Prologo

 

 Venezia. Stazione ferroviaria di Santa Lucia

 Fu il rumore disinvolto e arrogante dei tacchi ad attirare la sua attenzione sulla donna. Si voltò quasi di scatto e la vide avanzare fendendo il folto gruppo di passeggeri che erano appena scesi da un treno ad alta velocità proveniente da Napoli. L’uomo ebbe il tempo di osservare la falda del soprabito primaverile che si apriva a ogni passo, permettendo un’occhiata fugace alle gambe dritte e tornite, messe bene in mostra da un vestito corto e leggero.

 Nel momento in cui la sconosciuta gli passò accanto, spostò lo sguardo sul volto, che giudicò non troppo attraente ma interessante. Poi i suoi occhi si abbassarono sulla borsa. Una pregiata e leziosa Legend in vitello martellato, costoso modello di Alexander McQueen. Quest’ultimo dettaglio lo spinse a seguirla. Si sfiorarono, pigiati nella ressa che saliva sul vaporetto diretto alle Fondamenta Nuove, e lui allungò discretamente il collo per annusarne il profumo. Resinoso, avvolgente, carnale. Lo riconobbe subito e si convinse che si trattava di un segno del destino. Dopo quattro giorni d’attesa e di inutili pedinamenti forse aveva individuato la preda che avrebbe reso indimenticabile quella vacanza.

 Per le sue battute di caccia aveva scelto la fascia oraria serale in cui i veneziani che lavoravano in terraferma ritornavano a casa. Una massa di persone stanche e distratte, desiderose solo di infilarsi un paio di pantofole e, dopo una buona cena, distendersi sul divano davanti alla televisione. Impiegati di ogni ordine e grado, professionisti e studenti si facevano largo tra i forestieri che affollavano i battelli. A ogni fermata scendevano a gruppi disperdendosi con passo frettoloso nelle calli e nei campielli silenziosi e scarsamente illuminati.

 Le altre donne che aveva pedinato si erano rivelate una delusione. Avevano incontrato amiche o fidanzati lungo il tragitto, oppure, giunte davanti a un portone, avevano suonato il campanello, prova inconfutabile della presenza in casa di altri individui. Senza contare quelle che aveva seguito fino all’entrata di un hotel.

 La prescelta prese il cellulare dalla tasca per rispondere a una chiamata. Lui capì dal saluto che la donna proferì a voce alta per poi abbassare il tono fino a un bisbiglio indistinto, che parlava francese, lingua che ignorava del tutto. Si stupì e si rimproverò perché fino a quel momento era stato fermamente convinto che fosse italiana. A tradirlo erano stati l’abbigliamento e il taglio di capelli. Sperò con tutte le sue forze che si trattasse di una residente. D’altronde Venezia poteva contare su una comunità di stranieri residenti piuttosto cospicua. Se tutto fosse andato nel migliore dei modi, si sarebbe rivolto a lei in inglese, lingua che invece conosceva alla perfezione, al punto da poter essere scambiato per un cittadino britannico.

 Lei scese alla fermata Ospedale insieme a molti altri, lui fece in modo di essere l’ultimo a sbarcare e poi continuò il pedinamento, reso ancora più facile dal tacchettio sulla pietra d’Istria che pavimentava buona parte di Venezia.

 La donna attraversò a passo sostenuto l’intera struttura ospedaliera, a quell’ora affollata di parenti in visita, e infilò l’uscita principale che dava in Campo San Giovanni e Paolo. L’uomo pensò che solo una persona molto pratica della città poteva conoscere quella scorciatoia. Dalle parti di San Francesco della Vigna fu costretto ad accelerare il passo per non perdere il contatto visivo. Arrivata a Campo Santa Giustina, la prescelta proseguì verso la Salizada fino a calle del Morion, infine prese per Ramo al Ponte San Francesco. Lui calcolò che li separava non più di una decina di metri: se la preda si fosse voltata, lo avrebbe individuato costringendolo a distanziarsi o addirittura a tornare indietro, ma era persuaso che non sarebbe accaduto. Sembrava che la francese avesse solo fretta di arrivare a casa. A un tratto rallentò il passo in calle del Cimitero per svoltare in una corte chiusa e lui si concesse un sorriso soddisfatto.

