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A Torrematta mi cercavano tutti, ma più di tutti mi cercava Tonino.
Tonino, invece, non lo cercava nessuno – e di questo un po’ si stupiva, ché i cafoni sono sì bestie randagie, ma non al punto da dimenticarsi per tre giorni di un figlio o di un fratello.
Eppure lui non se ne lamentava, né si sentiva troppo solo. Perché se è vero che nessuno lo cercava, è anche vero che lui aveva trovato qualcosa: un senso, un’idea, un progetto capace di trasformare il suo travagliato stato di Storduto in un’estasi voluttuosa, quasi paradisiaca.
Giacché non posso essere la vittima, pensò, sarò l’eroe. E di nuovo s’era lanciato tra le vigne e gli uliveti – senza imboscarsi, questa volta, ma perlustrando ogni anfratto, ogni tana, ogni recesso, e spargendo come sacchi di semenza sopra i campi il fecondo nome di Marinho.
Con le uniche risorse di due ciabattine e una vista dieci decimi, quel bastardino spelacchiato si era messo in testa di stanarmi, di riuscire laddove avevano fallito segugi di altra razza. E sul campo di battaglia dove erano caduti fior di latin lover – prostrati con anelli e sontuosi mazzi di rose ai piedi di Sabrina per riceverne in cambio i suoi favori – ora si avventurava lo Storduto, arzigogolando di esibirmi (proprio io, il fidanzato!) come un dono d’amore, un nobile gesto, un irrefutabile segno della sua devozione.
Non potrà non vedere, pensava Tonino, quant’è grande il mio cuore!
A dire il vero, rientrando alle due di notte, non solo Sabrina non vide la grandezza del cuore di Tonino, ma nemmeno si accorse della lunghezza delle sue gambe, piazzate di traverso davanti al cancello.
«Che minchia è?», s’interrogò di getto oscillando sugli zatteroni. Lo Storduto, che dormiva acciambellato sulla soglia come un cane, si svegliò di soprassalto, col risultato che il suo ideale femminino, l’angelo del cielo, la creatura dei suoi sogni (stava sognandola, infatti), dopo essere inciampata sulle sue caviglie, fu definitivamente disarcionata dall’impatto contro le ginocchia, e si andò a schiantare addosso all’inferriata.
«All’anima di chi t’è mmuerto!», ruggì tenendosi il naso.
Tonino, invece, non tenne a bada l’emozione. Gli scappò una discreta scorreggia, che vanamente provò a coprire col suo sommesso pigolio: «Sabrì! Ti sei fatta male, Sabrì?»
«Chi minchia sei? E che ci fai, davanti a casa mia?»
La luce dei lampioni era flebile come il polso di un moribondo. Se fosse stato più allenato a osservare certi dettagli, o se la luna avesse rischiarato per un attimo la notte, Tonino avrebbe forse notato il suo rossetto sbaffato. La camicetta alla rovescia. Che le mancava un orecchino. Invece, prono ai suoi piedi, lo Storduto notò soltanto che quel virgineo incanto rimaneva aggrappata al cancello, pronta a sbatterglielo in faccia nel caso si fosse avvicinato.
«Stai tranquilla, Sabrina. Sono Tonino, ti ricordi? La spiaggia. La cabina. Io sono quello che voleva...»
Come una rete sugli scogli, s’impigliò. A trattenerlo, questa volta, non erano le ristrettezze lessicali, né l’emozione, ma il suo stesso interrogarsi. Già, a pensarci bene: cosa aveva voluto fare? Immolarsi? Accattivarsi le grazie di Sabrina? O forse, una volta per tutte, dissociarsi da quell’invasato di Scaleno, da quell’assurda guerra, dal vento d’odio che soffocava Torrematta?
Qualunque fosse stato il suo intento (bastava guardarlo: solo, lacero, buttato ai bordi di una strada) Tonino aveva fallito. Eppure, dentro di sé, avvertiva di aver fatto qualcosa di grande. Talmente grande che, sentendosi lui ancora molto piccolo, confidò di avere almeno reso più imponente la statura morale di Sabrina, e facendola suonare come una moneta dentro al salvadanaio, completò la frase aggiungendo: «Salvare. Sì, io sono quello che ti voleva... salvare».
Ora, dal momento che per la mia fidanzata i pericoli maggiori si erano sempre concentrati intorno al funzionamento dell’asciugacapelli e alla chiusura anticipata delle profumerie, avrei messo la mano sul fuoco che il suo naso francese, già piuttosto provato dall’impatto sulla grata, si sarebbe torto ulteriormente in una sincera espressione di stupore, e che candidamente, ma anche un po’ seccata per tutti questi maschi che si agitavano intorno a questioni senza senso, avrebbe domandato: salvare da cosa?
Invece Sabrina non disse niente. Sospirò. Si morse le labbra come da tempo, ligia alla sua dieta, non addentava più nemmeno una fetta biscottata.
