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Il mese di luglio lo trascorsi così. Assorto. Solitario. Un mezzo anacoreta.
Tappato in casa, senza proferire verbo alcuno, guardavo la tv.
Non tanto i programmi – che iniziavano soltanto nel tardo pomeriggio – quanto proprio l’apparecchio. Anzi, a dire il vero mi catturava soprattutto nelle ore in cui era spento, quando potevo contemplare riflessa nello schermo la mia sagoma pressoché pietrificata.
Anch’io non mi accendevo mai prima del tramonto.
Immobile. Impassibile. Apparentemente privo di energia.
La mattina aspettavo a letto che arrivasse l’infermiera a medicare le ferite. Che le disinfettasse. Che mi facesse le iniezioni. Quindi mi alzavo e mi spostavo sul divano, dove bivaccavo per il resto della giornata. Per quanto costretto dal coccige contuso a cambiare spesso posizione, laddove solitamente stazionava il nostro cocker adesso risaltava l’impronta del mio culo. A sentire il medico era soprattutto lui (nel senso figurato di fortuna, buona stella, provvidenza) che dovevo ringraziare, se una caduta da oltre quattro metri si era risolta con un trauma cranico, una trentina di punti di sutura e qualche ecchimosi.
Ma io non pensavo al culo. Pensavo al capo.
«Guarirà anche quello», disse il dottore. Senza comprendere che Francisco Marinho, di un taglio sulla testa, se ne fa un baffo.
Era l’essere capo che mi preoccupava. La leadership. Il mio carisma.
Può il numero uno dei signori soccombere all’ultimo dei cafoni e mantenere intatto il suo prestigio?
La mattina cercavo una risposta dentro me stesso.
Il pomeriggio, invece, quando il sole cominciava a declinare, schiudevo la finestra e interrogavo il mondo esterno. Gli schiamazzi che salivano dalla spiaggia. I cantanti nel jukebox. L’esercito nemico all’orizzonte.
«È sempre tutto uguale?», mi chiedevo. Ma era come se domandassi a loro di confermare che io ero ancora io.
(«Come stai oggi, Marinho?», mi domanda Lucaviale senza smontare dalla bicicletta. Non rispondo e gli faccio cenno di salire. «Grazie», bofonchia, ma poi rimane aggrappato al cancello e non si muove.
«Be’?»
«È un po’ tardi».
«Tardi per cosa?»
Il mio luogotenente fa un gesto vago con la mano. Solleva le spalle. È imbarazzato.
«L’hai visto Eddy Merckx al Tour de France?», cambia discorso.
Io scuoto la testa e sento che la fasciatura – anche quella – mi fa male. «No», gli dico, «non l’ho visto». E dopo non troviamo altro da dirci.
Sembriamo stanchi. Appannati. Quasi esausti. Tanto che Lucaviale riparte come se il Giro di Francia l’avesse appena corso lui.
Dalla finestra lo seguo con lo sguardo, e solo quando arriva in cima alla salita mi rendo conto che l’andatura lenta e sgraziata dipende dalla sua vecchia bicicletta.
È diventata troppo piccola. O meglio, è lui che è diventato troppo grande.)
Quando poi, intorno a mezzanotte, mi calavo dal balcone, percorrevo il vialetto di ghiaia in punta di piedi e aprivo il cancello lentamente, con cautela, per non farlo cigolare, mi sembrava quasi impossibile che lungo quella strada polverosa, sotto quel cielo intarsiato di stelle, oltre quelle tremule lampare, si stesse ancora combattendo una guerra spietata.
Chissà, forse era finita davvero. Forse intorno al mio corpo esanime, là dentro lo Scheletro, signori e cafoni per la prima volta s’erano guardati in faccia e avevano deciso di smetterla. Di deporre le armi. Di non spargere altro sangue.
Seduto (come potevo) sui faraglioni, ripensavo continuamente alla sera del cinemino. E mettendola a confronto con la quiete che mi circondava, mi accorgevo che stare lontano dalla battaglia non era niente in confronto all’angoscia che provavo adesso nel sentirmi escluso dalla pace. Tant’è vero, ragionavo, che da Porto Selvaggio fu possibile trovare la strada per Torrematta e gettarmi nella mischia, mentre in queste ultime notti – per quanto cambiassi di continuo posizione, per quanto dagli scogli mi spostassi sulla spiaggia, e poi lungo il marciapiede, sotto i lampioni, fino al porticciolo – una strada che permettesse al mio cuore di raggiungere la pace non la trovavo mai.
Quindi mi alzavo e camminavo ancora. Oltre la pescheria di Ciccio ’o gnure. Fino alle giostre. Verso i cafoni. Seguivo una pista, e quella pista non faceva altro che ricondurmi a me stesso.
C’erano nuovi nemici, in quell’estate del ’75. Ed erano dentro di noi.
