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Mi chiamo Angelo Conteduca e prelevo il sangue dalle vene.
Come fanno migliaia di analisti. Decine di migliaia. Forse milioni.
All’epoca della nostra storia – eravamo nel pieno degli anni Settanta, alla preistoria dei primi tv color – ero invece un esemplare unico. Un numero uno. Un leader carismatico.
Avevo quattordici anni e un Fantic Motor Caballero. Tre costumi Speedo e numerose squadre del Subbuteo.
Qualcuno, forse io stesso, aveva messo in giro la voce che assomigliassi al terzino sinistro della nazionale brasiliana. Non la seleçao piena di stelle che aveva trionfato nel ’70, ma quella alquanto scarsa che quattro anni dopo era arrivata quarta per miracolo ai mondiali di Germania. Non si sa come, tra una marea di schiappe, in quella squadra c’era un mezzo fuoriclasse. L’altra metà lo faceva il fatto che era biondo, aitante e dotato di un tiro micidiale. Nel giro di un’estate divenni quindi per tutti Francisco Marinho.
Quasi per tutti, a dire il vero.
Le ragazze, che del calcio recepivano solo la sabbia che gli arrivava addosso quando inseguivamo il pallone sulla spiaggia, nella maggior parte dei casi si convincevano che Marigno fosse un calco lessicale proveniente da un’area dialettale assai plebea, e così, per darsi un tono, al mio passaggio lungo il bagnasciuga lo correggevano sussurrandosi l’un l’altra: «Matò, guà, naaa, ci sta quel fico di Marino!»
Per i cafoni che occupavano il lato sinistro della spiaggia, incapaci di pronunciare correttamente una parola che arrivasse da più lontano di Alberobello, ero invece, semplicemente, il Maligno.
A me andavano bene entrambe le vulgate. Nella prima mi vedevo divinità pelagica, emanazione spumeggiante delle onde, brezza ricostituente. Della seconda apprezzavo il suono tenebroso, la crepitante energia, l’alone di apocalittica minaccia.
Spostatevi, o finirete arsi nelle fiamme del mio inferno! Spostatevi, babbei, che spacco tutto!
A pensarci bene, nel mezzo degli anni Settanta, per i ragazzi del villaggio Torrematta quella di spaccare tutto era diventata una specie di ossessione. Un grido di battaglia. Un’espressione dell’anima. Sia chiaro: non che in qualcuno di noi albergasse una coscienza politica, un fervore ideologico, e nemmeno una pur vaga percezione del perché, e contro cosa, ci dovessimo scagliare. Ma era come se, su quella spiaggia, confinati in un’estrema striscia di terra prima del mare aperto, sentissimo spirare il vago sentore di qualcosa che bruciava. Un’eco di guerra. Un sordo brontolio.
Mescolandosi allo scirocco, che già infiammava gli istinti, quell’atmosfera ci rendeva inquieti e combattivi. Determinati, appunto, a spaccare tutto.
In realtà – avrebbe chiosato quella specie di filosofo che era Luca Viale, la cui lungimiranza, sapientemente alternata a meditativi silenzi, gli aveva accattivato la mia stima e, di fatto, gli aveva consentito di elevarsi a rango di mio luogotenente – l’unica cosa che spaccavamo veramente, con metodo e costanza, erano i nostri imberbi testicoli, quando ci ritrovavamo tutte le mattine a gironzolare sulla spiaggia. «Matò», ci chiedevamo, «ma quest’estate non finisce mai?»
(Luca Viale mi piaceva perché era colto e raffinato. Talmente raffinato che, tenendolo al mio fianco, gli dicevo che nel nostro gruppo lui era lu caviale, mentre gli altri non valevano nemmeno una noce di burro.)
A metà degli anni Settanta, dunque, l’estate non finiva mai. Poi, a un certo punto, quando cominciavi a pensare che era eterna, un pomeriggio alla controra, mentre ormai esausto di sole e di calura te ne stavi in camera tua a leggere l’Intrepido, una luce livida, perlacea, piombava sulle avventure di Billy Bis, e ascoltando come un suono misterioso, quasi magico, le prime gocce di pioggia sul selciato, capivi che anche quell’estate – l’estate che non doveva mai finire – sarebbe invece terminata per sempre, e in fretta e furia.
Fretta e furia. È l’espressione giusta. Perché quei temporali ti arrivavano addosso in un baleno, montando dal mare, e scaricavano una tale quantità d’acqua da allagare tutte le buche del villaggio. E sì che le buche, nelle strade sterrate del villaggio, sembravano crateri.
