8. Comunicare bene aiuta: quali vecchi possono dare una mano
La nostra civiltà è decadente, ed è inevitabile che la nostra lingua sia coinvolta nel degrado generale. Qualcuno sostiene che lottare contro chi maltratta la lingua sia un arcaismo sentimentale, come preferire le candele alla luce elettrica o le carrozze agli aeroplani. Lo afferma chi crede che la lingua proliferi in modi naturali e non sia uno strumento a cui possiamo dar forma per i nostri scopi. Il declino di una lingua non è dovuto solo alla cattiva influenza di alcuni scrittori, ma deve avere cause politiche ed economiche. Quando l'atmosfera generale è cattiva, la lingua soffre. Il pensiero può corrompere la lingua, ma anche la lingua può corrompere il pensiero. Un cattivo uso della lingua si diffonde per tradizione e per imitazione anche fra persone che hanno studiato e dovrebbero essere immuni.
Stavo per scrivere mezza pagina per esprimere concetti simili a quanto precede, ma ho riletto il saggio di George Orwell Politics and the English Language e ho preferito copiare quanto aveva scritto il Maestro. Poche righe dopo, Orwell dice di supporre che anche il tedesco, il russo e l'italiano debbano essere deteriorati a causa delle dittature. Aveva ragione. I suoi argomenti, seppure poco ascoltati, erano in accordo con i migliori esempi della saggezza corrente parecchi decenni fa. Era gli anziani di oggi troviamo chi li ha meditati, li condivide e li dissemina.
Nei settant'anni trascorsi dall'uscita del suo saggio, la lingua italiana ha continuato a degradare, sebbene scrittori di prima classe abbiano pubblicato storie avvincenti, ricche di concetti profondi espressi in prose perfette. I loro libri, però, hanno pochi lettori. L'editoria è in crisi. È una delle manifestazioni dell'attuale degrado culturale estremo.
Si legge e si studia poco.
Nel Capitolo 5 mettevo in guardia contro i messaggi potenzialmente fuorvianti trasmessi da immagini e icone. Qui - di nuovo - i vecchi corrono meno rischi perché non hanno l'abitudine di usare questo tipo di scorciatoie. Molti di loro sono stati addestrati a usare bene il linguaggio. Alcuni - non tanti, in verità - impararono anche a occuparsi per prime delle cose più importanti (first things first!) e solo in séguito di quelle meno rilevanti. Sarebbe utile individuare questi soggetti e sfruttarne le capacità.
La gente normale (specialmente i giovani) si esprime male anche perché pensa a cose da poco. Discorre su argomenti banali. Basta sentirli parlare: sui treni, nei ristoranti, in coda agli sportelli. Discorrono su quanto trovano in giornali, riviste, radio e televisione, cioè: cucina, moda, sport, pettegolezzi di politica, cinema, teatro; qualche volta anche arti figurative e letteratura. Alcuni cosiddetti intellettuali ripescano autori antichi e (forse giustamente) oscuri, ma li raccontano in elzeviri che non legge nessuno. Dibattono su difficoltà burocratiche, regolamenti relativi a soldi e tasse, ma anche raccolta differenziata dei rifiuti, modulistica, maleducazione dei pubblici ufficiali.
Si parla e si scrive poco di descrizioni del mondo, osservazioni, analisi, concetti generali, teorie, così come dei risultati più brillanti elaborati dal cervello umano. I neurofisiologi citano spesso la famosa frase del professor Sir Charles Scott Sherrington: "Come una Via Lattea che entri in una specie di danza cosmica, il cervello è un telaio incantato, in cui milioni di spolette lampeggianti intessono una configurazione che si dissolve, sempre significativa, ma mutevole, una mobile armonia di subconfigurazioni".
Le spolette lampeggianti degli impulsi nervosi attraversano il cervello e trasmettono immagini, messaggi, concetti, idee, parole. Pure, quando comunichiamo con parole, spesso questa struttura meravigliosa fallisce. Non ci facciamo capire. Non sono solo i discorsi fuorvianti a trasmettere informazioni false. Non è solo per ignoranza che i messaggi che generiamo divergono dalle nostre intenzioni originarie.