Ci agitavano. Ci molestavano. Ci inducevano a smaniare. Sabrina, per esempio, non faceva altro che afferrare la borsa, uscire di casa e nervosamente ritornare indietro, combattendo tra il bisogno di essere guardata e quello di nascondere le ferite lacero-contuse che tappezzavano il suo corpo statuario.
Era stata brava, Sabrina. Quasi impeccabile – nonostante la pioggia – fino a Campomarino. Quando purtroppo, nello scalare una marcia, i suoi dieci centimetri di tacco rimasero incastrati nel pedale del cambio, e proditoriamente – con la stessa prepotenza con cui, nelle passeggiate sul lungomare, la innalzavano a rango di donna ormai formata – la scaraventarono a terra come uno straccio informe.
Nell’impatto, il destino della fidanzata e quello del motorino, sempre così intrecciati nel mio cuore, si separarono. Fortunatamente, devo dire, ché se la traiettoria di Sabrina, anziché smorzarsi sul ciglio della strada, avesse seguito quella del Fantic Motor Caballero, forse dallo scontro col guard-rail anche lei sarebbe uscita in mille pezzi, pronta per essere raccolta dallo sfasciacarrozze.
Da quella notte pure Sabrina mi evitava. Ce l’aveva con me per l’incidente o si sentiva in colpa perché aveva demolito il Caballero? Era offesa o mortificata? Non riuscivo a capirlo.
Quanto a me, cosa provavo veramente? Rabbia? Tenerezza? Contrizione?
Quando mi ero presentato al suo capezzale, m’ero sentito come una statua di sale – incapace di sciogliermi, di presentare il conto, di metterne un po’ nei nostri commenti.
«Come stai, Sabrì?»
«Così così, Angelì».
Distogliemmo l’uno dall’altra lo sguardo, e questo fu tutto – a parte sistemarle i cuscini e avvicinarle il mangiadischi. E sì che, nel nostro mènage, avevamo sempre vissuto i silenzi in comunione di beni, come un’oculata forma di risparmio. Mentre adesso – si vedeva – stare zitti gravava sui nostri bilanci personali come un deficit, un ammanco, uno scoperto che, anziché rivelarci, ci nascondeva perfino a noi stessi.
All’ennesima replica di «Piange il telefono», prima che Modugno domandasse per la quinta volta se mamma è vicina a te, alzai una mano, poi – con molto sforzo – gli angoli della bocca, e infine – quel tanto che bastava – la voce per annunciare che io andavo. Matò, com’era diventato tutto complicato! Astruso! Faticoso!
Perfino attraversare la strada e affacciarsi sulla spiaggia, da sonnacchioso gesto quotidiano, poteva ora rivelarsi un’operazione irta di insidie. Me ne resi conto una settimana più tardi, quando, nascosto dagli scuri, con il mio binocolo Richomatic 110 Deluxe inquadrai Sabrina che percorreva il suo vialetto. Aveva con sé il telo da mare, un Lancio Story e il collare ortopedico. Timidamente dischiuse il cancello e, sostenuta dal braccio premuroso della sorella di Franzoso – erre moscia e contegno da stoccafisso – anziché costringere le macchine a inchiodare di fronte al suo incedere, come faceva di solito, esitò con sguardo incerto fino a essere sicura che il viale fosse vuoto, e infine, con passo più incerto ancora, l’attraversò mordicchiandosi le labbra.
Più cresciamo, pensai, più diventiamo piccoli. Insicuri. Pieni di timori.
Del resto, se il collare avesse consentito alla mia fidanzata di voltarsi, Sabrina si sarebbe resa conto che, effettivamente, qualcosa di temibile accadeva alle sue spalle. Che, su quel tratto di lungomare, i pirati della strada non costituivano l’unica minaccia.
C’erano altri pirati, nascosti tra le dune, e si chiamavano Scorfano e Peluso. Il primo, come al solito, aveva gli occhi a palla e la bocca spalancata. I lineamenti del secondo, invece, erano sempre più occultati da una folta peluria che dal mento gli risaliva sugli zigomi, si diradava appena intorno alle orbite oculari e infine ritornava irsuta a compattarsi nelle più spaventose sopracciglia che fronte umana abbia mai accolto – sempre che quella modesta spianata, incalzata dall’attaccatura dei capelli, potesse davvero definirsi fronte (e soprattutto umana).
Due autentici rapaci annidati tra le fratte.
Scortarono le ragazze con lo sguardo fino al sentiero che conduceva alla spiaggia. Poi, quando Sabrina vi si addentrò, uscirono allo scoperto e rimasero lì, al centro della carreggiata, a confabulare; fino a che due o tre colpi di clacson non li invitarono perentoriamente a mettersi da parte. Scorfano e Peluso non si scomposero. Nemmeno sollevarono lo sguardo. Arretrarono di un metro, verso il ciglio della strada, e lasciarono sfilare la Centoventisei con apparente deferenza. Quindi, appena sentirono che ingranava la seconda, caricarono le fionde, mandarono in frantumi il lunotto posteriore e, lanciando raccapriccianti ululati, si diedero alla fuga.