A noi che abitavamo le villette sopra la scogliera o le lussuose residenze che da una stagione all’altra, spuntando come funghi, avevano occupato abusivamente parte della spiaggia, la pioggia veniva buona per lavare le macchine dei nostri genitori – generalmente Alfa GT con quinta marcia, Citroen CX o Lancia Delta – e dare una rinfrescata alle siepi di rose canine.
Per i contadini, i villici, gli zotici – per i cafoni, insomma – la pioggia, invece, era il terrore. Buona parte della loro sussistenza dipendeva dall’ormai prossima vendemmia, e se un semplice acquazzone poteva benevolmente rifinire i grappoli maturi, maturare al punto giusto quelli ancora acerbi e regalare a ogni chicco un invitante luccicore, la grandine – che dalle nostre parti spesso viene giù pesante e cattiva, come sassi scagliati con la fionda – avrebbe finito col devastare l’uva, decimandone il raccolto.
Durante il temporale, quindi, i cafoni te li potevi immaginare accigliati dietro le finestre, mentre i loro padri bestemmiavano e le donne si riunivano in cucina a pregare san Giovanni. Quanto a noi – be’, pioggia o grandine ce ne fregavamo. Ma non si può nemmeno dire che, nella penombra delle nostre camerette adornate dai poster di Love Story e di Bob Morse, quel fenomeno atmosferico passasse così, senza conseguenze.
Bastava vederci uscire allo scoperto, quando l’ultimo tuono diventava un sommesso e lontano brontolio: una lumaca non avrebbe messo la testa fuori dal suo guscio con più circospezione.
Avevamo uno sguardo smarrito. I capelli in disordine. L’aria stravolta.
Signori o cafoni, nell’arco di quell’ora qualcosa invariabilmente cambiava nelle nostre giovani vite. E quel qualcosa – c’era chi l’avvertiva senza capire, chi l’intuiva e chi, come Lucaviale, riusciva perfino in qualche modo a verbalizzarlo – aveva a che fare con una percezione ancora acerba, vaga, quasi informe, e che altro non era se non il passare del tempo.
L’estate finiva e un altro anno se ne andava. Si ricominciava. Così, quella stretta al cuore, quella malinconia improvvisa, quello stordimento che ci avrebbe fatto aggirare per tutta la serata nel villaggio come anime in pena, in fondo poteva anche definirsi il nostro compleanno. Lo celebravamo silenziosi, senza alcun regalo, anzi con la netta sensazione di essere stati privati di qualcosa. Tutti insieme e quasi a nostra insaputa, trascinandoci dietro una sgocciolante inquietudine.
Ma questa è la fine. La nostra storia, come tutte le storie, comincia invece dall’inizio. L’inizio di una torrida estate nel pieno degli anni Settanta.
C’eravamo noi, i ricchi. E dall’altra parte c’erano loro, i poveracci.
Per farla breve, li signuri e li cafuni.
In mezzo – be’, in mezzo non c’era proprio niente.
I ceti medi? La piccola borghesia? Per noi, allora, le mezze misure non esistevano.
E se pure qualcuno finiva col provarci, col cercare un proprio spazio tra i signori e i cafoni, lo sguardo che da destra e da sinistra gli veniva riservato non era quello che si rivolge a un moderato, a un democratico, a un soggetto neutrale e super partes, ma un’occhiataccia diffidente e ostile che di fatto esiliava quegli indefinibili animali oltre il nostro arco costituzionale. Come se fossero degli estremisti. Dei sediziosi. Dei fanatici e deliranti sovversivi.
Dunque, c’era posto solo per noi e per loro. O meglio, c’era posto solo per noi perché loro, li cafuni, nelle nostre intenzioni dovevano essere distrutti. Annientati. Rasi al suolo.
Era un odio atavico che rimaneva sopito per otto mesi l’anno. Durante i quali (quasi) ce ne dimenticavamo.
Poi improvvisamente, la prima o la seconda domenica di giugno, mentre ancora si arieggiavano le case, mentre i cancelli arrugginiti venivano sbloccati con olio di merluzzo e poderose spinte, irrompeva nell’operosa quiete l’allarme di Sebastiano Conti detto Sebo: «Maremma maiala! Ci sono anche quest’anno!»
Sebastiano – si è già capito – non era delle nostre parti. Il padre faceva l’ufficiale di marina all’Arsenale di Taranto, mentre lui abitava a Grosseto con il resto della famiglia. Qualche volta – essendo entrambe disperse nella nebbia della serie C – confondevo Grosseto con Livorno, e allora, nemmeno l’avesse morso la tarantola, tutto invelenito Sebo si metteva a invocare quella che, a suo dire, era una gran bella differenza.
«Sì, vabbè», tagliavo corto, «ma quale sarebbe, Sebocò, ’sta differenza?»