Le comunicazioni falliscono per tante ragioni e, ogni volta che non vanno a segno, ne conseguono incomprensioni, sconcerti, liti, danni e, talora, violenze e distruzioni.
Certi negativisti si sono occupati della questione parlando di incomunicabilità. Ma non è utile parlare in termini astratti delle difficoltà che incontriamo. Meglio provare a scoprirne le cause ed i modi di rimediare.
Nelle riunioni internazionali spesso ho difficoltà a capire i giovani britannici perché il volume della loro voce è troppo basso. Non staccano bene le parole. Mormorare così in inglese si chiama mumble ed è un segno di cattiva educazione, ma lo fanno lo stesso. Il risultato per me è disastroso perché sono un po' sordo. Le cose vanno ancora peggio se un ascoltatore proprio non vuole sentire. Una strofetta di Adolfo de Bosis diceva:
Disse un merlo a un tordo vecchio: "Puoi prestarmi un po' l'orecchio?
Anzi no, per meglio dire: puoi prestarmi mille lire?".
Gli rispose il vecchio tordo: "Sono sordo, sono sordo".
Dunque, in molti casi, le comunicazioni sono bloccate da cause puramente fisiche. Succede anche quando i messaggi scritti sono illeggibili. Sembra una cosa banale, ma non lo è: si creano situazioni frustranti.
Chi partecipa ad un congresso riceve (oltre a una borsa piena di carte e dépliant) un cartellino stampato con il proprio nome e la propria qualifica. Se lo attacca al bavero per non doversi presentare di continuo. Quasi sempre i caratteri usati sono alti cinque o sei millimetri. Per leggerli, tocca avvicinarsi ai colleghi in modo ridicolo.
Se una signora porta il cartellino vicino alla scollatura, la situazione è imbarazzante. La comunicazione continua ad essere pessima se gli oratori si aiutano con diapositive (le famose slide). Di nuovo i caratteri sono troppo piccoli e, se non stai sotto lo schermo, non riesci a leggerli.
(Peggio ancora va se le scritte sono blu su celeste o nero su grigio).
Nei corsi di grafica e comunicazione si insegna a progettare in modo corretto gli angoli che sottendono le scritte alla distanza da cui andranno lette. Troppi progettisti di cartelli e segnali stradali non hanno seguito questi corsi.
Ai tempi antichi le targhe coi nomi delle strade erano destinate ai pedoni, che vanno lenti e si possono avvicinare per osservarle meglio. Le lettere piccole si leggevano bene.
Ora non più: se guidiamo l'auto, ü tempo disponibile è poco (è inversamente proporzionale alla velocità) e non possiamo avvicinarci ai cartelli. Fanno eccezione i segnali stradali grandi e chiari delle autostrade italiane (ma negli ultimi anni anche questi sono stati impiccoliti e si leggono male).
È proverbiale, infine, la pessima calligrafia dei medici: una ricetta interpretata male può essere letale.
Non si tratta, dunque, di fisime, né di galateo. Comunicare in modo comprensibile è vitale per migliorare il rendimento della società. È un modo per creare ricchezza, o per non distruggerla. È prescrizione necessaria perché si sviluppi davvero la società della conoscenza.
E fin qui ho parlato solo dell'ascolto di parole e del riconoscimento delle singole lettere. Le cose si complicano quando si entra nel campo dei contenuti. Un testo può essere scritto in caratteri grandi e ben contrastati e, pure, risultare illeggibile perché prolisso od organizzato male.
Andrebbero insegnate a tutti le regole per scrivere bene suggerite da Orwell: fra due sinonimi scegli sempre il più corto, e scegli quello della lingua in cui scrivi. Evita parole specialistiche: usa quelle della lingua corrente. Evita i termini astratti: usa i concreti. Usa la forma attiva, non quella passiva. La lettura è più facile se frasi e parole sono corte.