Era tutto un fuggire e un rincorrere, in quell’estate del ’75.
Anch’io – era chiaro – inseguivo qualcosa. Finché una notte, vagando per Torrematta con un’espressione impenetrabile che sembrava la maschera di Belfagor, mi resi distintamente conto che qualcuno seguiva me.
Drizzai le orecchie. I seggiolini della giostra, altrimenti detti calcinculo, oscillavano nel vento. La luce fioca dei lampioni illuminava a stento il marciapiede. Sotto le bende sentivo le tempie pulsare.
Che ora poteva essere? Più o meno le tre di notte. Troppo tardi per la gente per bene. Ma anche troppo presto per i cafoni, che pure si alzavano prima dell’alba.
I pescherecci, osservai, erano ancora tutti all’ancora. Le reti aggrovigliate sugli scafi. Le cime lente a pelo d’acqua.
Un gatto, allora? Un cane randagio? No, quelli non erano passi di animale. O almeno non di una bestia comune. Sembrava piuttosto un rivolo d’acqua. Un ruscelletto. Un gorgoglio.
Certo, l’acqua non cammina. Scorre, però. E quel suono scorreva – come una corsa senza passi – se io lo affrettavo. Ristagnava se io rallentavo. E quando attraversavo, deviava il suo corso verso la parte opposta della strada.
Mi fermai. Si fermò. Intorno alla mia testa ronzavano zanzare, e dentro tipici pensieri da supereroe Marvel. Così, quando anche il neon del lampione cominciò a ronzare intermittente, con una precisissima sassata misi fine alla sua blanda resistenza. Assieme a una cascata di schegge, s’infranse sull’asfalto un cono oscuro, nel quale prontamente m’infilai. Sgusciando dietro il muricciolo che divideva il marciapiede dalla spiaggia ritornai indietro carponi. Adesso non avvertivo più una liquida presenza alle mie spalle, bensì – tutt’intorno – un’entità fluttuante. Rarefatta. Quasi aeriforme.
Di qualunque cosa si trattasse, io avevo già in serbo nelle nocche ’nu sciacquadienti alquanto solido! M’acquattai, pronto a scattare. La testa mi pesava sulle spalle. Le spalle mi pesavano sul busto. Il busto mi pesava come una scultura in marmo.
Fu sorprendente, quindi, la leggerezza con cui balzai al collo della preda. Mai però quanto lo stupore di ritrovarmi di fronte quel viso devastato, sfregiato dall’orrore della guerra.
Nonostante ignorassi il suo nome, la sua voce, i suoi pensieri – nonostante, a pensarci bene, non avessi mai davvero inquadrato la sua faccia prima di allora – quasi che il pronome della seconda persona singolare fosse un petardo sotto il culo, saltai per aria e, senza esitazioni, a colpo sicuro, proruppi in uno stentoreo: «Tu!»
Se ’sto tu venne fuori forte e chiaro, il lei con cui i più timorati, per non pronunciarne invano il nome, indicavano quella specie di icona semovente che dalle elementari mi affiancava da first lady (più che Vittoria Leone, una pantera trionfante) spesso serpeggiava appena sussurrato.
Lei – Sabrina Scopinculo – era una ragazza molto ordinata. Precisa. Metodica. Ci metteva sempre un tanto per raggiungere la spiaggia. Un tanto per cospargersi di creme. Un tanto per entrare dentro la cabina e annodarsi il pareo.
Dico un tanto perché poco non è certo avverbio che si addicesse alla mia fidanzata – dal profumo che si spruzzava addosso al numero di scarpe in suo possesso, Sabrina tendeva piuttosto all’abbondanza. Ma io stesso – anche quando l’aspettavo giù al portone col Caballero acceso – non avrei saputo dire se quel tanto consisteva in secondi, minuti primi o interi quarti d’ora. Quando c’era di mezzo Sabrina, bisogna ammetterlo, il tempo diventava una lisergica astrazione.
Nondimeno – questo tempo – i cafoni s’erano messi in testa di cronometrarlo. Un minuto e mezzo, secondo Peluso, per raggiungere l’ombrellone. Cinquanta secondi, a detta di Scorfano, per sistemarsi sulla sdraio. Tre minuti, concordarono, per ungersi e sintonizzare la radio.
Si trattava, neanche a dirlo, di misurazioni del tutto empiriche, ché un cafone con l’orologio al polso era più raro di un gol di Longobucco.
«Uno, due, tre», partivano zelanti nel conteggio. Poi, nel giro di una manciata di secondi, la faccenda iniziava a ingarbugliarsi – si distraevano, perdevano il conto, saltavano come se niente fosse da una decina all’altra, riscrivendo (in base alle loro sfocate nozioni) le regole del tempo.
«Cé stai dicendo, stueticu? ’Nu minutu sessanta secundi, tiene!»
«Lu minutu tua, Pelù! Nellu miu cento ce ne tràseno!»