«Livorno è una merda», sentenziava. E questo bastava a chiudere il discorso, ma soprattutto a definire che razza d’atmosfera (elettrica a dir poco) tirasse a Torrematta.
Insomma, da Livorno o da Grosseto, non appena chiudevano le scuole, la mamma caricava Sebo sopra il treno, e insieme – insieme anche a una buona dose di affanno, ché lei soffriva le partenze e il figlio d’asma – raggiungevano la costa salentina.
«Stai a vedere che trasferiscono mio padre e la stagione prossima non torno», s’incupiva tutti gli anni, a settembre, Sebastiano.
Ma poi il Taranto, seppur con qualche rischio, riusciva a restare in serie B, il calciatore S.G., con saltuari dribbling a effetto e molte sgroppate, salvava il posto in squadra, e siccome non c’erano né genio né tanti soldi in cassa per il calcio-mercato, alla fine rimaneva tutto come prima.
Cosa c’entri il pallone, e quell’ala destra sbrindellata di S.G., è presto detto: il tenente di vascello Conti Filippo, infatti, aveva da tempo intrecciato una relazione con la consorte del suddetto, o per meglio dire sottaciuto, calciatore. Finché S.G. indossava la divisa del Taranto e la fedifraga, nella sordida penombra di qualche motel sul lungomare, era disposta a togliere a lui quella di ufficiale, il tenente Conti (l’incontenente, l’avevamo soprannominato per la sua esuberanza sessuale) non si sarebbe mosso.
Così, prima di ripartire per Grosseto, Livorno o dove stava lui, Sebastiano si vedeva elargire due biglietti di tribuna per la partita inaugurale al Salinella (gentile omaggio che dall’Associazione Calcio Taranto, transitando per le mani del dipendente S.G., di sua moglie e del suo amante, giungeva fino a noi) mentre quel fedifrago del padre – che pure, in quanto marinaio, prima o poi sarebbe stato logico salpasse – allargava le braccia e annunciava costernato alla famiglia che anche per quell’anno, di muoversi dal porto di Taranto (e tanto più di ritornare a casa), non era il caso di parlare.
Insomma, c’erano tutti gli elementi perché l’urlo imbolsito con cui Sebo inaugurava l’estate venisse interpretato come l’annuncio della sua rinnovata presenza. «Maremma maiala, ci sono anche quest’anno!»
E tuttavia, quando squarciava l’aria di quelle domeniche, nemmeno per un istante dubitavo che il suo grido non fosse riferito a sé, ma ai nostri acerrimi nemici. Alle orde barbariche. Agli orrendi cafoni.
Sebo Conti, dunque, inchioda la bicicletta davanti al mio cancello. Quell’anno, lo ricordo perfettamente, era una Chiorda con la foto di Gimondi stampata sul manubrio. Nel vedermi comparire sul vialetto, prima ancora di notare la mia implementazione pilifera, prima ancora di apprezzare i mocassini College, prima ancora di rivolgermi un saluto (era quasi un anno, in fondo, che non ci vedevamo) Sebo spalanca le fauci come un ippopotamo, annaspa e sta per annunciare che – Maremma maiala! – i cafoni ci sono anche quest’anno, quando io lo blocco con la semplice imposizione di una mano, l’altra me la passo tra i capelli alla Panatta e a lui per primo conferisco il privilegio di sapere che quest’anno sarà tutto diverso.
«Quest’anno», gli dico calmo, fissandolo negli occhi, «li sparecchiamo, ’sti quattro cafuni!»
Da quanto tempo covavamo quell’odio? Da quante estati si disputava quell’assurda guerra? In fondo non avevamo che quattordici anni. Eppure ci sembrava che fosse in corso da sempre e, soprattutto, che per sempre l’avremmo combattuta.
Tutto quello che ci capitava, che sentivamo, che guardavamo, tutto quello che eravamo, in realtà non sarebbe mai cambiato. Ne eravamo sicuri. Arciconvinti.
Prendiamo per esempio Chissà chi lo sa, il quiz del sabato pomeriggio: c’ero cresciuto, con Febo Conti e il suo «squillino le trombe, entrino le squadre»! E adesso che il destino mi aveva messo accanto un quasi omonimo scudiero, lo obbligavo a presentarsi sulla spiaggia con tanto di occhialetti e cartellina, canticchiando la sigla delle Orme e rivolgendo ai presenti domande sulle guerre puniche e sulle capitali sudamericane.
«Chiedi, chiedi, Sebo Conti!», gli ordinavo. «Squillino le trombe, Sebocò!», e nemmeno mi passava per la testa che la trasmissione, quel surrogato balneare o la pazienza di chi mi stava intorno un giorno potessero finire.
