Otto

 I Liberi Professionisti erano molto attenti ai particolari. Quella mattina Laurie aveva ricevuto una telefonata dal tizio che si faceva chiamare Abernathy e poi aveva preteso che Cartagena sentisse sia Kiki che Hilse.

 Con la prima doveva cominciare a mostrarsi freddo e scostante, mentre con la moglie disposto ad accogliere la sua richiesta di maternità.

 La canadese lo aveva sottoposto a una sorta di prova, recitando le parti delle due donne, e aveva voluto essere presente alle conversazioni.

 La povera amante aveva interrotto la telefonata tra le lacrime quando lui le aveva fatto capire che non aveva voglia di vederla nel prossimo futuro.

 «Hai un’altra, vero?»

 «Certo. Mia moglie!» aveva sibilato Abel. «E poi tu non sei nella condizione di porre certe domande.»

 «Non capisco perché mi tratti così. Forse per il mio atteggiamento versi i tuoi studi su Galuppi?»

 «Anche. E comunque ora non ho più voglia di sentire la tua voce. Quando ne avrò voglia ti chiamerò.»

 Il Turista buttò il cellulare sul divano. «È un errore perdere Kiki, è utile e innocua.»

 «Mettiti in testa che è finita l’epoca delle mongolfiere» rispose la partner.

 «E questo che cazzo significa?»

 «Abbiamo visto le foto: è troppo appariscente. Non solo per le forme ma anche per come si veste» rispose in tono piatto. «Ci dispiace per i tuoi gusti ma dovrai accompagnarti a esemplari femminili che corrispondano ai nostri standard.»

 Abel sospirò e andò in cucina a bere la terza tazza di tè della mattina. Lei lo raggiunse. Aveva la mania di muoversi silenziosa come una gatta, ma lui si era già abituato a ritrovarsela alle spalle all’improvviso.

 «Che tipo sei a letto?» chiese Laurie.

 «Perché?»

 «Non riesco a inquadrarti. Dormiamo sullo stesso materasso e non hai allungato nemmeno un dito. Non sto dicendo che avrei gradito che tu lo facessi, ma io sono molto più bella e sensuale delle tue donne.»

 «Ah, sì?»

 «Hilse è una mogliettina piacente anche se ha una faccia che non denota particolare fantasia e Kiki è solo una faticosa scopata per ottenere un’inconsapevole complicità.»

 Abel mostrò una smorfia di rimprovero. «Attenta, Laurie, ti sei lanciata in un tipico discorso da psicopatici.»

 «Ma in questo momento siamo solo io e te. Puoi farmi la cortesia di riconoscere la mia superiorità fisica rispetto ai tuoi “amori” e spiegarmi perché non mi hai chiesto di scopare? Questa situazione mi sta innervosendo e a me non piace.»

 «Non te lo puoi permettere: bisogno di eccitazione e deficit del controllo comportamentale» ribatté Abel, ricordandole due punti salienti della Psychopathy Checklist.

 «Appunto! Visto che sappiamo di cosa stiamo parlando, mi aspetto maggiore, se non totale, disponibilità da parte tua.»

 «Va bene. Non mi ero posto il problema, d’altronde sai bene che la nostra povertà emozionale non è d’aiuto.»

 «Allora potremmo metterci d’accordo sul fatto che quando uno di noi ha un’esigenza, la esplicita e l’altro cerca di accontentarlo?»

 «Ci sto» rispose Abel accomodante. «Vuoi fare sesso?»

 Lei finse di pensarci su. «No. E poi devi telefonare alla mogliettina.»

 Al contrario di Kiki, Hilse venne travolta dalla gioia. Lui la inondò di una melassa di luoghi comuni sull’amore e la paternità che aveva trovato su Internet.

 Laurie seguì con grande interesse e alla fine si complimentò ammettendo di non aver ancora raggiunto quel livello di loquacità manipolativa.

 «Noi dobbiamo fare attenzione a nascondere la nostra superficialità: nei discorsi, nelle relazioni personali» spiegò lui in tono complice. «Una volta che hai imparato a essere “profondo”, sei automaticamente sano di mente.»

 «Il segreto?»

 «Capire che tutti fingono, celano il volto dietro a una maschera, perché la menzogna è l’unica moneta di scambio che abbia valore fra gli esseri umani. Solo che noi dobbiamo essere più bravi.»

 «Sei anche un mezzo filosofo» commentò ammirata.

 Ma Abel aveva già perso interesse per quella conversazione. «Abernathy ti ha detto qualcosa a proposito dell’operazione?»

 La canadese sporse in fuori le labbra in una smorfia sbarazzina. «Sì, gradirebbe che la donna morisse entro oggi.»

 «Allora andiamo a darle un’ultima occhiata.»