Sessanta o cento secondi che contenessero, Scorfano e Peluso si attardarono qualche minuto tra le dune a discettare. Poi, zampettando a piedi nudi tra la sabbia rovente e gli scogli aguzzi, si allontanarono ragliando come somari isterici. Dalle loro narici dilatate era evidente che qualcosa eccitasse i loro istinti. Le curve di Sabrina, certo. I suoi bikini a fiori. Ma anche un prurito luciferino che saliva da dentro. Un pensiero losco e morboso come le decine e decine di sguardi che si addensavano sulla sua procace silhouette: dietro ogni cespuglio, infatti – bava alla bocca e occhi di brace – se ne stava rintanato un orrido cafone.
Culacchio, Tromba d’aria, Sorsodimieru – a cui mai, in altri tempi, sarebbe venuto l’ardire non dico di avvicinarsi alle nostre case, ma anche solo di sollevare lo sguardo e rimirarle, adesso se ne stavano lì sul sacro suolo come scaracchi al centro di una chiesa. Passo dopo passo, seguivano i movimenti della mia fidanzata. E anziché ripensarli la sera, nello squallore delle latrine, col metro delle proprie erezioni, ora tentavano alla luce del sole di stimarli in minuti secondi. Quindi – via! – scoordinati e diacronici come le loro misurazioni, si precipitavano verso la parte opposta della spiaggia, dove uno Scaleno particolarmente su di giri, per una volta, non li accoglieva armato di randello, ma del mozzicone di matita con il quale annotava tutti i tempi e, a suo modo, li sommava.
A cosa mirasse tutto questo, Francisco Marinho, nemmeno il tuo sesto senso avrebbe potuto immaginarlo. Né si può dire che toccare con mano, guardare, sentire – fare ricorso, insomma, agli altri cinque – sarebbe stato sufficiente a definire le intenzioni di Scaleno, che si gira e si rigira il suo foglietto tra le mani e sembra quasi divertirsi a fare il misterioso. Alla fine lo accartoccia, infila sull’orecchio la matita, e – facendo scintillare il dente d’oro – comunica alle truppe che ha capito.
Non dietro le dune. Non in mezzo alla pineta. Non tra gli anfratti della scogliera. Il posto migliore per sfoderare la pizza davanti a Sabrina Scopinculo, dice, è senza dubbio la cabina.
Sotto il sole di mezzogiorno, il volto di Tonino detto Stonino detto lo Storduto si fa scuro. È notte fonda, dentro i suoi occhi a mandorla, e la cosa non può che ricordare gli occhi a mandorla di sua sorella Mela dentro il fondo (anzi, il doppio fondo; ché io mi ci nascondevo) di quella notte lungo il litorale.
«Mela», commentai sarcastico. «Agreste. Campagnolo. Molto fresco».
Lei scrollò le spalle – se potevano definirsi tali quelle alucce appiccicate sulla schiena – e specificò che era il diminutivo di Carmela, tipo.
Anche le mandorle, a guardare bene, erano diminutive. I suoi occhi, infatti, ne ricordavano il profilo allungato, ma non avevano né la consistenza un po’ vischiosa del frutto appena colto, né il gusto secco, amarognolo, delle mandorle tostate. Sembravano invece – sì, liquidi; o in certi momenti addirittura vaporosi, così che ogni espressione, da quegli occhi, sembrava uscire rilassata, quasi illanguidita, come da un bagno caldo. Senza parlare – ma soprattutto senza fretta, placidamente – Mela mi guardava e mi poneva (per la verità le lasciava lì, tra me e lei, a sgocciolare) una lunga fila di domande.
Quella che avrei voluto rivolgerle io, invece, era succinta come i costumi della mia fidanzata – per quanto lunghi, lunghissimi, fossero stati i giorni e le notti in cui m’aveva tormentato (la domanda e, spesso, anche la mia fidanzata).
Eppure non usciva – non riuscivo, nemmeno con lo sguardo, a dire semplicemente come stai?
Adesso che fai, Francisco Marinho, abbassi la fronte? Davanti a una femmina? A una povera cafona? Che sarebbe, mo’, questo strano imbarazzo?
Come tutte le volte che qualcosa mi scombussolava, che minacciava l’ordine precostituito, il primo istinto fu quello di aggredire. Di menare le mani. Di prenderla di petto.
«Stupida che sei!», le ringhiai sotto il muso. «Vuoi farti ammazzare, che mi segui a quest’ora di notte?»
Mela aggrottò la fronte e mi mostrò l’altro profilo; come a dire che, ad ammazzarla, c’ero già andato vicino una volta. Sulla guancia destra l’impronta della medusa spiccava ancora viva, come un marchio a fuoco.
Eppure (si è già detto degli occhi di Mela) su quel fuoco, quando inclinò leggermente la testa, sembrò quasi scivolare un rivolo d’acqua.
La fiamma si spense e lei, con una frase, m’incenerì.
«Mio fratello Tonino ti porta le sue scuse. Vorrebbe sapere, tipo. Capire come stai».