Anche ricominciare, dunque, riprendere il filo della nostra epopea, era più che altro un gesto virtuale. Per quanto, più che a una virtù, l’ostilità verso i cafoni faceva pensare a un inguaribile vizio.
«Perlustra il territorio», ingiungo a Sebo, «e torna a dirmi quanti sono. Ah, voglio che avverti anche Franzoso, Vittorio e Toshiro Mifune».
In realtà, quello che voglio è solo guadagnare un po’ di tempo. La calma necessaria per guardare nel mio cuore e capire se l’odio è ancora vivo. Salgo perciò sulla terrazza. Scruto l’orizzonte, la spiaggia, il crocicchio di candide casette – catapecchie, niente altro – ammassate intorno al porto. Un colpo secco mi risuona dentro il petto. Altroché, se è ancora vivo. Qualcuno, anzi, in questo lungo inverno deve avere alimentato la bestia a mia insaputa, perché quello che mi assale è un odio adulto, navigato, muscoloso, che mi costringe ad aggiornare lì per lì, sul cornicione, l’asprezza dei miei quattordici anni.
Non c’era alcun bisogno di aspettare Sebo Conti. Di sapere quanti sono, o se gli altri del mio gruppo stanno all’erta.
Noi eravamo noi. Loro erano loro. E quella era la guerra.
Ogni guerra, però, prima di essere combattuta va quantomeno dichiarata. D’accordo che quello era un conflitto eterno, indifferente a tregue, armistizi o eventuali trattati di pace, ma un atto formale, che sancisse ufficialmente la riapertura delle ostilità, non poteva mancare. Anche perché quell’atto – il guanto della sfida, chiamiamolo così – aveva la funzione di definire il livello dello scontro. Di stabilire, più che il grado di violenza oltre il quale sarebbe stato meglio evitare di spingersi, quello minimo per non essere considerati dei bambocci pappamolle, o addirittura dei pusillanimi.
È pur vero che, certe volte, i cafoni sembravano proprio non capire i segnali che lanciavamo. Prendiamo l’anno precedente, per esempio. Con l’aiuto di Lucaviale, che – lungo e imperturbabile com’era – bene si prestava a fare il palo, io e Toshiro Mifune avevamo scavalcato il muro del cortile che circonda la stamberga di Leonardo il Mucculone, e approfittando dell’assenza di lui, oltre che della sua foltissima famiglia, c’eravamo accovacciati proprio in mezzo alla cucina e avevamo defecato sul sudicio impiantito.
Ora, sarà stata la nostra stitichezza, la promiscuità col mondo animale o semplicemente la proverbiale stolidità di quei cafoni, fatto sta che il giorno dopo, anziché interpretarlo correttamente come il nostro messaggio di guerra, l’oltraggio venne imputato ai tre o quattro bastardi che gironzolavano per casa. I cani, quindi, furono esiliati e messi in punizione all’interno di un recinto lì vicino, dove un tempo il padre di Leonardo allevava le galline. La sera stessa vi penetrammo – questa volta con me non c’era Toshiro ma Lucaviale in persona – e grazie all’intermediazione di una manciata di polpette che il mio luogotenente aveva strategicamente sottratto al proprio desco, riuscimmo a ficcarli a uno a uno dentro dei grossi sacchi della spazzatura. Per fortuna, prima di sigillarli, quel genio di Viale ebbe l’intuizione di praticarvi qualche foro. I cani, quindi, scamparono a una crudele morte per soffocamento, ma rischiarono comunque di soccombere alla loro stessa folle disperazione.
Ululati lancinanti. Ringhi idrofobi. Versi che mai un orecchio umano avrebbe immaginato di sentire. E forse che qualcuno dei cafoni si sia mosso? Che sia uscito – anche solo così, per curiosità – a vedere cosa stava succedendo? Alla fine, io e Lucaviale siamo stati costretti a ritornare dentro e a liberare quelle belve indemoniate, senza sapere se avrebbero scelto di ringraziarci per averla scampata o sbranarci per lo scherzo infame.
Sopravvivemmo, in qualche modo. Ma ero così furibondo con quell’accolita di idioti che, senza pensarci, raccolsi una pietra bella grossa – ’nu scuezzo, ’na chianca, ’na cute – e la scaraventai contro la finestra.
Un gesto semplice. Istintivo. Niente affatto premeditato. Ma quando, dietro il vetro infranto, apparve paonazzo il volto di Leonardo che digrignava i denti come e peggio dei suoi cani, capii che stavolta avevo colpito nel segno e che il messaggio, finalmente, era arrivato a destinazione.
In guardia, cafoni! La guerra è dichiarata!