Non usare modi di dire o similitudini che vedi spesso stampate, perché ormai hanno perso ogni mordente. Invece sentiamo discorsi e leggiamo testi pieni di parole usate in senso figurato. Sono brutte ed inefficaci. Fra queste: "anticorpi", "marchette", "mal di pancia", "assalti alla diligenza", "manciate di secondi" - e non ne cito altre volgari e penose. È triste e tragico che sia negletta la cultura tecnico-scientifica, ma è altrettanto urgente fare in modo che anche la cultura letteraria e l'uso corretto della lingua siano coltivati come si conviene. Parlare e scrivere chiaro aiuta a pensare chiaro.
Se le cose da dire sono tante, non puoi essere conciso.
Devi scrivere decine o centinaia di pagine. Solo pochi le leggeranno tutte. Se sono documenti di lavoro, più alto è il grado del lettore, meno tempo avrà per leggere.
Per questo ogni relazione o rapporto deve essere preceduta da un Sommario destinato ai pezzi grossi (si chiama Executive Summary). Non deve superare le tre pagine e deve dare un'idea del contenuto delle 300 pagine seguenti.
Deve essere corredato di una guida al testo che permetta di balzare alla pagina rilevante per l'argomento in questione. Gli esperti lo sanno: è il solo modo per essere letti e capiti.
Da anni, e sempre più spesso, si usano orrendi intercalari privi di senso. Alla radio presentatori, intervistati, politici e sedicenti intellettuali chiedono "Come dire?" due volte al minuto. Tempo fa, un mio collaboratore espose a un auditorio una presentazione interessante e bene organizzata.
Quando ebbe finito lo presi da parte. Gli dissi: "In 50 minuti hai detto 55 volte «In qualche modo». Ora mi devi dire in che cavolo di modo!".
Vanno evitate le parole astratte perché non richiamano nessuna immagine alla mente di chi le legge. Le parole concrete che descrivono cose o persone sono più efficaci. Chi dica: "Intorno a noi la dinamica della femminilizzazione ha preso nettamente il sopravvento" asserisce solo che qui e ora ci sono più donne che uomini.
"La filiera del cibo sano nasce dalla trasparenza e dall'equità" è una frase che usa il termine concreto "filiera" (processo produttivo, in particolare di fibre sintetiche) come metafora.
Quindi va nel vago con due astratti.
Bisogna evitare di mischiare le metafore. Orwell cita il ridicolo esempio: "La piovra fascista ha cantato il suo canto del cigno".
Le metafore, poi, corrono il rischio di essere interpretate in modo letterale. Se vengono ripetute di frequente ed accettate, disseminano credenze false e dannose. Dobbiamo combatterle.
Ad esempio sentiamo dire: "Queste credenze, questi comportamenti, questi modi di essere non fanno parte del mio DNA, né del DNA della mia azienda - o del mio partito".
Sono asserzioni prive di senso. Le credenze, i comportamenti, la personalità di un essere umano non sono immutabili e determinati dalla sua eredità genetica, ma dall'esperienza, dall'ambiente, dai memi che gli sono stati trasmessi.
Le popolazioni, le organizzazioni, le aziende, poi, non hanno DNA e cambiano orientamenti, abitudini, fedi.
Accade purtroppo a tutti di usare parole senza conoscerne il significato. Nel Capitolo 2 mostravo come questo accada a molti per il PIL. Chi parla di economia spesso non sa bene nemmeno cosa siano i derivati, gli imponderabili, le bolle e così via. Bisogna informarsi.
Concludo questa lista di ostacoli alla comunicazione con le espressioni prive di senso che suonano come neologismi profondi necessari per introdurre concetti innovativi. Talora hanno la forma di ossimori, come "inconscio digitale", "pensiero cross-mediale" e così via. Non le usare: domandati se ci sia dietro un concetto magari vago. Documèntati su chi le abbia introdotte e sul perché lo abbia fatto.