Forse, in quell’estate del ’75, davvero si disperdevano nel vento le ceneri di un rogo che era stato. Da quando in qua il nemico ti porge le sue scuse? E da dove venivano queste nuove forme del discorso – Capire? Sapere? – in luogo dell’unico verbo che quella guerra ci aveva sempre spinto a declinare: combattere, combattere e ancora combattere?
«Tuo fratello è un vigliacco», risposi – appunto – combattivo. «Cosa fa, manda avanti le donne? Non lo sa che, in tempo di guerra, le donne stanno a casa?»
Mela si grattò la punta del naso. «Quale guerra, scusa?», domandò perplessa e nello stesso tempo incuriosita.
Come una fiera acquattata nell’ombra, Torrematta incombeva su di noi. Io avrei voluto mostragliela, indicarla con un gesto ampio della mano che inglobasse anche la spiaggia, l’oscurità del mare e il silenzio felpato della campagna. Ché la guerra stava dappertutto, come l’aria – salvo il fatto che l’aria la respiri e quella guerra, invece, il respiro lo toglieva.
«Che c’è, stai male?», chiese Mela. Io, tutto a un tratto, annaspavo.
«Stare male è una cosa da femmine», balbettai. «Io non sto mai male. Io... sono solo ferito».
Mela si sollevò sulla punta dei piedi e osservò, intorno alle bende, il sangue raggrumato. Per quanto – dal suo sguardo ondivago, dall’oscillazione del suo corpo – sembrava quasi che non sopra, ma dentro la testa mi guardasse, muovendosi a tempo con il mio capogiro.
Quindi annuì, come a dire che capiva. Ma che cosa capisse – quello no, era incomprensibile (cafona era, del resto. E per di più femminea!).
Così come non capivo perché mai, in una notte così lunga, spaziosa, e perfino leggermente ventilata, mi ritrovassi relegato a quel respiro corto, angusto, da salita; quasi che Torrematta, all’improvviso, non fosse più il mio mare, ma un sentiero di montagna sempre più scosceso.
Riuscii appena a notificarle che nella guerra in corso, a voler essere precisi, lei e io eravamo acerrimi nemici – e dopo fui costretto ad appoggiarmi al muretto un’altra volta.
«Vabbè, nemico o no», disse lei, «tu non stai bene... cioè, volevo dire... sei ferito, tipo. Vuoi sederti? O proviamo a camminare piano piano?»
Erano le tre di notte. La strada deserta. Il marciapiede in penombra.
Ma anche se fosse stato pieno giorno, con la spiaggia zeppa di bagnanti e il lungomare intasato, sarei rimasto – io credo – invisibile agli sguardi della gente. Perché nessuno, osservando l’atletico Marinho – il capo, il leader, il signore dei signori – sostenersi al braccio d’una volgarissima cafona, avrebbe potuto credere davvero ai propri occhi.
Al contrario, fomentando i loro istinti più bestiali, quello che poco più in là Scaleno cercava di fare con la sua immonda ciurma era proprio rendere reale, nitido, visibile il pensiero di Sabrina Scopinculo, colta nell’atto noumenico e quasi trascendente di varcare la soglia della propria cabina.
’Sta cabina, ai tempi in cui le spiagge erano libere, altro non era che un capanno fatiscente, accozzato in disparte tra le dune.
Le spiagge – ripeto – erano libere. Eppure nessuno si azzardava a violare le regole. Da una parte i cafoni, dall’altra i signori. E, sulla spiaggia dei signori, da una parte i coscritti, la soldataglia, gli ordinari, e dall’altra il corpo ufficiali (con un’area speciale per quello della mia fidanzata).
Ognuno al suo posto: questa era la nostra libertà.
A nessuno, né tra le femmine né tantomeno tra noi maschi, veniva dunque in mente di contestare la potestà assoluta che Sabrina Scopinculo esercitava su quello che, all’inizio, noi avevamo definito il cacatoio, ma che dopo il suo tocco personalizzato – un attaccapanni della Standa di qua, un tappetino in moquette rosa di là – per tutti era ormai diventata ufficialmente la cabina. Giusto quando toccava i massimi vertici della civetteria, o se era in vena di farmi ingelosire, nell’annunciare che si ritirava in cabina Sabrina aggiungeva, a mo’ di specifica, dintru lu spugghiatoio.
Così che nessuno, neanche un santo, avrebbe potuto fare a meno di realizzare che là dentro, tra quelle pareti marcescenti, Sabrina si spogliava veramente.
Quanto ai cafoni, si sa che i santi li bestemmiavano con disinvoltura. Erano diavoli, piuttosto. Demoni. Infami satanassi. E nel momento in cui Scaleno evocò quella parola – Spogliatoio! – il corpo nudo di Sabrina s’impadronì fiammeggiante delle loro anime nere, peggio della copertina di un lp di Fausto Papetti.
Matò, che clima rovente quell’estate a Torrematta!