Tutto questo, però, succedeva dodici mesi prima. Quell’anno, per stare al passo con i tempi, ci voleva qualcosa di più raffinato. Di più crudele. Di meno naif del lancio d’un sasso. Quest’anno, pensavo, ci vuole un gesto che rimanga nella storia come un marchio a fuoco.
Bruciargli la casa? Be’, forse era troppo. Solo la porta, magari. O le sedie con cui occupavano tutto il marciapiede, quasi che la strada fosse il loro salotto privato. Ma se poi le fiamme avessero dilagato? Se dall’esterno si fossero propagate nelle stanze e poi, di baracca in baracca, avessero raggiunto l’edicola, distrutto il bar, arso l’unico spaccio alimentare del villaggio, fossero risalite lungo la scogliera e, divorando i cespugli di timo, la pineta e gli alberi di ulivo, avessero lambito le facciate immacolate delle nostre ville? No, dovevo ammettere che nei panni dell’incendiario non mi sentivo troppo a mio agio. Né contribuiva a incoraggiarmi la disinvoltura con cui i cafoni liberavano il ciglio della strada dalle erbacce, i campi incolti dalla stoppia e le loro abitazioni dai materassi ormai sfondati: li ammassavano tutti insieme e, senza pensarci troppo, accendevano un falò.
Tuttavia, se i cafoni detenevano il controllo sul fuoco, più mi avvicinavo all’acqua e più sentivo che l’autorità dei signori cresceva. Che il mare c’era amico. Che in quello specchio azzurro avrei trovato la giusta ispirazione.
È vero che, tra i padri dei cafoni, molti – in pratica tutti quelli che non si spaccavano la schiena nelle campagne – all’alba salpavano dal molo a bordo di fatiscenti pescherecci. Ma è anche vero che raramente i loro figli sapevano nuotare. Le onde li intimidivano, e quando la schiuma invadeva il bagnasciuga arretravano come se una muta di cani li minacciasse.
Il mare dei cafoni grandi – li chiamavamo così, gli adulti, perché grande cafone era un’onorificenza trasversale, un titolo che non aveva a che fare con l’anagrafe ma con l’intrinseca bestialità del soggetto – era molto diverso dal nostro. Puzzava di pesce. Cominciava ch’era ancora buio pesto e finiva alle dieci, dieci e mezzo al massimo, quando noi non avevamo ancora piantato l’ombrellone.
Nel mare dei cafoni grandi si poteva annegare, nel nostro si giocava con il Going, le palline clic-clac e i racchettoni.
Arrotolai i Wampum alle caviglie e mi sfilai le Mecap da battaglia. Anche se assomigliavo a quel gran fico di Marinho, preferivo spogliarmi a poco a poco: era mio, quel corpo, ma nello stesso tempo – ogni volta che tornava l’estate – lo studiavo di sottecchi come se dovessimo riconquistarci una reciproca fiducia.
Dunque, vediamo – ricominciai a pensare. Da dove potremmo ripartire?
Versare dell’acqua salmastra nelle loro riserve di acqua potabile (bah, i cafoni sarebbero capaci di berla senza nemmeno rendersi conto della differenza).
Intasargli il pozzo nero con la sabbia (sì, ma ne servirebbero tonnellate).
Sabotare i pescherecci dei cafoni grandi (ma non sono i padri che vogliamo colpire, bensì la loro abominevole prole).
Mai come quell’anno provocare una guerra mi sembrava più faticoso che combatterla. La sete di battaglia si confondeva con quella dell’orzata, della menta, del tamarindo che servivano al Bar Pedro.
Forza Marinho, non ti starai mica rammollendo? Forse dipendeva dalla giornata. Era talmente limpida! Una di quelle giornate così terse che l’orizzonte pareva ripassato con la china. Così splendente che tutte le cose – a parte, si capisce, il borghetto dove abitavano i cafoni – sembravano illuminate da una luce propria, interiore. Come le perle. La pietra candida dei trulli. O le persone in pace con se stesse, se mai sono esistite.
Perfino la schiuma del mare, lambendo la riva, luccicava come se trascinasse con sé polvere d’oro. Ma quello che depositava sulla spiaggia, in realtà, non aveva niente di prezioso: un paio di cassette per la frutta, miriadi di conchiglie tutte uguali, il relitto di una barca. E soprattutto, trasparente e insieme subdola, la minaccia più insidiosa per la nostra balneazione: le meduse! Mucchi e mucchi di meduse che si accatastavano sul bagnasciuga! Per una che veniva a morire sulla sabbia altre dieci fluttuavano a pochi metri dalla riva. Violacee, opalescenti, con la testa a fungo o affusolate come un missile, ce n’erano di ogni forma e dimensione.