 La donna, che non si era accorta di lui grazie anche ai suoi indumenti scuri e alle suole di gomma morbida, frugò senza affanno nella borsa alla ricerca delle chiavi e aprì la porta di un appartamento al piano terra con entrata indipendente.

 L’uomo controllò che non vi fossero luci accese, e il buio e la certezza che la donna fosse sola lo eccitarono a tal punto da fargli perdere ogni controllo. Conosceva bene quello stato in cui razionalità e istinto di conservazione si annullavano rimettendolo alla mercé del sovrano dell’universo: il caso.

 Raggiunse la francese correndo sulla punta dei piedi, la spinse a terra e richiuse la porta.

 «Non muoverti e non urlare» ordinò tastando la parete alla ricerca dell’interruttore.

 Era così sicuro di avere la situazione sotto controllo da non accorgersi che la donna si era rialzata. Nel momento in cui accese la luce, lei iniziò a colpirlo con pugni e calci senza dire una sola parola.

 Era certo che gli avesse rotto almeno una costola del fianco destro e i testicoli gli dolevano tremendamente. Cadde a terra con la tentazione di mettersi in posizione fetale per contenere le fitte lancinanti, ma capì che lei lo avrebbe sopraffatto, condannandolo a terminare l’esistenza in un carcere di massima sicurezza dopo processi imbarazzanti, disamine da parte di qualificati cervelloni e chiacchiere di giornalisti e scrittori. Non lo poteva permettere. Con uno sforzo enorme e la vista annebbiata rotolò via dalla furia della donna, alla ricerca di un oggetto qualsiasi che gli permettesse di difendersi.

 Ebbe fortuna. Nonostante due terribili calci alle reni, l’uomo afferrò un vaso portaombrelli di rame e con la forza della disperazione iniziò a percuotere la donna alle gambe. Finalmente lei cadde a terra offrendogli l’opportunità di assestarle un decisivo colpo alla testa.

 Lui rimase immobile a riprendere fiato, con l’arma improvvisata stretta tra le mani, pronto a sbattergliela addosso casomai si risvegliasse. Dopo qualche istante riuscì ad alzarsi nonostante il dolore. La francese aveva perso i sensi: era distesa, le gambe aperte, il vestito sollevato fino all’inguine. Lui provvide a metterla in una posa decente e si accertò che fosse ancora viva.

 Non doveva andare così. Le altre volte era stato diverso. Le prescelte si erano comportate bene, non avevano opposto resistenza, anzi, avevano assunto quell’atteggiamento di sottomissione dettato dal terrore che a lui piaceva tanto. E avevano frignato, implorato pietà, lo avevano assecondato senza smettere di appellarsi a un senso di umanità che lui in realtà non possedeva. Questa invece aveva reagito con violenza e un silenzio che gli aveva fatto venire i brividi.

 Avrebbe voluto andare in bagno per sciacquarsi il viso, ma il rituale prevedeva che tutto si svolgesse appena superata la soglia dell’abitazione della preda. Si trattava anche di una questione di sicurezza: meno si va in giro per le stanze, meno tracce si lasciano.

 Le allargò le braccia e le bloccò con le ginocchia mettendosi a cavalcioni su di lei, attendendo che riprendesse conoscenza.

 Verificò con piacere che la ferita sul cuoio capelluto non era grave, le accarezzò il volto con i costosi guanti da chirurgo in stirene-butadiene che garantivano una maggiore sensibilità rispetto a quelli in lattice.

 Lei aprì gli occhi. La prima reazione fu quella di tentare di divincolarsi, colpendolo alla schiena con le ginocchia, ma l’aggressore iniziò a stringerle il collo. Lei lo fissava con odio, sembrava non avesse paura, come se fosse sempre stata pronta a lottare per la propria vita. Si sforzava di rovesciare la situazione e a un certo punto sibilò qualche frase in francese. Gli sembrò che ripetesse più volte la stessa parola, forse un nome.