I cafoni grondano sudore. Dilatano le froge. Dandosi di gomito, e poi assestandosi sonore manate sulla fronte, tentano inutilmente di scacciare i pensieri dalla testa, come le bestie provano a scacciare le mosche con la coda.
«La cabina è il posto perfetto», ribadisce Scaleno. «Quando va a cambiarsi lu costume».
Come piano di battaglia, tuttavia, è ancora troppo ermetico. O quantomeno, per la loro natura piuttosto grossolana, ’sta perfezione risuona inafferrabile e quasi minacciosa. Mentre Scaleno si alza e va a scaracchiare dentro l’acqua, i cafoni si scambiano sguardi interrogativi e s’esortano l’un l’altro a domandare chiarimenti.
«Scalè», rompe infine gli indugi Leonardo il Mucculone, «perfetto per cosa, Scalè?»
Dopo avere assolto le proprie missioni (un po’ approssimativamente, è vero, ma solleciti e pieni d’entusiasmo) adesso, per quei capacchioni, arrivava puntuale il momento più difficile. Ragionare. Concludere. Chiedersi, davvero, il significato delle cose.
In fondo, la differenza tra un buzzurro semplice e la cafonaggine complessa di Scaleno era tutta lì. È sempre tutta lì, la differenza con il numero uno. Con un vero capo. Con il leader carismatico.
Il capo pensa e dopo agisce. Gli altri agiscono e dopo – non sempre, se capita, comunque a fatica – ripensano a quello che è accaduto.
«Tu sì ’nu fesso, Mucculò», constatò Scaleno trapassandolo nelle palle degli occhi.
Il suo sguardo era gelido e insieme incandescente. Fissava Leonardo, ma era evidente che, al di là dell’espressione vacua del proprio soldato, cercava qualcosa.
Guardava oltre, Scaleno. Non lungo l’orizzonte o verso l’isolotto (ché, gira e rigira, il nostro mondo quello era, senza un vero inizio né una fine), ma oltre le linee della sua febbre, là dove il semplice calore umano diventava un torrido ansimare.
Allungando il collo, fiutando l’aria, era me – sempre me – che Scaleno cercava.
E se, fino ad allora, per raggiungermi, scavalcarmi, infliggermi la nauseabonda visione delle sue terga, si era sempre comportato come una bestia al giogo – che più si sforza di inseguire la libertà e più sente gravare sulla schiena la propria schiavitù – adesso osservando Scaleno sembrava di cogliere l’animale nel momento della sua evoluzione. Quel momento, preludio a una diversa intelligenza, a una trasformazione, forse anche a una nuova specie, faceva davvero paura.
Niente più testa bassa. Niente più cieca ostinazione. Scaleno misurava la distanza avanti a sé; e per il timore che il salto risultasse troppo corto, ora decideva di allungare la rincorsa. Arretrando, arretrando, e arretrando ancora, negli inferi della sua selvatica natura.
C’era buio, là in fondo, latebra e caligine. Tanto che Tonino e i suoi compagni, pure avvezzi a vedere Scaleno avvolto nelle tenebre del male, facevano quasi fatica a riconoscerlo. A seguirlo negli anfratti della sua truculenza.
«Siamo noi meno cattivi», si chiedevano, «oppure è lui che è diventato più feroce?»
Né l’una né l’altra cosa, probabilmente. Erano i tempi che stavano cambiando. E Scaleno, che per primo coglieva il passaggio di stagione, già si vedeva dentro il mondo nuovo, dove avere avrebbe determinato l’essere (signore, cafone, o quel poco che restava), mentre l’essere non avrebbe determinato un accidente.
Avere la mia donna. Prenderla. Se possibile – chissà, forse è proprio questa, mentre ammutolisce all’improvviso, l’immagine che sta realizzando – possederla prima di me.
Scaleno sbatte le palpebre. Sospira. Si gratta la pizza. Perfino lui, adesso, sembra non avere tanta voglia di sudare. La nequizia, certo, gli si legge in volto (è terribile, raccapricciante, spaventosa) ma rispetto allo Scaleno smanioso e concitato che lottava per lottare (perché questo – lottare per lottare – era la guerra, l’epica, il destino) anche la sua cattiveria appare sbrigativa, spiccia e – come dire? – più concreta.
Puro istinto. Per questo – senza uno scopo pratico, senza un’effettiva strategia – aveva sempre combattuto.
Ora Scaleno combatteva – con ferocia, eppure improvvisamente calmo – soltanto per centrare un obiettivo.
Arrampicarsi. Evolvere. Diventare lui, il signore.
Per questo, ’sto maiale, voleva a tutti i costi la mia donna.
Per questo, dopo, avrebbe voluto la mia casa, il Caballero, le Lacoste con i Camperos. Per questo, infine, ogni volta che i suoi occhi color piombo puntavano i soldati, lo sguardo sembrava fare fuoco.
Dentro di lui – all’interno di quel sanguinaccio putrido che aveva in zona cuore – li odiava, quei mocciosi.
