cui più tenevo al mondo (la prima, si capisce, restava la totale distruzione dei cafoni), ma questi destini li intrecciavo pure tra di loro.

Era più angosciante il pensiero di Sabrina che riportava a casa il Caballero o quello del Caballero che riportava a casa Sabrina?

Non sapevo decidermi. Del resto, se il mezzo meccanico costituisce un pericolo per l’incolumità del pilota, non si poteva dire che Sabrina ne rappresentasse uno minore per il mio motorino. Per la sua bella testa in lega leggera. Per il cilindro in ghisa. Per il filtro dell’aria a paglietta metallica. Tutto era in pericolo, in quella notte senza luna! Forse perfino la mia stessa ragione, ché tutti i pensieri si elevavano all’ennesima potenza. Costringendomi a calcoli mentali che sarebbero stati ostici anche a una Olivetti Divisumma ultimo modello.

Ma ero un numero uno. E siccome la radice quadrata di uno è sempre uno, alla fine non potevo comportarmi che da primo della lista. Da leader indiscusso. Da capo carismatico.

Ecco quindi che, con uno scatto bruciante che appunto ricorda l’arrembaggio di un terzino sulla fascia, Francisco Marinho irrompe sulla litoranea proprio nel momento in cui l’insegna Film da Oscar torna a puntare in direzione Torrematta, e senza tradire la minima incertezza, anzi gonfiando sprezzante il fiero petto, con una semplice imposizione delle mani costringe il camion ad arrestarsi.

«Vorrei un passaggio», dice a Oscar. Ma il condizionale è solo un obolo formale che deve alla propria condizione di signore. E come un signore – disinvolto, autoritario, appena leggermente contrariato dalla morchia – afferra la maniglia e, senza attendere risposta, si issa sul cassone.

«A Torrematta», comanda.

Ora, in queste notti senza luna, c’è il problema ricorrente che, un volto, lo vedi e non lo vedi. Che i lineamenti sfumano. Che i cipigli non li afferri.

Così, a parziale scusante di Oscar, si può anche invocare l’impossibilità di distinguere le mie sopracciglia inarcate, lo sguardo dardeggiante, le narici dilatate che fremono come le froge d’un bufalo nel fango. Inoltre, stretta fra l’oscurità del mare e le ancora più impenetrabili tenebre della campagna, la carreggiata in questo punto sembra un ponte sospeso sul niente. Al laconico Oscar, perciò, si può concedere di rimanere per qualche minuto concentrato sulla guida. Quando però la strada si allarga, e compare in lontananza il bivio per Torre Lapillo, la freccia che innesta il conducente irradia dentro l’abitacolo un chiarore che, per quanto fioco, si direbbe più che sufficiente a vedere le cose come stanno.

«Ué O’,» protesta Marinho, «ti ho detto che a Torrematta devo andare!»

Guarda avanti, Oscar. E dopo guarda a destra per controllare se viene qualcuno. Quindi gira, la freccia si spegne, e tutto torna scuro.

È scura – si può immaginare – anche la faccia che fa l’intrepido Maligno. Ma dobbiamo aspettare la curva successiva, quella che porta verso la Masseria dei Chiodi, Le Case Arse e Monteruga, perché il barlume intermittente della freccia torni a rivelarla.

Adesso mette i brividi, quella faccia. Come se l’Angelo in questione si fosse trasformato in demone, e l’inferno in una ghiacciaia. Gelido, Francisco Marinho ricorda a Oscar che lui, a Torrematta, ci deve andare subito.

Ogni uomo ha i suoi talenti. Le sue inclinazioni. Le sue specialità. La specialità di Oscar – lo si poteva già intuire quando manipolava il proiettore, e adesso lo si capisce ancora meglio – non è evidentemente quella di mettere a fuoco.

Disegna un gesto circolare con la mano (Francisco Marinho ne percepisce il fiacco spostamento d’aria), come a dire che lui, prima, deve compiere il suo giro. Smontare. Rimontare. Controllare le bobine.

Come a dire, insomma, di starsene un po’ calmo. Zitto. Ad aspettare.