Poi, malinconica, scosse la testa, come a dire – caro Storduto – che anche in questo avevi fallito.
«Non ce l’hai una casa, Tonì?», mormorò alla fine, spossata, come se la stanchezza le fosse piombata addosso tutta insieme.
Una casa, per quanto fatiscente, Tonino l’avrebbe anche avuta. Ma come aprirne la porta? E a quale scopo? Sua madre era scomparsa. Sua sorella era scomparsa. Anche lui, sebbene nessuno se ne fosse accorto, era scomparso. Eppure lo Storduto, sollevandosi in piedi con una certa deferenza (come a dire che Sabrina, in ogni caso, per lui rappresentava un’entità sovrana) la guardò teneramente e le disse che a casa non rientrava finché il suo amato Maligno, il vero scomparso, non fosse ritornato sano e salvo al proprio focolare.
«L’ho cercato tutto il giorno, Sabrì. Mo’ mi riposo un poco, ché di notte, con ’sto buio, ti perdi anche da solo, e poi all’alba ricomincio. Vedrai, Sabrì, te lo riporto! Vedrai che torni a essere felice».
Matò! Dopo avermi quasi ucciso con il cemento armato, dopo essersi ribellato al proprio duce, dopo aver vagato per tre giorni in mezzo alla campagna cibandosi di bacche, così si offriva al mondo lo Storduto: come un mellifluo adulatore, un cuore di pezza, una caramella Sperlari!
Pensierosa, più ermetica di un cofanetto, anziché la caramella incarnata da Tonino, Sabrina sembrò scartare varie ipotesi. E alla fine, con una voce opaca, così bassa che – lei per emetterla, l’altro per udirla – dovettero guardarsi la punta delle scarpe, gli disse di non stare tanto a preoccuparsi. Di andare a dormire. Di lasciare perdere concetti complicati come la felicità.
Quindi, bruscamente, richiuse il cancello alle sue spalle e scomparve tra le rose del suo giardino.
C’era tutto il mondo, intorno a Tonino. Gli oceani. I continenti. Il firmamento. Ma aggrappato a quelle sbarre, affondando nel buio come in una palude, lo Storduto ebbe l’impressione di ritrovarsi dentro un’angusta prigione, e che la libertà – questo concetto enorme, inafferrabile – si applicasse unicamente ai confini della villetta vista mare che gli incombeva davanti.
Gettato sul marciapiede, Tonino lo Storduto è un biglietto accartocciato. Cosa ci sia scritto dentro, non importa più a nessuno. Tanto che a lui, per un istante, viene il desiderio di diventare un foglio bianco. O, meglio ancora, una linea lunga e nera sopra il nome di Sabrina Scopinculo. Sopra i suoi occhi azzurri. I suoi denti bianchi. Il suo smalto rosa.
Ma (anche questo, cancellarla) a cosa sarebbe servito? Per quanto facesse fatica a immaginare una solitudine ancora più profonda, forse soltanto a sentirsi ancora più solo.
È stanco di sé, Tonino lo Storduto – talmente stanco da respirare con affanno. Così che, quando Sabrina torna indietro, assieme al rumore del mare che s’ingrossa in lontananza, avverte nitido, vicino, il suono che fa un’anima quando deperisce.
«Tonì... Stai ancora là, Tonì?»
Lo Storduto è in dormiveglia. Ma tanto – ogni volta che sente la voce di Sabrina – tra sogno e realtà avverte poca differenza.
Torturando con la destra una ciocca di capelli e con l’altra – nel momento in cui gliela appoggia soavemente sulla spalla – il sistema ormonale di Tonino, la mia fidanzata lo prega di scusarla, e poi gli chiede a che ora pensa di cominciare le ricerche l’indomani.
Senza un filo di trucco, con un pigiama a tre bottoni e i capelli raccolti in una coda, poco resta della Scopinculo che ogni giorno sfilava lungo la battigia con il suo passo alla Veruska. Mai, in tutta l’estate, si è mostrata tanto coperta, eppure Tonino storna lo sguardo come se fosse completamente nuda. Comincia a farfugliare.
«Mah... boh... non so. Verso le cinque, le sei: quando fa luce».
«Matò», trasale Sabrina, e per lo stupore anche lei si mette a balbettare (sebbene, allo Storduto, pare ovviamente un cinguettio): «Ci... Ci... Cinque?! Sei?! Ma il sole sorge davvero così presto?»
Mortificato, come se fosse colpa sua, Tonino allarga le braccia. Lei le incrocia. «Vabbè», concilia alla fine, «facciamo le sei e mezzo e non se ne parla più».
Il cafone rimane sul posto. È evidente che, al contrario, lui vorrebbe ancora parlare; non solo per mantenere, alimentare, se possibile assaporare all’infinito quello stato di prodigiosa intimità, ma anche per capire meglio, alle sei e mezzo, cosa mai sarebbe dovuto accadere.