Buon segno! Vuol dire che l’acqua è pulita, dicevano i più ottimisti. Gli ecologisti. Quelli che restano sempre sotto l’ombrellone. Ma noi avremmo rinunciato volentieri a qualche stella del Qui Touring pur di risparmiarci il rischio di una collisione mentre nuotavamo.
Ad ogni modo, a metà giugno, così com’erano venute le meduse se ne andavano. Tutte insieme. Misteriosamente. Dove sparivano? E cosa le spingeva a ritornare un’altra volta alla fine dell’estate, con le prime mareggiate? Mistero.
Del resto, all’epoca, il mondo era un posto così semplice, coerente, definito, che qualche ozioso enigma non guastava.
Così rimasi lì, col culo sulla sabbia, a pensare dapprima alle meduse, ai polipi, alle murene e agli altri pesci con sistemi difensivi, quindi alle sogliole, alle razze, all’ittica da sabbia e a quella dello scoglio, via via fino ai molluschi, alle vongole, alle ostriche, alle cozze e infine, passando per le seppie e i calamari, di nuovo alle meduse. Fu un giro lungo, tortuoso e all’apparenza inutile, ma per qualche strana ragione, quando fu finito, ciò che stavo cercando mi apparve immediatamente sotto gli occhi, tanto vicino da chiedersi come avessi fatto a non pensarci prima.
Le meduse!
Di scatto, con i mocassini in mano, schizzai sulla sabbia, inforcai il Caballero e diedi un’unica sgassata fino a casa, dove mi equipaggiai con guanti da giardino, fiocina e stivaloni in gomma. Un paio di sporte erano sempre infilate sotto la sella. Così, quando scesi di nuovo sulla spiaggia, ero già pronto a immergermi nell’acqua.
La fiocina, in realtà, si rivelò subito un errore. Le meduse non andavano toccate, né tantomeno punzecchiate, perché già al minimo contatto reagivano allungando i tentacoli. E se avessero disperso il loro veleno? Se avessero sprecato anche solo un centesimo della loro energia distruttiva? No, volevo a tutti i costi che l’effetto fosse pieno. Totale. Devastante. D’altra parte, pensai, forse era proprio stuzzicandole che l’avrei ottenuto. Irritandole come un nugolo di vespe.
Matò, su quante cose bisognava aggiornarsi per tenere viva quella guerra! Sempre di più! E sempre più sofisticate! Per un attimo m’immaginai, trent’anni dopo, alle prese con trattati su armi chimiche e testate nucleari. Poi, vaffammocca!, tagliai corto, e trascinando le sporte nell’acqua, come reti a strascico, ritornai sulla riva.
Matò, che pesca grossa! Nelle due buste galleggiavano almeno cinque o sei esemplari dall’espressione alquanto combattiva. Che espressione può avere una medusa?, ci si potrebbe domandare. Ma insomma, io così le vedevo (cattive, cattivissime!). O forse l’espressione era la mia, riflessa dentro l’acqua.
Fatto sta che le armi ce le avevo in pugno. Ora, dal pugno, si trattava di agganciarle sui manubri – così, attenzione, senza rovesciarle! – e individuare il più rapidamente possibile un bersaglio.
Cautamente, riducendo il rombo del Caballero a un sommesso borbottio, avanzai sull’asfalto incandescente della litoranea. Nella fretta avevo dimenticato di sfilarmi gli stivaloni gialli, e la gente osservava incuriosita la mia snella figura di ragazzo spuntare da quelle protuberanze come un manico di scopa che rimesta dentro a un secchio. Ma della gente io me ne infischiavo. La gente, per me, non esisteva proprio. Tutta la mia attenzione era rivolta a scorgere un cafone, possibilmente appollaiato di spalle sul muretto o immerso nella lettura di uno dei suoi adorati Braccio di ferro.
Braccio di ferro, Poldo, Pisellino! Ma come facevano a leggere ancora quelle stupidaggini? È proprio roba da poppanti!, pensai, e intanto m’inoltravo nel villaggio sempre più guardingo, sempre più circospetto, come se temessi di ritrovarmi davanti all’improvviso, anziché appunto degli innocui ragazzini, Diabolik, Zakimort, Satanik o qualche altro losco personaggio fuoriuscito dai fumetti che leggevo io.
Invece arrivai all’altezza dell’isolotto senza incontrare nessuno. Vuota la spiaggia, deserto il porticciolo, desolate perfino le giostre con il tiro a segno e il punching ball. Dov’erano finiti tutti quanti? Avrei dovuto rassegnarmi a restituire al mare le mie saettanti bombe a mano? Stavo quasi per invertire la rotta quando, con la coda dell’occhio, percepii una figura in lontananza, china sul pelo dell’acqua. Solo una schiena, a dire il vero, che luccicava al sole come il dorso di una lucertola. Se ne stava lì, immobile, ricurva su uno scoglio, e non poteva appartenere che a un cafone. Chi altro, alle tre del pomeriggio, anziché infilare gli Oliver Onions nel mangianastri, o se stesso sotto le lenzuola, se ne sarebbe stato indifferente alla canicola a contemplare la risacca, come se là sotto si nascondesse chissà cosa?