E Francisco Marinho, da vero leader, infatti resta calmo. Tace. Aspetta.

Se non ricorda male, terminato il muro a secco, c’è una curva. Eccola là, infatti, preceduta dal solito e inutile cartello (allarmante e incoraggiante al tempo stesso) Tutte le direzioni. La sua preoccupazione, ora, è che giusto questa volta il vecchio Oscar non si dimentichi la freccia. Ma l’omino è coscienzioso, metodico, affidabile, così, nell’esatto momento in cui torna a inserirla, il Maligno fa balenare nell’aria la lama del coltello. Sono dodici centimetri scintillanti di puro acciaio inox, e in questo caso Oscar non può, proprio non può fare finta di niente. Anche perché, per stare più sicuro, il nostro capo carismatico, il re delle meduse, il principe dei signori, i centimetri non si limita a esibirli, ma li appoggia tutti e dodici sul braccio dell’autista, che infatti sbanda neanche poco.

«Naaa, cé sei pacciu?!», stride Oscar all’unisono con i freni.

Ma questa volta è Marinho a non rispondere. Glaciale, si limita ad annunciare lo scacco – «Torrematta», scandisce – e poi aspetta che sia il suo avversario a desumerne le ovvie conseguenze.

Per il resto del viaggio osservammo un silenzio contemplativo. Quasi una veglia. Un raccoglimento. Dopo aver riportato il camion sulla litoranea, Oscar diventò una cosa sola con l’acceleratore, e non voltò la testa nemmeno quando superammo a tutta manetta la piazza di Campomarino, dove una dozzina di spettatori dall’espressione dapprima attonita, e subito dopo alquanto contrariata, si aspettava evidentemente di vederlo rallentare e scendere dal camion con la seconda parte di Profondo rosso.

«L’assassino è la vecchia!», urlai dal finestrino nel nobile intento di mandarli a casa più sereni, con la soluzione del mistero.

In fondo, perché no? Oscar era un povero diavolo e meritava d’essere aiutato. Non era colpa di nessuno se vivevamo in tempo di guerra.

Lui, comunque, non fece commenti, e tirò ancora un po’ il collo al suo rottame. Ogni tanto, a dire il vero, avevo l’impressione che un minimo di conversazione non gli sarebbe del tutto dispiaciuta. Ma, sarà stato per la distanza sociale e culturale che ci divideva, sarà stato per il fracasso che faceva il tergicristallo, o forse solo per la pressione della lama sul costato, Oscar apriva bocca, prendeva fiato e dopo desisteva.

S’era messo a piovere, intanto. Una pioggerellina lenta e negligente che sembrava esalare sull’asfalto, e dopo ritornava verso l’alto, grintosa, sotto forma di vapore.

Tempo di tregenda, a Torrematta! E un buio così fitto che l’unica cosa da vedere era la luce elettrica che se ne andava via.

Da queste parti, durante i magnetici anni Settanta, veniva il dubbio che le centrali elettriche si chiamassero centrali perché bastava non dico un vero e proprio temporale, ma anche un solo fulmine che per capriccio si fosse abbattuto in un raggio di chilometri e chilometri, per centrarle con una percentuale d’errore prossima allo zero.

Zero era anche ciò che ne seguiva. Un buio così compatto che ci sbattevi contro. Così poroso che si inghiottiva tutto, perfino le candele. Figuriamoci uno come Oscar, che già vestiva rigorosamente in nero e di rado abbandonava la sua espressione tetra. «Sono arrivato, Oscar», buttai lì, alla cieca. E subito dopo mi ritrovai sul ciglio della strada ad annusare l’aria.

Su quale terreno – acqua, cielo, terra – infuriava la battaglia? Dove combattevano i miei prodi? C’era odore di guerra dappertutto, lo sentivo. Un afrore che mescolava sterco di maiale e Monsieur de Givenchy.

Digrignando i denti, brandendo il coltello, mi precipitai verso la spiaggia. Poi sul molo. Alla giostrina. Dappertutto mi accoglieva un senso di macerie, di rovina (non sulla sabbia mi sembrava di avanzare, ma su un tappeto di cenere), come se la storia – tutta la Storia – fosse appena stata consumata.