 L’uomo si accorse di temere la sua prescelta, di averne in qualche modo soggezione e, a differenza delle altre volte, fu frettoloso a ucciderla.

 Quando fu certo che non respirava più, si staccò dal cadavere a fatica e lo stuzzicò con un paio di calcetti stizzosi. Non lo aveva mai fatto prima, ma quella donna si era comportata in modo davvero odioso. Dalla tasca prese un sacco in tessuto, vi infilò la borsa della defunta e tutti gli oggetti contenuti nelle tasche. Anche il cellulare, dopo aver tolto la sim card. Sarebbe stato stupido farsi individuare.

 Rimase ancora una manciata di secondi a fissare con riprovazione gli occhi privi di vita della vittima e poi uscì, chiuse a chiave la porta, e si allontanò a passo veloce.

 L’assassino arrivò al suo rifugio in Campo de la Lana senza problemi. Era certo di essere al sicuro. A questo punto avrebbe raggiunto il piacere assoluto con la parte finale del rituale: prendere tutti gli oggetti contenuti nella borsa e disporli secondo un ordine preciso su un lenzuolo candido e profumato, poi osservarli, toccarli. Vera estasi il momento dedicato al portafoglio, pieno di foglietti e fotografie. Era convinto che le donne avessero un dono particolare nella capacità di sintetizzare la loro esistenza in un borsellino.

 Ma il dolore alle costole era insopportabile e fu costretto a rinviare per concentrarsi sull’automedicazione a base di ghiaccio e analgesici.

 Ficcò la borsa nell’armadio e si distese sul letto, terribilmente deluso.

 Le fitte e il malumore gli impedirono di dormire. Si sentiva frustrato, e con il passare delle ore iniziò a nutrire curiosità per quella pazza isterica che il caso aveva messo di traverso sulla sua strada.

 Avrebbe potuto tuffare le mani nella Legend ma temeva di rovinare tutto, aveva paura di perdere la “magia”. Accese la radio per seguire il notiziario regionale del mattino e la totale assenza di un omicidio a Venezia era la dimostrazione che il cadavere non era stato ancora scoperto. Era deluso e l’attesa erodeva la capacità di controllare la situazione. Cercò di distrarsi ma pensava solo a controllare l’ora tra un bollettino e l’altro. Nessun accenno nemmeno nell’ultimo giornale radio della notte. L’annuncio non venne dato l’indomani e tantomeno il giorno seguente.

 Le altre volte le prescelte erano state ritrovate nel giro di poche ore ed era sempre stato soddisfatto della visibilità data ai suoi delitti. Ora l’idea di quel corpo in decomposizione lo infastidiva e lo tormentava. Il rituale prevedeva che i corpi venissero immortalati dai fotografi della scientifica nello stesso stato e con la stessa espressione in cui lui li aveva lasciati e non deformati dall’agire del bacillus putrificus e dei suoi orribili compari.

 Attese il quarto giorno e poi si decise a considerare l’idea di fare qualcosa per rendere pubblico il suo delitto. Lettere o telefonate anonime erano fuori discussione, perché significava lasciare indizi utili agli investigatori che lo braccavano da anni. Rifletté attentamente e giunse alla conclusione che l’unico modo era tornare nell’appartamento e lasciare la porta aperta per insospettire i vicini. Il lezzo di morte li avrebbe poi convinti a chiamare la polizia.

 Era il metodo meno sicuro ma più eccitante. L’uomo era certo che il rischio di infilare la chiave nella serratura, aprire la porta e dare un’occhiata al cadavere avrebbe rimesso in moto la “magia” e, ritornato al rifugio, avrebbe finalmente potuto godersi il momento da dedicare alla borsa.

 Il quinto giorno non fece nulla a causa di un riacutizzarsi del dolore alle costole: lo trascorse a letto a guardare la televisione intontito dagli antidolorifici.