Sabrina intuì il suo smarrimento. Ma siccome, anche sotto il pigiama, scalpitava sempre uno spiritello capriccioso e poco tollerante, sbuffò platealmente in faccia alla sua disorientata faccia da Storduto.
«Uffa, insomma», tagliò corto. «Vengo con te: il mio Angelino lo cerchiamo insieme».
Poi, con scorbutica premura, notò che cominciava a fare freddo, e ruvidamente, come se in realtà gli stesse dando un gran ceffone, schioccò un bacio sulla guancia di Tonino, gli schiaffò tra le mani una coperta, e annunciò che lei, quelle misere quattro ore, se le andava a dormire nel suo letto.
«Buonanotte», concluse con il tono di chi avrebbe potuto dire vaffammocca.
Qualche decina di chilometri a sud-est, con il tono sommesso, estenuato, quasi languido con cui avrei potuto dire buonanotte, io intanto rinunciavo con un definitivo vaffammocca, dopo ore di vani tentativi, a rianimare quel catorcio, e dichiaravo in rapida sequenza: 1) l’Ape di Scaleno ufficialmente morto, 2) lui sempre e comunque destinato all’estinzione, e 3) il pressoché morituro Marinho Francisco detto il Maligno avviato a un meritato e non più prorogabile sonno.
La notte passò sul mio corpo: ancorché breve, come un’onda lunga sopra la battigia.
Quando aprii gli occhi, davanti a me, l’alba sovrastava la città – la sua candida pietra, i campanili, i loro abbaglianti fianchi dirupati. Sembrava una corona di sangue e di spine.
Torrematta. Alle sei e mezzo Tonino è perfettamente sveglio. Cioè, sveglio come uno che per tutta la notte non ha chiuso occhio.
Sulle carraie, lasciano il segno pesante delle ruote i trattori colmi d’uva. Sulle sue occhiaie, a lasciare il segno della notte, un autotreno carico d’attese e un mal di testa a grappolo.
Scusandosi non per il ritardo, ma per l’approssimativa stesura del suo rimmel, alle sette meno un quarto Sabrina Scopinculo varcò la soglia del cancello, rimirò lo spettacolo lunare del viale ancora deserto, e poi chiese a Tonino come avesse dormito.
«Io malissimo», aggiunse senza dare allo Storduto il tempo di rispondere. Quindi, con passo da sonnambula, s’incamminò verso la saracinesca a mezz’aria del Bar Pedro.
«Scusa Tonì, ma se non faccio colazione non ragiono», sbadigliò sull’ammaccato frontespizio del cafone; il quale, in quanto a ragionamenti, stava agganciato alla scia di Sabrina con la stessa consapevolezza di un veicolo in avaria.
Era talmente a rimorchio, Tonino lo Storduto, da seguire perfino il suo esempio, quando lei sparò un calcione a bruciapelo sul muso del randagio sdraiato sulla soglia.
Come se l’atto stesso della masticazione fosse un ineffabile prodigio, la contemplò in silenzio mentre divorava due ciambelle alla crema. E tanto più rimase ammutolito allorché Sabrina, dopo una minuziosa ispezione al maquillage, ripose lo specchietto e lo esortò a pagare in fretta, ché era assurdo buttarsi giù dal letto e dopo restare a gingillarsi: «No, Tonì?»
Ecco quindi che, nell’aurora di quel giorno per lui pieno di pathos, di emozione, di poesia, la prima frase che Tonino è costretto a pronunciare assomiglia sì a un verso, ma un verso gutturale: «Uh?... Pagare? Ma veramente, Sabrì... io soldi non ne tengo!»
Abituata al portafoglio di Marinho, che a ogni piè sospinto volteggiava dalla mia tasca ai suoi bisogni con l’agilità di un’Olga Korbut, lei lo guardò come se non avesse capito. Poi, come se avesse capito, ma la cosa, comunque, non la riguardasse, emise uno strano «A!» (forse un semplice ruttino con il quale dimostrava che la colazione era stata di suo gradimento), e infilando un altro paio di ciambelle in un cartoccio, tirò su il naso e scivolò verso l’uscita.
«Ti aspetto fuori», disse stampandogli addosso uno dei suoi sorrisi più smaglianti.
Dopo un’ora che brancolo tra facciate barocche e retrospettive neorealiste (sono migliaia le biciclette contro i muri), anziché il sorriso a me si sono smagliati tutti e due i calzini. Guardo i passanti e mi sembrano indisposti, malati di un morbo che li rovina dentro. Però nemmeno uno sa indicarmi la via per l’ospedale.
Scusi, permette, per piacere. Chi mi vede non m’ascolta. Chi m’ascolta non mi vede. Quando trovo qualcuno che mi vede e m’ascolta, dopo un minuto sente la ferale esalazione che proviene dalle mie ascelle, e si congeda in fretta pure lui.