 «No, saranno altri a seguirla. Verso sera ci avvertiranno quando potremo entrare nella sua casa.»

 «Ma io ho “bisogno” di vederla.»

 «Vedrai che riuscirai a eccitarti mentre l’aspetti nascosto dietro la porta, ma fino ad allora starai qui a occuparti delle tue ricerche su quel compositore. Sei un po’ indietro con il lavoro.»

 Laurie non aveva tutti i torti. Non poteva permettersi di avere problemi anche con l’editore. I suoi nuovi amici gli avevano promesso di pagarlo ma doveva comunque proteggere la copertura professionale.

 Si sedette alla scrivania, accese il computer e iniziò a scrivere il capitolo dedicato al Caffè di campagna, un’operina lieve composta su un libretto di Pietro Chiari, acerrimo rivale di Goldoni, nonché poeta di corte di Francesco III di Modena.

 Cartagena negli anni aveva imparato a concentrarsi sulle sue ricerche anche quando l’eccitazione per la caccia a una nuova vittima tendeva a invadergli la mente. Quando la canadese venne ad avvertirlo che era arrivato il momento, stava rileggendo soddisfatto il testo.

 Alba Gianrusso era uscita per la passeggiata pomeridiana. I mesi trascorrevano scavando una voragine di solitudine nella sua esistenza. Non solo per la lontananza di Ivan, costantemente in pericolo di essere ammazzato, ma anche per la separazione forzata dai parenti, dalle amicizie, dalla sua città e dai suoi alunni.

 Era disperata. Quando si svegliava al mattino, l’idea di affrontare un’altra giornata priva di senso la faceva precipitare nell’angoscia. Aveva visitato la città, tutti i musei e le chiese. Era andata a teatro e al cinema. Ma alla fine Venezia era diventata una prigione dorata.

 Aveva iniziato a bere. La quantità di alcol non era ancora preoccupante ma la strada era segnata. E poi aveva cominciato a trasgredire le norme di sicurezza, telefonando prima alla madre e alla sorella e poi alle amiche. Non dal cellulare con cui comunicava con il marito una volta la settimana per pochi minuti, ma da un apparecchio pubblico nei pressi dell’ufficio postale di Castello.

 Quel giorno aveva chiacchierato con Rossella. Si conoscevano da quando erano bambine e si volevano bene. Le aveva confidato la sua tristezza e l’altra l’aveva rincuorata, dicendole di avere pazienza, che alla fine Ivan sarebbe tornato e avrebbero ricominciato a essere felici come una volta.

 L’amica non capiva che lei era al limite e non era più sufficiente riflettere razionalmente sulla necessità di sopportare il tempo rarefatto del limbo in attesa della resurrezione.

 «Non avrei mai immaginato di causarti tanta sofferenza» le aveva detto Ivan.

 Ma lui nemmeno per un attimo aveva pensato di abbandonare la missione e di correre in suo aiuto. Aveva dato per scontato che lei fosse forte e che rimanesse lì in quella bomboniera di città a fare il suo dovere. E lei a trentasei anni si era già immolata fin troppo su quell’altare.

 Zia Elvira, che dagli uomini aveva ricevuto solo “danni e inganni”, come soleva ricordare, era stata chiara: «Non ha fretta di rientrare, e non perché si è dimenticato di averti portata all’altare, ma perché c’ha il suo bel tornaconto. E stai certa che non ha smesso di fottere, perché gli uomini a quello non rinunciano mai».

 Allungò il percorso per tornare a casa. Provò un nuovo bar che pubblicizzava un “momento aperitivo” a base di Spritz e stuzzichini. Aver ripensato allo schietto cinismo della zia gli fece venire sete e ne ordinò un altro. Si accorse che due uomini ogni tanto le lanciavano occhiate discrete. Sembravano militari di professione in giro per Venezia a godersi il sole e i locali. Alba pensò con una punta di compiacimento di attrarre ancora qualcuno. Ovviamente ignorava che l’avessero seguita dal mattino e che volessero solo assicurarsi che tornasse presto nel suo appartamento.

 Poco dopo il tramonto si decise a lasciare il locale. Non era riuscita a evadere dal suo inferno ma sentiva la testa più leggera. Si sarebbe preparata la cena e si sarebbe seduta a guardare la televisione con la bottiglia di amaro a portata di mano.

 L’appartamento che le avevano messo a disposizione era carino. Prima di essere confiscato, era appartenuto a uno spacciatore di cocaina che riforniva gli hotel di lusso, ed era stato ristrutturato con un certo gusto.

 Incontrava raramente gli altri inquilini. Al piano di sotto viveva un’anziana docente universitaria che usciva di rado. E sopra un pittore austriaco che veniva solo d’estate, carico di tele di vedute di Venezia dipinte a Klagenfurt, da distribuire nelle varie esposizioni che attiravano frotte di possibili acquirenti.