Mimetizzai il Caballero dietro un cespuglio di rosmarino. Quando lo spensi, si sentirono solo le cicale, il mare e il mio respiro. Gli stivali di gomma scricchiolavano, e me li tolsi alla svelta.
Adesso stai in campana, giovane Maligno, perché se fai un rumore, se ti fai notare, se quello si gira prima che tu gli arrivi addosso, avere nelle mani due buste per la spesa gonfie d’acqua non ti servirà a niente se non a rovesciarle – stizzito, disinvolto, imbarazzato, fa’ un po’ tu – sulle rocce circostanti, e a tornartene fischiettando sui tuoi passi, facendo in definitiva la figura del cretino. Ma se invece, sopportando stoicamente gli scogli acuminati sotto i piedi scalzi, bilanciando con sapienza i pesi sulle braccia, fendendo con il dovuto sangue freddo la calura, riuscirai a portarti fino a un metro, un metro e mezzo al massimo dal fetido cafone prima che si volti, allora potrai scaraventare non una, non due, ma forse tutte le meduse quante sono sulla schiena del nemico, e a quel punto considerare anche per quell’anno cosa fatta il rinnovo della guerra tra i signori e li cafuni.
Intrapresi lentamente l’avanzata, prendendo confidenza col terreno dello scontro. Non c’erano solo le rocce più aguzze da evitare, ma anche i ricci, le conchiglie affilate e qualche coccio di bottiglia. Un vero campo minato. Tuttavia, un occhio verso il basso e l’altro puntato sulla preda, arrivai senza problemi a una dozzina di metri dal bersaglio. Ora veniva il bello. Davanti a me la scogliera diventava una lingua scura che s’inoltrava nel mare, abbastanza larga e piatta da suggerire a un visitatore poco esperto che il peggio era passato. Che da lì in avanti si poteva proseguire fischiettando. Che quell’ultima striscia di terraferma sarebbe stata l’ideale per un tuffo con rincorsa.
Quanti ne ho visti finire a gambe all’aria in quel breve tratto! Quante caviglie storte! Quante culate in terra! Nemmeno se fossero state sfregate col sapone quelle rocce avrebbero prodotto l’effetto scivoloso che conferiva loro il mare. Una patina micidiale di alghe e mucillagine.
Ma non era forse micidiale anche la mia adrenalina? Il mio istinto? La mia feroce determinazione? Chiusi un occhio, come se puntassi con un mirino. Davanti a me, allineati, c’erano gli scogli, il cafone, l’isolotto e la striscia dorata che il sole proiettava sul mare.
Un passo. Due passi. Avanti piano. In assenza di muscoli, il mio corpo era un fascio di nervi. Alle nostre spalle il villaggio, le case, il mondo intero, rappresentavano un’idea lontana. Astratta. Molto vaga.
Com’erano nitidi invece, da quella distanza, il respiro del cafone e il suo profilo! La testa china sull’acqua, un ciuffo di capelli lungo il collo umido, e poi la schiena che si tendeva come un arco, esile e flessuosa. Ero così vicino, adesso, che avrei potuto contargli le vertebre.
Ma chi sarebbe, poi, ’sto sventurato?, mi domandai all’improvviso.
In quel momento di concentrazione estrema, era una curiosità del tutto inutile. Anzi, inopportuna e molesta. Si sa che un cafone vale l’altro, e che nel rivederli dopo un anno quello strano miscuglio di estraneo e di promiscuo, di barbaro e di familiare, di spaventosamente ignoto e di già visto, diventava ancora più ambiguo. Fastidioso. Perturbante.
Eppure, in quei lunghi secondi, la domanda non volle dissolversi. Anzi, continuò a pungolarmi al punto che gli ultimi passi diventarono frettolosi. Come se, dopo tutta quella accortezza, l’obiettivo principale fosse diventato quello di appurarne in fretta la risposta.
Ormai c’ero. Anzi, tergiversavo incredulo che il cafone non si voltasse ancora.
Ma cos’hai? Sei sordo? Cieco? In catalessi? Sono stato un drago, accidenti!, silenzioso come un peto durante l’ora di religione, ma tu adesso volgi il capo. Ruota le spalle. Divergi il busto. Muoviti, bastardo, ché ti possa colpire!