È una leggenda che i giovani siano tanto bravi a usare i computer - specie se sono "nativi digitali". Alcuni sono solo meno timidi. Ci provano in tanti modi e, alla fine, qualche successo lo hanno. Ottengono risultati rapidi perché usano app e servizi di social networking come Twitter, con cui è immediato disseminare brevi messaggi di 140 caratteri, come dicevo nel Capitolo 1. Twitter offre anche canali di pubblicità. In Italia è usato solo dal 5 per cento degli utenti della Rete. È preferito dai giovani, che trovano difficoltà ad esprimersi in modi più distesi e informativi. Lo usano quasi ogni giorno certi uomini politici e altri personaggi in vista.
Non dicono cose importanti e non le dicono bene. Ho dato un'occhiata ai migliori tweet sull'intelligenza artificiale (IA) diffusi dalla rivista "Technology Review" del NUT a commento di un simposio di esperti sull'argomento. Erano deludenti, in parte a causa del formato angusto. Eccone due esempi: "I prossimi grossi progressi in IA verranno da un approccio integrato simile alla «bella coordinazione» della mente umana". "Di domande sulla IA ne abbiamo sentite troppe, ma le risposte sono recenti data la potenza dei computer e la disponibilità di dati".
Uno strumento che si presta troppo a essere usato male è PowerPoint - parte dell'armamentario di Microsoft Office.
Consente a docenti e conferenzieri di integrare le loro presentazioni orali proiettando diapositive visualizzabili in sequenza su qualsiasi computer dotato di questo software. Le diapositive possono contenere anche fotografie, testi, animazioni, suoni, link a siti esterni.
È molto usato da uomini d'affari, docenti, studenti, relatori e professori: la proiezione di immagini, grafici, schemi e tabelle può essere utile. È bene che le tabelle non contengano troppe righe e colonne, altrimenti l'uditorio non ne sopporta la mole eccessiva e i messaggi non arrivano.
Anche i testi non devono essere troppo lunghi. Qualcuno fa scorrere sullo schermo il testo intero della relazione che sta leggendo. È una pessima decisione. Chi lo ascolta viene distratto dal testo scritto, che procede a un passo diverso dal parlato. Molti oratori non fanno lo sforzo di ricordare la lista dei temi che intendono presentare.
Così redigono una scaletta in cui elencano i titoli degli argomenti da esporre, ne fanno una slide in PowerPoint (magari corredata di eleganti disegni) e la proiettano sullo schermo. Così il pubblico non sta attento a quello che dice l'oratore, ma cerca di leggere sullo schermo quale sarà l'argomento seguente. Dopo la conferenza gli intervenuti ricevono copia su carta delle slide con la scaletta.
Non è un riassunto del testo, ma una traccia che avrebbe dovuto servire solo al conferenziere. Non è informativa.
È una lista di titoli. Spesso non ha nemmeno una struttura grammaticale corretta.
La possibile confusione derivante dall'impiego di PowerPoint ha avuto anche conseguenze tragiche: la distruzione della navetta spaziale Columbia e del suo equipaggio nel 2003. Lo affermò la Commissione di inchiesta sulla tragedia, dovuta al distacco di una parte dell'isolante di un'ala.
Cause e caratteristiche dei rischi erano state analizzate dagli ingegneri della NASA. Le loro conclusioni, però, erano state presentate con una confusa sequenza di slide PowerPoint piene di elenchi puntati e di brevi note non esplicite sui rischi di danni alle ali dello Shuttle. La Commissione concludeva: "È comprensibile che un manager di alto livello possa aver letto le slide PowerPoint e non essersi reso conto che descrivevano rischi mortali".
PowerPoint è lo strumento più diffuso per presentare informazioni; gran parte delle decisioni manageriali viene presa utilizzandolo. Nel 2014 ne circolavano 500 milioni di copie. Mentre erano solo 40 milioni quelle di Prezi - l'altro sistema che usa Cloud e visualizza informazioni in modo sintetico su una tela virtuale con testo, grafica, video ecc.