Mi voltai sgomento dove (una volta, forse – quando il mondo non era ancora avvolto nelle tenebre) candido e fulgente spiccava il mio villaggio.

«E io dov’ero?!», mi chiesi. «Io... non c’ero...», e mi sentivo più incredulo che disperato.

Di fronte a me, intorno a me, dietro di me, con il suo fiato corto e un po’ pesante, alitava la guerra. E io non la vedevo. Io non potevo vederla.

Poi, all’improvviso, tutto fu chiaro. Non era la corrente a ritornare (ché quando se ne andava, a Torrematta, la velocità della luce smetteva di essere un fenomeno fisico e diventava un’astrazione su cui l’Enel poteva cincischiare per giorni) ma un lampo che, venendo giù dal cielo, scaraventò una manciata di luce sopra il mare, la spiaggia, gli alberi, i muri, fino all’interno della mia mente.

Lo Scheletro! Ecco dov’erano finiti tutti quanti!

Grondante, m’infilai tra le case. Come uno spettro che passa in mezzo ad altri spettri, attraversai le tremule ombre proiettate dalle candele, attraverso le finestre, sulla strada. Quindi voltai a sinistra e m’inerpicai verso la campagna. Il sentiero, adesso, era a ogni passo più sdrucciolevole, e la salita così ripida che la muta di cani che avevo alle calcagna faticò a starmi dietro.

Che raffiche di vento! E quel sordo brontolio, erano tuoni o gli echi della zuffa? Gli uni e gli altri, forse. Quando una scarica di fulmini rischiarò l’orizzonte, il brontolio diventò fragore, e – come una frattura ossea in una lastra – apparve distintamente in controluce il profilo dei miei uomini che, asserragliati in cima all’edificio, tentavano di arginare l’assalto dei cafoni.

Ora, i pilastri dello Scheletro erano una visione inquietante già alla luce del giorno. E non soltanto per l’incombere di tutto quel cemento sulle vigne e gli uliveti, ma anche perché – al di là del ferro ossidato che crepava le colonne, lungo le scale che portavano al niente, in mezzo ai sacchetti sventrati di calcestruzzo – scorgevi la precarietà dell’esistenza, l’infrangersi del tempo, il fallimento.

Che poi la costruzione fosse stata abbandonata in assenza di una concessione edilizia, per un dissesto finanziario o sotto le minacce della mafia locale, poco cambiava. Con le sue enormi piattaforme destinate a sostenere decine e decine di famigliole in vacanza, ciascuna nei suoi trenta metri quadri (i chili di sabbia che avrebbero trasportato nelle scarpe, le biciclette dei bambini, i flaconi di shampoo Pierrel al catrame vegetale), lo scheletro rimaneva lì, un totem a picco sul mare, a ricordarci che tra l’essere niente e l’essere qualcosa non c’era una crescita automatica e sicura, ma un’ampia zona di transito nella quale si poteva rimanere incastrati per sempre.

Da quel mostro di cemento, così come da tutte le cose inclini a turbarci, istintivamente ci tenevamo alla larga. Per quanto i cafoni ci stessero sul gozzo, preferivamo un bersaglio in carne e ossa alle forme evanescenti di certi pensieri.

Adesso però, in questa notte oscura, le insidie della guerra si confondono con le imboscate al cuore. Ed è perciò contro tutti, Francisco Marinho, che indistintamente ora devi lottare.

Contro i buzzurri. Contro il pensiero di Sabrina in groppa al Caballero. Contro questa strana inquietudine che ti attraversa. E che, se tu non fossi ciò che sei (un numero uno, un vero capo, un leader carismatico) dovresti forse rassegnarti a chiamare paura.

In realtà, Maligno, la paura tu non sai nemmeno cosa sia. Quindi, a rigor di logica, non si può nemmeno definire coraggio quello che ti spinge a insinuarti come un gatto – anzi no, come un giaguaro, un puma, un ghepardo, ché i cani, invece di azzannarti, abbassano la coda e si dileguano – all’interno del cantiere.