E se un giorno, veramente, il mondo fosse stato rovesciato, ribaltato, frantumato, al punto che una briciola di potere rotolasse perfino tra le mani di Scaleno (Matò, perfino tra le mani di Scaleno!), potevi stare certo che – come prima cosa – l’avrebbe usata per cancellarli tutti quanti dalla faccia della terra.
«Bestie che siete! Come ve l’aggia a dicere», sbottò, «che a Sabrina Scopinculo io la pizza ci devo mostrare?!»
Ormai volava alto, il mio rivale.
Ma anch’io, più o meno nello stesso istante, ero molto distante dalla terra.
Non che i seggiolini della giostra fossero sospesi a chissà quale vertiginosa altezza. Ma insomma – io là sopra mi sentivo molto più vicino alla luna e al Piccolo Carro che all’enorme carrettata d’immondizia sparpagliata sul piazzale.
Mela e io eravamo due mondi. Due pianeti lontani anni luce che un refolo di vento faceva avvicinare, sfiorare, toccare quel tanto che bastava perché un urto leggero tornasse a separarci.
(Quando ci separammo, con tutto che l’urto era leggero, mi sembrò un po’ il big bang. Quando ci separammo, con tutto che eravamo lontani anni luce, mi sembrò di cadere dentro un buco nero.)
Eppure, ben altri scontri aveva visto quella giostrina! Non più tardi dell’estate precedente – racconto ridacchiando a ’sta sciocchina – con una pedata così precisa e robusta che dire calcinculo è dire niente, avevo scaraventato il seggiolino di Racchione talmente oltre le leggi della fisica che, attorcigliandosi intorno a quello di Pecuravecchia, era praticamente rimbalzato all’indietro, investendo in pieno Duedipressione. Ti rendi conto, Mé? La deformità di Racchione si trasfigurò in pop-art, Pecuravecchia avvampò come un abbacchio al forno e Duedipressione sembrò quasi raggiungere centottanta di minima.
«Maligno! Maledetto!», aveva urlato Scaleno dal tiro a segno, mentre io balzavo audacemente sulla spiaggia e mi dileguavo nella notte.
«Ah, quindi sei un eroe», commentò Mela. «’Nu satanasso, tipo».
Non era facile capire quando scherzava. Il suo sorriso obliquo, un po’ beffardo, scintillava nella notte.
«’Nu cosa?», dissi. «Mica ti capisco quando parli. E poi, scusa, perché dici sempre tipo?»
I seggiolini, cigolando, disegnarono nell’aria due traiettorie sghembe, e poi si affiancarono di nuovo.
«Cosa faccio, io?»
«Dici sempre tipo, tipo, tipo. A ogni frase».
«Ma ogni frase tipo?»
«E che ne so? Tipo questa, per esempio».
Mela ci pensò sopra. Se eravamo due pianeti, per qualche istante ci fu eclissi di luna, ché lei ruotando mi voltò le spalle e si rabbuiò.
«Boh», concluse. «Non ci ho fatto caso. Sarà una di quelle cose che faccio senza rendermene conto» – e a momenti le scappava un altro tipo.
Non era l’unica, evidentemente. A cominciare da quella conversazione con il capo dei nemici, che Mela sosteneva con un candore disarmante. Come se niente fosse. Così – come se niente fosse, toccandomi disinvoltamente il culo – aveva sostenuto il mio (ancorché malconcio) prestigioso corpo da leader carismatico, mentre m’arrampicavo con per me nuove e imbarazzanti difficoltà lungo il pilastro della giostra.
Eppure, tutto sembrava fuorché una sprovveduta. E se, da una parte, la naturalezza di Mela evocava l’elementarità della sfera animale, dall’altra – dalla sua figura – scaturivano geometrie meno globali, dando l’impressione di poterti colpire con una tecnica individuale più complessa. Tutt’altro che rudimentale. Quasi raffinata.
Alla fine, per quanto le tre cose appaiano incompatibili: a) volevo darle addosso, b) stavo sulla difensiva, c) mi sentivo del tutto rilassato.
«Ma a te, scusa, non fa proprio nessuna impressione stare qua a parlare con me?»
Aspettò che l’inerzia dei seggiolini ci riposizionasse accanto, spalla a spalla, e mi osservò con attenzione. Poi, tradendo un certo impegno a non essere sarcastica, ma di fatto implacabile, mi chiese se per caso si sbagliasse.
«Non sei Francisco Marinho, tu? Quello che chiamano il Maligno?», s’informò. Aveva un ginocchio sotto il mento. E sopra il mento un caustico sorriso.
«Eh», dissi io.
«Eh», disse lei.
Quindi restammo diverso tempo in silenzio. Pensierosi. O almeno io pensavo, elucubravo, rimuginavo. Mentre Mela riservava la sua concentrazione a un vermicello che, strisciato chissà come fin là sopra, le camminava indisturbato sul dorso della mano.
«Che schifo», commentai. E nel chiederle perché non lo schiacciasse, già presagivo una femminea risposta sulla concordia universale, sul rispetto per la natura, sulla fratellanza tra tutte le creature (di bestia su bestia, del resto, si trattava).