Alla fine penso che potrei lasciarmi andare sul selciato e aspettare che arrivi un’ambulanza. Alla fine, con il cervello scartavetrato e le gambe di cartapesta, penso che dovrei.
Un cartone animato, sembra Tonino. Fin troppo veloce, concitato, frenetico. Figuriamoci se, alle sette di mattina, Pedro ha intenzione di corrergli dietro per quattro cornetti e un cappuccino. Piuttosto, riflette, l’anno prossimo chiude baracca e burattini, saluta tutti e se ne va in pensione. Anzi, se ne va e basta. Senza salutare proprio nessuno.
(E vaffammocca a Torrematta. Vaffammocca a questo posto che ti ruba l’anima.)
Tonino, invece, non ha mai rubato niente in vita sua. E per quanto spinga forte non riesce a seminare la paura, il rimorso, la bava sudicia che gli cola dentro. Si ferma solo quando, nascosta dietro un angolo, come un petardo Sabrina gli fa scoppiare il nome suo tra le caviglie.
«Tonì», ridacchia. «Ma dove corri? Si può sapere dove scappi?»
Tonino scrolla le spalle. Ha il fiatone. Non lo sa.
«Sei buffo», osserva lei sistemandogli i capelli. Poi si ferma, abbozza un sorriso, e infine gli ordina di sbrigarsi, di andare a prendere il motorino. Le biciclette. O insomma, quello che c’ha lui.
Nel contatto tra le dita affusolate di Sabrina e la sua fronte, la temperatura corporea di Tonino sale repentinamente. È quindi in uno stato alterato, febbricitante, che deve trovare le parole per comunicare alla mia fidanzata di non disporre di alcun mezzo di locomozione. Non le trova, ovviamente, ma Sabrina afferra lo stesso il concetto.
«Vuoi dire che siamo a piedi?», esclama sbigottita. «Che dovremmo cercare Francisco Marinho chissà dove, vagando sotto il sole come due balordi?»
Qualunque cosa significhi balordo, lo Storduto s’emoziona all’idea di esserlo assieme a Sabrina, e gli scappa un’altra flatulenza.
«Andiamo bene», commenta Lady Eleganza, e si sistema nervosamente il foularino.
Ospedale Vito Fazzi: più che un edificio, sembra un muro che separa il dolore dal resto del mondo. Una lapide. Un finis terrae verticale.
Sotto gli archi, attorniato dalle frecce puntate su un campionario di disgrazie senza fine (Chirurgia, Cardiologia, perfino un Medicina Generale consono al mio rango di supremo comandante), ti muovi – Marinho – quasi senza peso. E capisci che questa leggerezza (ancora ben lontana dal potersi ritenere una nuova acquisizione) non ha niente a che fare con il tuo stomaco vuoto, e forse nemmeno con i litri di sangue che hai versato nel cammino. È piuttosto il progressivo smarrimento della tua ragione sociale, del nocciolo dell’io, del nome che sempre t’innalzava e dopo ricadeva come un maglio sulla vita, a mo’ di prova schiacciante di un destino: Francisco Maligno!
Appoggio le ossa rotte al cartello che dice Ortopedia, e sento che – letteralmente – perdo conoscenza: che accanto alla scia tracciata dai bidoni, ce n’è un’altra lasciata dalla mia anima. E così vivo è il senso di un’amputazione, di una lama che recide ciò che è stato (o forse solo decisiva la mia rassegnazione), da sollevarmi di scatto, con un ultimo sforzo, e affrontare a testa alta il reparto Accettazione.
Quante cose si accettano, in nome dell’amore. Fossero tutte giuste, niente da ridire. Ma Tonino – adesso che Sabrina, dopo le ciambelle, lo spinge anche a fare un buco in una rete per fregare un’Aurelia Dino – nella sua tachicardia avverte invece qualcosa di sbagliato.
Ondeggiando sul sellino, lei gli sfiora appena i fianchi con le dita, ma in realtà lo tiene in pugno. E stringe pure un poco.
Mica pensava fosse così soffocante, l’amore. Mica pensava si dovesse faticare così tanto, Tonino lo Storduto.
Sabrina gli dice di girare sul sentiero e lui gira. Gli chiede di fermarsi a raccogliere le more e lui si ferma. Lo esorta a ripartire e lui, sudato fradicio, riprende a pedalare.
Finalmente, a un certo punto, si gettano lungo una discesa.
«Secondo te», gli urla Sabrina nelle orecchie, «il mio fidanzato è ancora vivo?»
La differenza tra vivo e ancora vivo non la capisci, finché non entri in un posto come questo. Sedie a rotelle, fleboclisi, conati di vomito. Tanta di quella sofferenza da farti capire che la differenza tra ancora vivo e quasi morto non esiste.