Prima che scoppiasse la Seconda guerra del Golfo, il generale Colin Powell presentò alle Nazioni Unite una sequenza di slide PowerPoint per dimostrare che l'Iraq aveva armi di distruzione di massa. Non era vero, e i documenti così redatti dal Pentagono costituirono una grave manipolazione dei fatti. La guerra fu scatenata in modo avventato.
Edward Tufte, noto esperto della teoria e pratica della trasmissione di informazioni, pubblicò un lavoro critico, The Cognitive Style of PowerPoint, "Lo stile cognitivo di PowerPoint".
La sua tesi è che l'uso di questo strumento ci può rendere più stupidi.
Vari anni or sono, Nicholas Carr, un controverso studioso della tecnologia dell'informazione, sosteneva già che stava calando l'importanza strategica dell'informatica per le aziende. Poi si chiese se Google ci stesse rendendo stupidi.
Era risentito contro il predominio di Wikipedia, che bollava come "wikicrazia". Ora sostiene che soffriamo di sovraccarico conoscitivo. La Rete ci offre troppo, ci distrae e non ci permette di concentrarci. Registriamo le informazioni forniteci da tre o quattro pagine web al massimo. Non leggiamo più libri dall'inizio alla fine. Siamo schiavi di Google - di cui Carr interpreta gli intenti come: "Noi (Google) capiamo quello che avete in mente e vi diamo quello che volete davvero, anche se ancora non ve ne rendete conto".
Ammette che dal Web possiamo scaricare in tempo reale i fatti, i dati, le notizie, le teorie, le citazioni che vogliamo.
Però siamo indotti a ragionare in modo "staccato". Perdiamo il filo, non riusciamo a controllare i flussi di informazioni che ci arrivano e nemmeno i nostri processi mentali.
Suggerisce a chi tratta problemi intellettuali importanti o complessi di stringere il rubinetto dell'informazione finché ne scorra solo un filo.
Carr ha torto. Ottant'anni fa imparai da mio padre che sono rari i libri che vanno letti dalla prima all'ultima parola.
In quasi ogni libro ci sono cose che ti interessano, ma devi leggerli diagonalmente. Prima l'indice e la prefazione, poi l'indice analitico - i capitoli di cui sai già qualcosa (così ti è più facile valutarne la qualità), infine le parti nuove ed interessanti, allargando la tua ricettività. Questa tecnica è adatta a navigare in Internet. Infatti un enorme esercito di persone, le più svariate, ha messo in Rete di tutto. Ci sono cose serie e sciocche, interessanti e neutre, vere e false, controverse e ben congegnate, utili e dannose, ben strutturate e disordinate. Ci sono i più bei libri mai scritti e i peggiori.
Testi intelligenti e altri scritti da decerebrati. Passi sublimi e porcheriole. Perché questa mole infinita sia utile dobbiamo avere criteri di giudizio che si formano solo studiando, sperimentando, ragionando, distinguendo le persone da ascoltare da quelle che vanno ignorate o evitate.
Certo che Wikipedia non è tutta di altissimo livello - ma di sicuro non coincide con la Rete. I siti professionali contengono link: seguendoli raggiungiamo testi, immagini, luoghi inaspettati. Ma, anche dove non ci sono link, basta immettere in Google parole singole, nomi, numeri, dati per essere condotti ad altri testi o siti. È bene prendere appunti dei passi che facciamo e delle diramazioni che abbiamo seguito per non correre il rischio di intravedere elementi di interesse vitale e poi perdere la strada per tornarci. È fondamentale saper giudicare il valore dei testi e degli oggetti che troviamo. Ci riesci solo se ne sai già tanto. Se non ne sai abbastanza, fatti aiutare da un anziano colto e vispo.
Anche lui ne trarrà giovamento.
Questi modi di usare la Rete prendono tempo. Molti giovani sono assillati dal desiderio di avere o fare tutto subito.
Scrivere subito i messaggi e mandarli via all'istante. Così le loro comunicazioni sono spontanee - e non meditate, né riviste. Diciamogli: "Take it easy!", "Prenditela comoda!".