Non è coraggio. È puro istinto. È guerra. È ciò che deve essere.

Scruta nella notte, Francisco Marinho. E ogni volta che un lampo squarcia il cielo, imprimi nella mente ciò che vedi.

Ci sono Lucaviale, Vittorio, Sebo Conti e Toshiro Mifune barricati sul tetto. Di sguincio, assieme a loro, scorgi anche Girovitale e Topo Gigio. Più in basso, al piano di sotto, brulicano cafoni come topi. Scaleno, Culacchio, i Frati, Sorsodimieru, Tromba d’aria, Ricchio, Racchione, Duedipressione, Peluso, Scorfano, Leonardo il Mucculone, e ancora Iamme di ciola, Buttasangu, Acaro, Mezzarecchia, Fierrurussu, Pecuravecchia...

Matò, ma quanti sono?!

Ogni tanto, a drappelli, tentano un’offensiva. Ma, crollata ormai da tempo la scala in muratura, l’incursione deve passare per le fatiscenti impalcature ancora appoggiate all’unica parete esterna edificata.

Ci provano, i cafoni. Sgusciano sulle travi. Scaltri. Cauti. Silenziosi. Ma quando mettono le grinfie sopra il cornicione, i tuoi uomini (avanti!, così!, senza pietà!) sono lesti a mazzolarli sulle dita. A colpi di bastone. Pietre. Qualcuno col martello.

Il corpo d’assalto allora si ritira e ripiega nei trecento metri quadri sottostanti, dove il cemento risulta essere la cosa meno armata. Brandiscono di tutto, quei tangheri – manici di scopa, forchette, cacciaviti – ma niente sembra fare più paura dei loro ghigni belluini, delle urla disumane, di quel modo di ammucchiarsi l’uno addosso all’altro come bestie.

Scaleno sale su un tramezzo e ad ampi gesti istiga all’attacco decisivo. In massa. Tutti assieme. Così che per una, due, tre mani fracassate, ci siano almeno cinque dita in grado di aggrapparsi saldamente all’architrave e di issarsi sopra la terrazza.

La pioggia diventa nubifragio. I fulmini definitivamente un temporale.

Cosa puoi fare, Marinho, di fronte a tutti ’sti rovesci? Poco o niente, si direbbe.

Ma se è niente, distogli al più presto lo sguardo da una visione che ti spaccherebbe il cuore. E se invece è poco, questo poco fallo in fretta, ché qui tra un minuto si scatena l’inferno.

Mentre i cafoni, come vespe intorno al nido, cominciano a sciamare verso le impalcature, tu giri attorno all’edificio e, sul lato opposto, alzi lo sguardo e avvisti Topo Gigio che, voltando le spalle alla disfatta, giace riverso lungo il cornicione.

Bene!, pensi, seguendo un filo logico tutto tuo. Quindi torni indietro, a perdifiato. La tua Sergio Tacchini è ridotta a uno straccio. La piega dei tuoi Rifle, più che una zampa d’elefante, ormai ricorda il ventre di un rospo spiaccicato.

Pagherete pure questo, cafoni! Con quale moneta non lo so, ché siete nullatenenti e Rifle nemmeno avete idea di come si pronuncia. Ma pagherete!

Adesso però, o valoroso Marinho, oltre ai pantaloni dovrai sporcarti anche le mani. Rovista nella discarica. Trascina fuori i materassi (ne trovi tre e, per quanto laceri e sfondati, ammassati l’uno sopra l’altro dovrebbero bastare). Poi cerca in qualche modo di attirare l’attenzione del soldato Topo Gigio.

Già, facile a dirsi. Quello, marionetta senza burattinaio, sembra già spoglia mortale, e non reagisce né mentre ti sbracci né quando, con un grido soffocato, t’arrischi a un richiamo. Alla fine raccogli un sasso e lo colpisci in piena fronte.