Alla fine, quello che non ottennero le mie mute esortazioni riuscì al volo di un gabbiano. Il suo stridulo verso lo chiamò dall’alto, così che finalmente, sollevando lo sguardo, il cafone ebbe la percezione che una minaccia si appropinquava alle sue spalle. Fu un istante – questa volta brevissimo, fulmineo, condensato in un unico fotogramma. Senza nemmeno bisogno di lanciarle, semplicemente facendo convergere le braccia sui suoi occhi sbarrati, le sporte gli piombarono addosso come se, anziché pochi litri di liquido salmastro, contenessero il diluvio universale. Indubbiamente, la prima cosa che avvertì fu l’impatto gelido con l’acqua. Ma poi, nella frazione di secondo successiva, l’azione urticante delle meduse attraversò l’epidermide e raggiunse i suoi centri nervosi.
Fu allora che la vidi.
Sì, proprio così: la vidi. Perché nell’atto stesso di scattare in piedi, di inarcare la schiena, di emettere un rantolo straziante, la mia vittima rivelò dapprima il corpo acerbo d’una ragazzina e poi, appena un po’ di sbieco per la secchiata d’acqua sui capelli, un cerchietto a fiorellini che dissipava ogni dubbio.
Il cafone era una cafona, e quella che confluiva nel suo sguardo era una gamma di sentimenti troppo vasta perché io, preparato alla reazione cieca, a testa bassa, di un esemplare maschio, sapessi esattamente cosa opporre. La sorpresa, il dolore, lo sdegno, perfino un accenno di curiosità, si addensavano intorno a due occhi troppo scuri per poterci leggere dentro con chiarezza.
Ero sconcertato. Cosa avrebbe fatto? Si sarebbe messa a piangere, avrebbe urlato, o magari sarebbe caduta ai miei piedi priva di sensi? Forse, viste le circostanze, avrei anche potuto prendere in considerazione l’idea di soccorrerla, di cingerle i fianchi con un braccio e sostenerla come avevo visto fare in televisione a un soldato americano con una bambina di Saigon. In fondo, a guardare bene, anche la ragazzina aveva gli occhi un poco a mandorla. Eppure sentivo che per compiere quel gesto pietoso, peculiarmente umano, mi sarebbe servito molto più coraggio di quanto ne avessi avuto nello scaraventarle addosso le meduse.
(«Gli americani sono forti. Aiutano i feriti», dissi un giorno a Lucaviale sulla spiaggia. Quando lui obiettò che era ipocrita soccorrere il nemico dopo avergli sparato, iniziò una discussione che si protrasse fino al pomeriggio. E che la sera, con tutto l’affetto e la stima per il mio luogotenente, degenerò a mazzate.)
In definitiva la mia speranza era che si chinasse, raccogliesse una pietra e me la tirasse sulla fronte. Così me ne sarei potuto andare senza troppi rimpianti. Magari con la testa appesantita, ma a cuor leggero. E invece – valle a capire, queste femmine!
Mi volge le spalle, si piega sulle ginocchia e rimane lì accucciata, a capo chino, mentre lungo le braccia e sulla schiena si cominciano a delineare le impronte violacee dei tentacoli.
Non piange. Non si lamenta. Non mi maledice. Semplicemente, come una bestia ferita, si nasconde alla mia vista reclinando il corpo su se stesso, in un gesto che mi appare pieno di pudore, ancora più che difensivo. Con le braccia strette sull’addome trattiene il dolore – che deve essere lancinante – dentro di sé.
Un brivido la scuote. Si morde le labbra. Non si muove. Con gli occhi a mandorla ridotti a due fessure si volta per controllare se ci sono ancora, proprio mentre, con cautela, io sto allungando una mano su di lei. Sebbene non arrivi nemmeno a sfiorarla la sensazione che provo è quella di infilare le dita in una presa di corrente. C’è più elettricità intorno al suo corpo che dentro un temporale! E quando un temporale ti coglie di sorpresa, cos’altro puoi fare se non cercare riparo, allontanarti, scappare?
Ecco dunque che Francisco Marinho fugge. Ma la sua fuga non ha niente a che vedere con la strategica ritirata che segue un’azione militare. È convulsa, frenetica, affannosa, tant’è vero che, percorsi nemmeno cinque passi, mette un piede in fallo, scivola, perde l’equilibrio e questa volta è proprio lui – il Maligno – che cade pesantemente sugli scogli e si fa male.
Nemmeno mi giro a controllare se la ragazza ha visto. Se le è scappato un ghigno o se neanche questa piccola vendetta la consola. Con il gomito che sanguina e una caviglia a pezzi mi rialzo, arranco, cado ancora, sento il cuore che batte all’impazzata e una fretta indiavolata di rintanarmi a casa.
Strano modo davvero, Francisco Marinho, di cominciare una guerra.