Sono qui come bravo ragazzo, annuncio. E il pensiero mi incattivisce.
Sono qui per un gesto d’amore. E istintivamente li odio tutti.
(Matò, Francisco Marì, com’è dura, e aspra, e sanguinosa, la guerra del cambiare!)
Quando un infermiere mi fa notare che sto imbrattando il pavimento, mi sfilo la maglietta e provo a tamponare. Le crepe nei bidoni sono sempre più larghe. Le mie imprecazioni, in dialetto sempre più stretto.
«Ma stai male? Sei ferito?», mi chiede. E io – senza troppa convinzione, consapevole di dire una bugia – scuoto il capo e dico: «No».
Bastava immergersi nell’acqua, fare qualche bracciata e poi voltarsi verso riva, per rendersi conto di che sputo fosse Torrematta. Da Torrematta, però, non eravamo mai riusciti – né signori, né cafoni – a percepire veramente l’immensità del mare, e tantomeno quanto fossero vasti i confini della terra che si apriva alle nostre spalle.
Nel mare ci sputavamo dentro, sul resto del mondo ci sputavamo sopra.
Mentre io perdevo prima la strada e poi me stesso nel tentativo di salvare l’esistenza di un bifolco, suo figlio (più bifolco ancora) perdeva le speranze di ritrovare il capo dei signori, e la mia fidanzata quelle di recuperare il suo fermaglio in madreperla (sciagura!).
«Sabrì, ma sei sicura che ti è caduto qua?»
«Uffa, Tonì! Storduto proprio, sei!»
Batte i piedi. Alza un po’ di polvere. Poi crolla a capo chino.
Per qualche istante si muovono appena le lucertole. Si sente unicamente il frinire dei grilli. E Tonino vede soltanto che Sabrina non ha più nessuna voglia di parlare: un filo d’erba in bocca, le si accovaccia docilmente accanto e comincia a rimuginare in silenzio.
Ci ha messo poco, lo Storduto, a sovrapporre alla ricerca di Marinho quella di un angolo assolato nel cuore della mia fidanzata: ma, in un caso e nell’altro, sempre di brancolare in mezzo al buio si trattava! E anche Sabrina, dopo aver misurato con lo sguardo l’orizzonte, sembra aver sostituito l’obiettivo iniziale della caccia con un rovello che comunque non riesce ad afferrare.
Le sfugge un sospiro. Le sfugge cosa è giusto e cosa è sbagliato.
«Tonì», se ne esce – a fari spenti – dal tunnel dei suoi ragionamenti. «Tu sei felice, Tonì?»
Parcheggiato in zona rimozione, da qualche minuto Tonino non pensava più a niente. Faticosamente, in pratica a spinta, si sposta nella corsia di emergenza e tira fuori la gomma di scorta – una mezza Brooklyn gusto peppermint tutta ciancicata.
«Vuoi, Sabrì?»
Come solo lei riesce a fare, la mia fidanzata scuote vigorosamente la testa pur mantenendo la piega del parrucchiere, e avverte lo Storduto di non girarci tanto intorno. «Mi scappa la pipì», annuncia disinvolta. «Tu intanto, però, devi rispondere. Sei felice o no, Tonì?»
Sabrina si solleva la gonna. È solo acqua che crepita sui sassi, ma Tonino ha l’impressione che sia il fuoco di una mitragliatrice. Quante volte s’era chiesto, contemplandola dall’altra parte della strada, cosa avesse dentro quella femmina impenetrabile! Ed ecco che una parte di lei ora scorreva acre in un rigagnolo che gli lambiva il piede.
«Oh, furbacchione, non girarti», lo punzecchiò Sabrina. «E vuota il sacco».
Lo Storduto deglutì, o almeno provò a farlo. Quando gli uscì la voce, era rigida quasi quanto i muscoli del suo collo.
«Bah... Boh... Non so. Cioè: sì, sono contento. Non mi manca niente».
E si afflosciò – appunto – come un sacco vuoto.
Sabrina scoppiò a ridere. Tonì – pensò – hai l’aria che non mangi da tre giorni, non hai una lira in tasca, dormi buttato sul ciglio di una strada, e non ti manca niente? Nemmeno la sfiorava che, in quel sacco, il vuoto fosse lei.
«Badate bene che le taniche, quando sono partito, erano piene».
Il dottore consulta con un’occhiata il suo collega. Entrambi mi appaiono un po’ tardi.
«E invece», smanio, «bisogna fare in fretta! Bisogna prendere ’sto sangue e iniettarglielo immediatamente nelle vene!»
Anziché concentrarsi sul nome dell’infermo, mi chiedono distrattamente qual è il mio. Anziché scorrere il registro di Ematologia, quando ribadisco che la mia missione è di fornire sangue fresco, salubre, rubizzo al lì ricoverato Cosimo Papella, s’impuntano su quello dei degenti in Psichiatria. Vedendomi a torso nudo, emaciato non meno che irrequieto, alla fine qualcuno suggerisce una camicia di forza.