«Topo Gigio», bisbigli indicandogli il labiale, «tenetevi pronti! Al mio segnale!», e molleggiandoti sopra i materassi lo esorti con cenni plateali a non temere. Poi ti fiondi di nuovo verso la discarica, dove, tra rottami di lavatrice, copertoni squarciati, cessi in frantumi, cocci di bottiglia, vecchie pantofole, il cofano di una Cinquecento, stracci, cartoni, ferraglie e altri rifiuti non meglio identificabili, rinvieni – quasi sepolti ma praticamente intonsi – due cassonetti per la spazzatura.

Chissà quanti, tra i bifolchi del luogo, nell’abbandonare sul ciglio della strada gli oggetti che la nuova civiltà dei consumi, sempre più in fretta, costringeva a scartare, sostituire, modernizzare, s’erano domandati cosa fossero quelle curiose navicelle in lamiera.

Avevano indugiato a lungo, immersi nelle schifezze fino alle caviglie. E alla fine, lungi dall’idea d’infilarci dentro la spazzatura, presumibilmente s’erano convinti che, non servendo a niente, era proprio lì, in mezzo ai rifiuti, che quegli oggetti misteriosi dovevano restare.

Ma ora, in questa notte tempestosa, tocca a te, Francisco Marinho, restituire un senso alla loro esistenza. Li spingi. Li trascini sul sentiero. Valuti la giustezza della traiettoria. Quindi, nel momento in cui l’assembramento dei cafoni sull’impalcatura ti sembra aver raggiunto la massima affluenza, con una spinta lieve, benevola – quasi una benedizione – sganci il primo siluro e, come nemmeno un figlio che per la prima volta guida una bici sprovvista di rotelle, lo segui con sguardo trepido lungo la discesa, finché non ti rendi conto che ormai niente, né una pozzanghera maligna, né un sasso traditore, e nemmeno quel destino che stanotte sembrava tanto avverso, potranno evitare l’impatto fragoroso sul nemico.

Matò, che schianto!

I ponteggi scricchiolano. Oscillano paurosamente. Sono sul punto di cedere.

Allora, sperando che il comprendonio dei tuoi prodi sia meno duro delle orecchie, gridi: «Fuori!», e spingi in direzione dello scheletro anche l’altro cassonetto.

Edotto dal primo lancio, eseguii balisticamente il secondo in maniera ancora più brillante. La base dell’impalcatura viene praticamente polverizzata.

I cafoni tentano precipitosamente di saltare all’interno dello Scheletro. Alcuni ce la fanno, dividendosi tra il primo e il secondo piano. Altri rimangono aggrappati ai pilastri, alle funi, alle travi pericolanti.

Quando, con l’aiuto dei compagni, riescono a trarsi in salvo, la situazione si è completamente rovesciata. Ora sono loro – i cafoni – gli assediati. Perché Lucaviale e i tuoi soldati, dopo essere planati più o meno indenni sopra i materassi, adesso presidiano il pianterreno. E non appena i nemici più pavidi – quelli che, sentendosi mancare la terra sotto i piedi, hanno pensato unicamente ad assecondare l’istinto di scappare – sbucano all’esterno, oltre alla pioggia trovano ad attenderli un diluvio di mazzate.

Matò, che fuggi fuggi!

Come un sacrilego rosario, sfilano i cafoni bestemmiando la Vergine Maria, mentre Scaleno dall’interno schiuma rabbia, strepita e urla di aspettare.

«Muoviamoci!», esclami. Adesso attaccare tocca a noi!

In assenza di mura perimetrali, entrare nello Scheletro è un solo balzo. Ti avventi su Culacchio, e subito i Frati ti si avvinghiano al collo.

Pugni. Morsi. Un paio di violente capocciate.

Colpiscono duro, ’sti selvaggi, ma ancora più duro ti colpisce il loro odore. Un afrore di zolla umida, di anguria marcia, di tana selvatica, che sconvolge i tuoi civilizzati sensi e li trasforma in una macchina da guerra.

Con le mani, con gli occhi, con la voce, col sapore della pugna che ti risale in gola: ogni parte di te semina il terrore. Ti scrolli di dosso i gemelli. Culacchio lo sbatti contro un palo. Con la coda dell’occhio vedi Vittorio e Sebastiano che inseguono Racchione, mentre Duedipressione si affloscia sotto i colpi di Mifune.