Mela invece non aprì bocca. Scrollò appena le spalle. Poi, con una voce così affilata che avrei potuto tagliarmici le unghie, spregiudicatamente fissò il verme e disse: «Dopo. In caso. Se mi va».
Matò! Quella sua disinvoltura mi turbava. Ero abituato a essere ossequiato, temuto, rispettato. Anche offeso, molte volte; ingiuriato dai nemici. Ma mai trattato con la spiccia familiarità che mi riservava ’sta perfetta sconosciuta.
Eppure – torno a dire – non stavo male. Anzi, sospeso tra il cielo e la terra, tra il campo di battaglia e la volta sconfinata che si tendeva sopra la nostra inimicizia, per la prima volta avevo la sensazione che la parola guerra non fosse soltanto un cruento scontro di destini, un sanguinoso ministero, un voto imperituro, ma la schermaglia effervescente, frivola, perfino giocosa, tra due elementi semplicemente un po’ diversi.
«Sai che fifa avrebbe tuo fratello», provai a stuzzicarla, «nello stare così incollato a me? O Culacchio, i Frati, Leonardo il Mucculone! Anche Scaleno se la farebbe addosso, a venirmi tanto vicino».
Con un colpo di reni, più che vicino, Mela mi venne addosso.
«Si sa che voi maschi vi cacate sotto per niente», disse. E poi, fissandomi sfrontata, si sollevò sul seggiolino, puntellandosi soltanto con le braccia.
Erano spigolose e sottili come le sue insinuazioni, quelle braccia. Ma, come le sue insinuazioni, esercitavano una forza che mi trovava impreparato.
«Stai attenta che cadi», la sgridai. Quindi le chiesi com’è che diceva tutte ’ste volgarità. «Le femmine», feci notare garbatamente, «non dovrebbero dire nemmeno una parolaccia».
Mela sgranò gli occhi e mi chiese che intendessi: «Staminchia, tipo?»
Aveva un sorriso da squilibrata. E infatti, dopo un attimo, le braccia cedettero e Mela perse l’equilibrio.
«Matò!», gridai. «Metti subito quel culo sulla sedia!»
I nostri sguardi si scontrarono. Ma mentre il suo assomigliava a uno specchio d’acqua, il mio ci cadde dentro con un tonfo (un tonfo che – forse – era il mio cuore).
Che fai, Francisco Marinho? Mo’ ti preoccupi per una cafoncella? Fremi come una mammoletta al pensiero che si possa sfracellare sul selciato?
«È che non mi va di soccorrerti!», tagliai corto. «Quindi stai seduta come si deve».
Avevo la voce stridula. Una deglutizione complicata. La bocca un po’ impastata. Matò! ’Ste femmine, questi assurdi scherzi della natura – ma chi le aveva inventate?
«Se-du-ta», scandii. E Mela, per tutta risposta, si sporse un po’ in avanti. Adesso oscillava nel vuoto con l’intero corpo, e sembrava davvero impossibile che – per quanto gracile – a sostenerne il peso fossero soltanto i suoi ancora più gracili polsi.
«Cos’hai, Malì?», cinguettò. «Paura, tipo?»
Quindi, proprio come un uccellino, spiccò il volo. Il seggiolino si ribaltò. Per qualche istante Mela rimase aggrappata al bracciolo con una sola mano. Poi, non appena fu sicura di essere agganciata per le gambe, staccò anche quella.
Matò, ma chi sei? Un’acrobata, tipo?
«Secondo me, Francisco Maligno, tu te la fai sotto come tutti i maschi».
Le gambe lustre, appena divaricate, oscenamente avvinghiate al sedile. La maglietta che, arrotolandosi sul petto, le scopriva l’addome. La peluria appena accennata sotto le ascelle.
Sì, è vero, avevo paura.
Ma non di dondolarmi a testa in giù da un calcinculo – bensì di lei. Della sua innaturale naturalezza. Del modo semplice, eppure complicato, con il quale mi trattava.
«Io non sono come tutti i maschi», precisai. «Io sono il numero uno. Un capo. Un leader carismatico».
E con una specie di avvitamento carpiato, che in altri tempi mi sarebbe riuscito a occhi chiusi, m’ingegnai di dimostrarglielo all’istante, incastrando le gambe sotto i braccioli e lasciandomi scivolare nel vuoto.
Sennonché, anche un numero uno, un vero capo, un leader carismatico, può commettere talvolta un paio di errori.
Il primo, nel sottovalutare il fatto che, se io cresco anno dopo anno, il mondo intorno a me rimane uguale; così che lo stesso pertugio nel quale dodici mesi prima infilavo comodamente il piede, adesso si rivela troppo stretto e mi respinge.
Il secondo – Matò, quanto inquietante! – non rendendomi conto che lì, la questione, non consisteva nel dimostrarmi diverso da tutti gli altri maschi. Ma nell’essere uguale a quell’assurdità di femmina.