 Quando aprì la porta di casa e la richiuse alle sue spalle, fu certa di aver notato un impercettibile movimento in salotto. Pensò a un colombo o a un gabbiano passato in volo davanti alla finestra. Appoggiò la borsa, si tolse le scarpe e legò la sciarpa di seta, ultimo regalo di Ivan, all’appendiabiti. Quando si girò, si ritrovò di fronte una donna sorridente. Era vestita di scuro e portava i capelli raccolti.

 Non aveva un’aria minacciosa ma cambiò idea quando si accorse che le mani calzavano guanti di lattice. Alba non fece in tempo a reagire perché qualcuno la aggredì alle spalle tappandole la bocca e obbligandola a distendersi a terra.

 “Mi hanno trovata” pensò, rassegnata alla morte. Aveva considerato più volte l’ipotesi che sarebbe potuto accadere e sperò di non soffrire.

 Un uomo le allargò le braccia, bloccandole con le ginocchia prima di impadronirsi del suo collo che iniziò a stringere piano.

 Il suo assassino iniziò a farfugliare in inglese, lei colse una frase che tradusse facilmente in: “Tu sei la prescelta”, ma dopo smise di ascoltare. Era terrorizzata, e aveva troppe preghiere da recitare e rimpianti da elencare per perdere tempo con quelle sciocchezze.

 Laurie si accucciò a fianco al Turista e iniziò a slacciargli la cintura.

 «Cosa stai facendo?» chiese lui.

 «Sto rendendo indimenticabile la tua impresa veneziana» rispose lei infilando la mano nei suoi slip e accarezzandogli il membro turgido. «Ti piace?»

 Lui annuì tornando a occuparsi della vittima.

 «Non avere fretta» raccomandò la canadese. «Abbiamo tutto il tempo.»

 “Sì!” pensò il serial killer. “Questa volta me la posso prendere con calma.”

 Abbandonò la presa e diede alla donna il tempo di riprendersi, le accarezzò il volto, le sistemò i capelli, poi tornò a strangolarla.

 Laurie staccò le mani dal suo pene. «Ora finiscila.»

 Alba Gianrusso morì qualche istante più tardi. Ipossia, ischemia cerebrale.

 Il Turista si alzò e si ricompose. Laurie lo abbracciò. «È stato bello. Sei stato bravo.»

 Il serial killer la scostò e andò ad appropriarsi della borsa della donna che giaceva a terra. La infilò nello zaino e si avvicinò alla porta, seguito dalla sua partner, che portava una sacca con gli oggetti che avevano prelevato nell’appartamento mentre lo perquisivano nell’attesa che lei tornasse.

 Quando uscirono, videro Norman e un altro uomo che sostavano poco lontano, fingendo interesse per la facciata di una chiesa sconsacrata. Li guidarono verso il rifugio attraverso un percorso che avevano studiato e verificato.

 Una volta in casa, Abel si chiuse in camera per la conclusione del rituale. Mise un lenzuolo pulito sul letto, si versò un calice di buon vino e come colonna sonora scelse l’ultima sinfonia di Mahler, la 10, completata da Deryck Cooke. E poi iniziò a disporre con cura gli oggetti contenuti nella borsa.

 Laurie non lo disturbò, anche se avrebbe voluto condividere anche quel momento. Aveva solo preteso che le consegnasse il cellulare di Alba Gianrusso. I tecnici dei Liberi Professionisti lo avrebbero analizzato a fondo per trovare collegamenti con il marito.

 Il borsellino della donna si rivelò una vera cuccagna. Fotografie, bigliettini, piccoli ricordi. Abel era eccitato. Normalmente si sarebbe masturbato sul bottino ma gli era piaciuto l’intervento della sua partner mentre assassinava la donna.

 Si spogliò e andò in salotto, dove Laurie stava pulendo la sua pistola. Lei guardò la sua erezione. «Hai voglia di scopare.»

 «Anche» rispose lui ambiguo. «Sono in fase creativa.»

 «Allora vediamo che ti inventi» ribatté la canadese iniziando a sbottonarsi la camicetta.

 La sua partner era forte. Cartagena se ne rese conto quando la penetrò distesa sul contenuto della borsa e lei si avvinghiò a lui con braccia e gambe. Si sentiva stretto in una confortevole morsa. Quando raggiunse l’orgasmo, Laurie si abbandonò e gli sussurrò all’orecchio una serie di richieste.

 Lui si eccitò come non gli era mai capitato. «Ti farò male. E molto.»

 «Datti da fare, stronzetto» ribatté Laurie girandosi.