È un corpo a corpo. Ma colui che sotto sotto, questa notte, sta armando la tua mano ancora non si trova.

Riconosci Peluso. Avvisti Leonardo. Distingui Sorsodimieru. Intravedi anche scintillare il dente d’oro di Scaleno e passi oltre, ché non è lui stanotte la tua preda. Poi, alla fine, scorgi una sagoma sinuosa, quasi disarticolata, che cerca scampo arrampicandosi verso il primo piano.

«Tonino!», gli urli dietro. «Tonino detto Stonino detto lo Storduto!»

Ti getti all’inseguimento. Per avere una fama da svampito, quel cafone è furbo come una faina. E per vivere in un perenne stato di torpore, si arrampica come un forsennato. Una volta scalata la colonna, dal piano superiore aspetta che anche tu cominci a inerpicarti, e quando sei a un metro di distanza ti rovescia addosso un intero sacchetto di cemento a presa rapida.

Tu sei fradicio, e subito capisci che non è una bella cosa. Eppure non desisti. Con un colpo di reni sbuchi al primo piano, ti aggrappi al pavimento e ti metti a strisciare nella polvere.

«Aspetta», vorresti gridare, «solo una parola. Un breve colloquio. Un’informazione». Ma intorno alle labbra, lungo le guance, perfino sulla lingua, avverti già una strana morsa che t’impedisce di parlare. Anche le membra, ora, risultano alquanto appesantite, tanto che lanciandoti in tuffo su Tonino – e schiantandoti sul pavimento – il rumore che sembra di sentire è quello di una frana. Di un crollo. Di un muro che viene demolito.

Quel rumore, spiace dirlo, sei tu. Un blocco di cemento che piomba su un altro blocco di cemento.

Non si sa come, arpioni il polso di Tonino. Ma lo Storduto si divincola e si mette in testa di salire ancora. Al secondo. Al terzo piano. Di raggiungere anche il tetto. «Fermo», gli intimi, «tanto ti afferro!»

Ma poiché è inafferrabile già il suono che produci, non è facile darti credito.

Quanto peserai in questo momento, Francisco Marinho? E quanto può essere rapida una presa rapida? Non è facile rispondere, ché da una parte ti sembra di cementificarti più velocemente della periferia nord di Taranto, dall’altra, nel sollevare un braccio e abbrancare la caviglia del cafone, hai l’impressione di essere finito nella moviola di Sassi e Vitaletti.

Alla fine ci riesci. Lo afferri e lo tiri giù come la catena di uno sciacquone. Proprio come uno che esce dal gabinetto, ti concedi un sospiro. E il sapore del cemento ti invade la gola.

Finalmente Tonino è sotto di te, schiacciato equamente dal tuo peso e dal terrore.

Per maggiore sicurezza estrai il coltello dalla tasca e glielo metti sotto il naso.

«Lesso pappiamo», biascichi. O almeno, questo è quanto recepisce quel minchione, che infatti sbarra gli occhi e scrolla il capo.

Tu, puntiglioso, sei tentato di insistere – Adesso parliamo!, ho detto. Ma intuendo che tra pochi minuti farai fatica perfino a respirare, pensi bene di tagliare corto e senza altri preamboli gli domandi che fine abbia fatto sua sorella.

«Parla!», lo investi. «Parla, sciagurato! Dove sta? Che le è successo?»

Chissà Tonino che capisce. È uno Storduto, del resto. Di sicuro, dentro la sua testa, emerge qualcosa di profondo. Un’angoscia. Un senso panico.

Con la forza della disperazione ti scaraventa all’indietro. Poi, mentre ancora barcolli, uno dietro l’altro sferra un calcio, un pugno e una spallata. Così che tu – proprio tu, Maligno! – sei costretto a indietreggiare, a indietreggiare e ancora a indietreggiare. Fino a che, precipitando in quella che una volta, nei piani di un volenteroso ingegnere, doveva forse essere la tromba delle scale, non avverti finalmente un senso di rinnovata leggerezza.

Sei quasi senza peso, senti. E poi non senti niente.