 Il sesto invece si sentì meglio e, una volta verificato che la situazione non era mutata, si preparò ad agire quella sera stessa. Frugò nella Legend alla ricerca delle chiavi ma senza badare al resto degli oggetti che conteneva. Poi uscì. La postura antalgica che aveva assunto per non essere scosso dalle fitte lo obbligava a stare leggermente piegato di lato come un uomo più anziano di vent’anni affetto da artrosi. Valutò che in fondo non era negativo. Eventuali testimoni avrebbero ricordato un tizio che camminava in modo strano, ma le costole sarebbero guarite presto e alla fine quel particolare avrebbe solo depistato gli inquirenti. Proprio come la barba, che faceva crescere prima di ogni delitto.

 Si fermò in farmacia per acquistare un balsamo per il raffreddore a base di menta con cui avrebbe umettato le narici: non voleva correre il rischio di vomitare davanti al corpo di quella stronza.

 Seguì le indicazioni che aveva impostato sul cellulare: l’Accademia, San Marco, Rialto, San Lio, Campo Santa Maria Formosa, fino a ricongiungersi con la zona dell’Ospedale. Un percorso lungo e contorto apparentemente privo di senso. In realtà aveva bisogno di riattivare il fisico dopo lunghe giornate in cui era stato costretto a letto. L’aria di mare e il cammino lo avrebbero aiutato a riflettere; temeva che gli analgesici gli avessero annebbiato la mente e offuscato la capacità di giudizio.

 Quando arrivò nella corte chiusa, si nascose nel buio e osservò porte e finestre alla ricerca di eventuali segni di pericolo. Poi si avvicinò e aprì la porta. Pensò che il trucco del balsamo funzionava, perché non fu aggredito da nessun odore sgradevole.

 Si richiuse il battente alle spalle e accese la torcia puntando il fascio luminoso sul pavimento dove giaceva il corpo. Sentì una fitta allo stomaco quando si rese conto che non c’era nulla. Accese la luce e si ritrovò in una stanza vuota. Nessun cadavere, nessun mobile, nessun quadro alle pareti che sembravano ritinteggiate di fresco. E nemmeno quell’orribile vaso portaombrelli.

 Certo di essere caduto in una trappola, si sentì perduto e si preparò a essere arrestato alzando le mani in segno di resa, ma dopo un lungo istante di terrore capì dal silenzio che la casa era disabitata. Forse lo stavano attendendo all’esterno ma, spinto da un’indomabile curiosità, decise di avventurarsi nelle altre stanze. Con il cuore in gola accese le luci delle due camere da letto, della cucina e del bagno. Nulla. Nemmeno un granello di polvere. Solo un forte odore di vernice.

 Sconvolto, tornò sui suoi passi e mentre stava allungando la mano sulla maniglia, con la coda dell’occhio catturò il pulsare di una minuscola luce rossa. Aguzzò lo sguardo e notò il modellino di una gondola appoggiato sul bordo dell’armadietto di legno che custodiva il contatore dell’energia elettrica. L’afferrò con delicatezza chiedendosi perché avessero scordato proprio quell’oggetto così evocativo della città, ma furono sufficienti pochi istanti per capire di tenere tra le mani una minitelecamera wifi. Qualcuno lo stava osservando e ora conosceva il suo volto.

 Un urlo di rabbia, stupore e dolore gli esplose dal petto. Uscì gridando come un ossesso e agitando la gondola sopra la testa, pronto ad affrontare gli sbirri che certamente lo stavano attendendo. Ma nella corte deserta nessuno tentò di fermarlo. Corse per un centinaio di metri. Poi si fermò di colpo. Era senza fiato e le gambe erano diventate molli. Angoscia, terrore. Si sentiva come se stesse precipitando in un abisso buio come la notte. Il caso che tanto amava e che gli faceva vivere momenti indimenticabili si stava rivelando ostile e pericoloso.

 Spezzò il modellino in due con un gesto secco e gettò i pezzi in un canale secondario. Si girò alla ricerca di inseguitori ma la calle era desolatamente vuota. Riprese a correre con la terribile consapevolezza di essere diventato una preda.