«Figuriamoci», mi ribello. «Indosso soltanto Pierre Cardin!»
Dopo dieci minuti si rassegnano. Ma è una rassegnazione poco convinta – per certi versi ilare. «Va bene, va bene, non ti agitare. Ora controlliamo l’elenco dei pazienti», e intanto si strizzano l’occhio l’uno all’altro.
Altro che paziente – se non ti sbrighi, i testicoli che (forse) nascondi sotto il camice, ti strizzo! Direttamente in Rianimazione ti faccio trasferire!
Ma poi mi accorgo che se ora il medico di guardia stringe gli occhi, è per guardare meglio. Per controllare l’allineamento sul registro. Per decidere che linea è il caso di seguire.
All’improvviso è serio – praticamente tragico: «Scusa, ragazzino», si rivolge a Marinho da sopra gli occhiali, «tu chi hai detto che saresti – ’nu parente?»
Sabrina, per Tonino, era una dea. Come tale gli sembrava inquietante, ma nello stesso tempo coerente, che – schiacciandole sadicamente sotto il sughero della zeppa, o rovistando nel loro nido con un bastoncino – rivendicasse potere di vita e di morte non solo sulle formiche, ma sull’intero regno animale: dagli imenotteri alla bestia che era. Come tale (lui bestia e lei nume celeste) non gli sembrava nemmeno troppo strano mettersi in ginocchio e pregarla.
E infatti adesso era là, come davanti a un altare, che senza parole le chiedeva il miracolo di essere amato. O almeno la bontà di spiegargli come facesse, una creatura così meravigliosa, a dichiararsi profondamente, irrimediabilmente, infelice.
«A te», constatò, «che può mancare?», mentre lei, issandosi su un muretto a secco, sistemava sotto il suo culo tanto rinomato l’anonima maglietta di Tonino. Poi, vergognandosi un po’ del torace striminzito e un po’ della sua audacia, lo Storduto si affrettò a precisare: «A parte Marinho, si capisce».
Le ciglia di Sabrina erano così lunghe che, quando le batteva, si sollevava un refolo di fresca tramontana. Lo fece cento volte, tanto che le sue parole (pronunciate controllando nello specchio la tenuta dell’ombretto) sembrarono a Tonino polvere d’oro buttata nel vento.
«Mah... Sì, cioè no... Non so... Forse è vero, non mi manca niente. Ma è proprio questo il punto, Tonì. Anche quando mi prendo tutto, lo stesso non sono felice».
Tonino esibì una di quelle espressioni che gli avevano procurato la fama di Storduto. Come può non mancarle niente, pensò, se il suo amore è scomparso da tre giorni? Se potrebbe essere morto? Se c’è il rischio di non ritrovarlo mai? Chiuse gli occhi e provò a immaginare che non avrebbe più rivisto Sabrina Scopinculo, e stranamente, assieme al brivido d’angoscia che attendeva, alla spina che puntualmente gli si conficcò nel petto, avvertì un senso di sollievo, una strana quiete, quasi una pace che ricordava la penombra della sua camera da letto – dove pure, tante volte, la sua solitudine divampava come una guerra.
«Il fatto è», si sentì dire, «che la vita non è mai la somma delle cose che otteniamo. C’è sempre qualcos’altro che cambia il risultato. Che ci fa essere (chissà come, chissà perché) felici o infelici».
Sabrina, intenta a ritoccarsi il profilo delle labbra, rimase con la matita tra le dita e la bocca spalancata. Nel guardarlo, prima le cadde la matita e dopo la mascella.
«Matò, Tonì, filosofo sei!»
Vergognoso (in entrambi i sensi, ché il suo pudore era un’ignobile manfrina), lo Storduto dondolò il capoccione. Per sottrarsi allo sguardo di Sabrina non sapeva più dove appoggiare il suo: il mistero femminino, in quel momento, gli pareva in cielo, in terra e in ogni luogo.
«Che filosofo, Sabrì?! La terza elementare, tengo».
E forse per paura che, dopo quella patetica ammissione, il calore della sua ammirazione si sciogliesse, un sorriso cominciò a tremargli sulle labbra.
«Ma piangi o ridi?», ammiccò Sabrina; e siccome lo Storduto, tutto congestionato, incassava con la stessa legnosità la testa nelle spalle e i pizzicotti che la mia fidanzata gli infliggeva lungo i fianchi, perfino a quella femmina poco incline alle facezie venne spontaneo dire: «Tonì, sarai pure filosofo, ma se non sai nemmeno la differenza che c’è tra piangere e ridere – altro che terza!, all’asilo ti dovevano bocciare!»