Pare che Hemingway abbia riscritto ventisei volte l'ultima pagina del suo romanzo Addio alle armi. Può sembrare un'esagerazione. Il romanzo era buono, ma non è un'opera talmente somma da richiedere tanta cura perfezionistica.
Però forse c'è una correlazione fra la compulsione alle revisioni di Hemingway e il fatto che gli abbiano assegnato il premio Nobel per la letteratura.
Parecchi decenni più tardi, John Kenneth Galbraith sosteneva nella prefazione al suo libro The New Industrial State (1967): "I miei scritti cominciano ad apparire spontanei dopo la quarta o la quinta revisione". Il libro è interessante.
Definiva le tecnostrutture. Denunciava l'anacronismo delle leggi antimonopolio. Individuava nella mancanza di cultura moderna una delle cause della disoccupazione. Vale la pena di rileggerlo. Quando lo lessi avevo quarant'anni.
Trovai irritante la nota di Galbraith. Mi dissi: "Che bisogno c'è di tante revisioni? Se sai quel che vuoi scrivere, rifletti bene prima, così non hai bisogno di rivedere".
Avevo pubblicato due libretti scritti proprio così. Riflettevo a lungo su ogni frase finché non mi soddisfaceva - e poi non cambiavo neanche una parola. Non erano male, ma avrei potuto migliorarli. Me ne resi conto bene quando Donato Barbone passò con me molte ore a revisionare e correggere il manoscritto del mio saggio Il Medioevo prossimo venturo. Spezzammo frasi e ne cancellammo altre (anche due capitoli, oltre a interi paragrafi). Cambiammo parole.
Togliemmo citazioni e riferimenti inutili. Trasformammo proposizioni passive in attive. Oltre a migliorare la forma, discutemmo i contenuti, eliminando fallacie e non sequitur.
Fu una buona scuola per me.
Negli anni successivi mi occupai di leggibilità e introdussi in italiano l'indice definito da Rudolf Flesch per l'inglese.
Così imparai a produrre testi di più agevole lettura. Si impara facendo, quindi migliorai parecchio il livello dei miei messaggi scrivendo relazioni tecniche, articoli di giornale e tanti libri. Non c'è dubbio che la revisione del testo (in inglese si chiama editing, e chi la fa editor) migliora la qualità. È bene che sia praticata da professionisti che collaborano con l'autore.
Nei paesi anglosassoni c'è una buona tradizione. In Italia ci sono ottimi editor - ma in anni passati ne ho incontrati alcuni penosi anche presso qualche editore di buona reputazione.
Questa premessa mira ad ispirare diffidenza verso i messaggi improvvisati. Chi li produce non ha tempo per l'editing e nemmeno per riflettere su quello che sta scrivendo. L'insistenza sul fatto che sia meglio avere connessioni mobili in Rete implica che è sempre un bene comunicare e scambiare messaggi - anche se si è in viaggio, in moto, o in equilibrio su un piede solo.
Lo nego. Consiglio, invece, di astenersi dall'uso dei blog e dalle connessioni in cui si chatta in tempo reale. Sono connessioni che vanno bene per chiacchiere di poco conto. Facciamone a meno e concentriamoci su discorsi di rilievo dopo aver pensato e meditato.
Dopo tre secoli, tocca dar ragione a Metastasio, che scrisse:
Voce dal sen fuggita poi richiamar non vale, non si trattien lo strale quando dall'arco uscì.
Anche se i versi non sono un gran che (specie per chi non ama i settenari).
Sfrutta l'utile caratteristica della posta elettronica di essere asincrona. Rileggi e correggi con calma il messaggio. Spediscilo solo quando dice proprio quel che vuoi dire: il destinatario lo leggerà quando sarà comodo, e risponderà nei suoi tempi.
Negli uffici americani dell'IBM su ogni muro c'era un cartello che diceva: THINK.
In Italia, più saggiamente, i cartelli dicevano: RIFLETTETE.