«Piangi? Ridi?», lo punzecchiava senza tregua, e intanto era lei che si sbellicava come nemmeno lontanamente – nemmeno quella volta che la portai a vedere Cinque matti al supermercato – io ero mai riuscito a farla sganasciare. Era un’allegria infantile, liberatoria, disancorata dalla disciplina militare del suo sex appeal: come se, all’improvviso, Sabrina avesse realizzato che, in quella landa di pruni, stoppie e sterpaglie, non si aggiravano maschi da sedurre né femmine da mortificare.
C’era solo Tonino, che (vai a capire se quella prerogativa lo rendeva il primo o l’ultimo degli uomini) un po’ alla volta le sfilava dalla mente la spinosa incombenza di sentirsi in ogni istante a un défilé, e – con rispetto parlando – le estraeva lentamente anche dal culo quella scopa che l’aveva sempre sostenuta.
Rovinò a terra, infatti. E su quelle ginocchia levigate, così dolci e rotonde che sembravano due pesche zuccherine, si aprirono due larghe sbucciature. Cessò subito di ridere. Anzi, affondata nella polvere, con la testa tra le mani, proruppe sotto gli occhi sconcertati di Tonino in un pianto disperato.
Adesso non piangere, Francisco Marinho. Non versare una lacrima. Ché forse sta in questo, in una goccia che trabocca, ciò che trasforma l’eroe piantato saldamente al centro dell’arena in un fuscello sradicato dal vento.
Eppure non è facile. In un frangente dove tutto – dal tuo corpo smagrito al tono della voce con cui ti viene ribadito (perché insisti?) che Cosimo Papella è deceduto – ti appare alquanto secco, davvero non è facile rinunciare al bisogno di ammorbidire, di irrorare, forse anche di coltivare la speranza di un germoglio che rinasca.
Tutto ciò che avevo vissuto, nei miei primi quattordici anni, aveva avuto un senso. Tutto, una destinazione. A chi era diretto, invece, quel fallimento? Che scopo aveva avuto staccarsi dalla riva?
All’improvviso, dentro l’angusta anticamera, mi sentii in mare aperto, e cominciai ad annaspare. A dibattermi. A bere quell’aria amara e salata.
«Non è possibile», mi sbracciavo. E schizzando spruzzi di sangue sul camice bianco dei dottori, tentai di aggrapparmi alle ultime, irragionevoli, speranze: «Non è che siete stati precipitosi? Non è che si può fare ancora qualche cosa?»
Con una certa enfasi – forse per dirmi che, se uno respira, non è poi così difficile accorgersene – il medico sospira profondamente, e nel ribadirmi che il papà di Mela è trapassato alle cinque di stamani, ruota il registro dalla mia parte, così che possa verificare con i miei occhi non solo l’inequivocabile sentenza (deceduto, c’è scritto con una calligrafia fin troppo chiara rispetto all’oscuro mistero della morte) ma anche quant’è lunga (incredibilmente, impensabilmente lunga) la lista di coloro che, mentre io avanzavo con passo marziale sotto il sole della vita, retrocedevano di reparto in reparto, fino alla Lungodegenza o addirittura all’obitorio, fissando muri in ombra e lampadine al neon.
Come un’estrema unzione, aspergo il nome di Cosimo Papella dei miei residui schizzi di saliva. «Ultima ipotesi», farfuglio. «Uno scambio di persona! Non è che l’avete confuso con un altro Papella?»
Per qualche secondo, abbandonato sulla poltroncina, il dottore sembra valutare se sarebbe più faticoso gettarmi fuori a calci o assecondarmi in via definitiva. Propende per la seconda ipotesi. Torna a scorrere l’elenco.
«Niente, mi dispiace», allarga le braccia. «Abbiamo un altro Papella, ma è una donna: Papella Carmela, classe 1960. Ricoverata per ustioni di terzo grado e shock anafilattico in seguito a massiccia aggressione di meduse».
Non riesco nemmeno a sentire l’altro che, arricciando il baffo, bofonchia che si tratta di un tentativo di suicidio («Con delle meduse! Assurdo, no?», commenta ridacchiando).
Una parte di me si è già lanciata lungo le scale. L’altra – quella che ora conta meno – si accascia priva di sensi sulle taniche, rovesciando sul pavimento anche l’ultima spanna del sangue che restava.
Tra le allucinazioni con cui l’estate del ’75 marchiò le nostre giovani menti, quella di scambiarmi con Cugginu è certamente una delle più deliranti. Eppure, se Tonino, piegato nell’anima e nel corpo sul pressoché inanimato corpo di Sabrina, ebbe l’impressione di vedere la mia sagoma stagliarsi contro il sole, non si deve soltanto al suo temperamento di storduto, né al fatto (ahimé) oggettivo che – per quanto, si capisce, con stile di guida ben più rozzo – Cugginu cavalcasse il mio antico destriero.
Nel modo di puntare su Sabrina, nello squarciare la fissità della controra urlando il suo nome in lontananza, c’era infatti un senso naturale del possesso che solamente al mio dominio, al mio essere numero uno, leader indiscusso, capo carismatico, poteva essere ragionevolmente ricondotto.
Durò poco, in effetti, il grottesco abbaglio: se pure, orbato dal terrore, Tonino chiuse gli occhi per non vedere, lo schianto del ceffone sulla tenera guancia di Sabrina sancì definitivamente la mia assenza, ché non soltanto mai una volta nella vita Francisco Marinho avrebbe potuto sollevare la sua mano contro un corpo femminile, ma nemmeno si sarebbe astenuto dall’abbatterla sul disgraziato che si spingesse a tanto.
«Schifosa! Svergognata! Stanotte mi prendi la pizza ’n mocca, e la mattina dopo te ne vai in giro con ’stu minchialiri?»
Tonino pensò di fare un passo avanti, e ne fece uno indietro. Sabrina, che all’irrompere dell’energumeno già piangeva, rimase ferma a quelle lacrime – senza asciugarle, senza versarne altre.
Nel torcerle il braccio dietro la schiena, lui allentò la seta del suo foulard, rivelando sull’altrettanto serico collo di Sabrina due o tre macchie che, a seconda della prospettiva, risaltavano blu come il suo sangue o nere come le unghie di Cugginu.
Gli occhi, adesso, Tonino li aveva spalancati: ma ugualmente tutto si offuscava. Cosa stava succedendo?, avrebbe voluto chiedere. Ma la domanda rotolava su se stessa come una frana di detriti, e dopo rimbalzava su Cugginu che, trascinando Sabrina per i capelli, con l’altra mano gliela restituiva sotto forma di sassate da mezzo chilo l’una.
«Se ti avvicini ti stacco la testa. E a te, Sabrì, te la stacco se di nuovo ti allontani!»
Per forza di cose, allora, l’interrogativo scivolò sullo sguardo della (non più) mia ragazza, che – come un cerbiatto preso in trappola – esprimeva sì sgomento e raccapriccio, ma anche profonda sottomissione. Obbedienza. Forse, perfino, complicità.
Come a dire che nel nuovo mondo siamo tutti delle prede. Che non esistono più regole, né tradimenti. Che apparteniamo a chi ci prende.
E soprattutto, Tonì, come a dire che non devi sforzarti di capire: questa storia di potere, di forza, di feroce e crudele evoluzione, non è cosa per storduti come te.
Il rapace la caricò sul Caballero e se la portò via così, con un orribile stridore di freni e di denti, calpestando con i mocassini a punta la sua gonna plissettata.
Lei non fece una piega nemmeno quando lo sputo di Cugginu, rivolto un po’ a Tonino e un po’ al resto del mondo, le ritornò in faccia controvento.
Me lo merito, pensò Sabrina, e poi sorrise come una donna adulta.
Quanto allo Storduto, rimase a lungo lì, piccolo piccolo contro l’enorme tronco di un ulivo, a ripararsi con le mani sulle orecchie dal silenzio assordante che era sceso. Poi, al tramonto, attraversò di nuovo i campi, ritornò a Torrematta e percorse il viale a passi lenti, a capo chino, come una processione che riguardava solo lui.
Mentre intorno si tendevano a decine le corde sui bagagli, nel suo cuore si allentava qualcosa – che, pure, assomigliava a una fine e a una partenza.
Sono triste? Disperato? O forse, addirittura, un po’ contento? Non lo sapeva neanche lui. Non sapeva più niente, Tonino detto Stonino detto lo Storduto. Eppure, dentro, sapeva di avere una strana pace – che poi, altro non era se non la fine della guerra.
Abbandonato sul marciapiede, come un sacco della spazzatura sventrato dai cani, vide da lontano ciò che restava del suo capo. Gli occhi grigi erano nebbia. La cicatrice una ruga del tempo. Lui, un residuo del passato.
Quando Cugginu gli passò sotto il naso, stringendo tra le cosce il Caballero e appoggiato con la schiena al seno di Sabrina, Scaleno si conficcò il dente d’oro nelle labbra.
Non apriva bocca, il re dei cafoni. Cedeva il passo alla nuova specie. A quell’alba rovesciata che nemmeno la nostra bellissima, eroica, inutile guerra aveva saputo rimandare.
E anche quando Tonino, accelerando appena il proprio passo, gli sfilò davanti, anziché la solita sfilza di improperi, anziché – come aveva promesso – strappargli a morsi la giugulare, Scaleno emise un flebile lamento e non disse niente: ché, semplicemente, più niente aveva da dire.
Intorno a loro, immagino, Torrematta era bellissima.
E dico immagino, perché io non ci tornai mai più.
E dico bellissima, perché mai più Torrematta è ritornata da me.