Ballerup. Alcuni mesi più tardi
Pietro scese dall’auto a noleggio e controllò che il civico fosse quello giusto. Suonò il campanello e attese guardando senza interesse la fila di villette a schiera, anonime e tutte uguali, disseminate con precisione lungo la via.
La porta si aprì e apparve una donna. Lui non aveva mai conosciuto Hilse Absalonsen, la legittima consorte di Abel Cartagena, e sperò che fosse ben diversa da quella che lo stava attendendo a qualche metro di distanza. Il volto era scavato e gli occhi erano spenti. Indossava un vestito di lana leggero lungo fino alle caviglie color nocciola. Le stava male, era troppo grande di almeno due taglie.
Sambo la raggiunse accompagnato dall’unico rumore dei suoi passi sulla ghiaia.
Lei mostrò un faticoso sorriso di circostanza e si spostò di lato per farlo passare, poi gli fece strada fino al salotto, dove Kiki Bakker attendeva seduta su un divano. Era ingrassata ancora. Le gambe erano gonfie e il volto era arrossato.
La giornalista lo riconobbe subito. Pietro era uno degli uomini che l’avevano sequestrata, interrogata e infine rinchiusa in una clinica dove era rimasta sedata per ben ventuno giorni nella più totale illegalità.
L’ex commissario le strinse la mano e lei accettò quel gesto riparatore. Scoprire di essere stata l’amante, e complice involontaria, di uno dei serial killer più ricercati aveva fatto passare in secondo piano l’ingiusto trattamento a cui era stata sottoposta.
Hilse era nella stessa situazione. Per questo era stato deciso che era importante che si conoscessero e si frequentassero. Erano entrambe seguite da un’équipe di specialisti che cercavano di aiutarle a ritrovare un minimo di equilibrio nella loro esistenza. Gli psicologi erano pagati da una fondazione con sede a Bruxelles, che risultava occuparsi di non meglio precisate attività umanitarie e che provvedeva agli affitti delle loro nuove abitazioni e al loro mantenimento.
Abel Cartagena risultava ufficialmente scomparso. La moglie aveva presentato formale denuncia al comando della polizia. Il suo editore aveva approfittato della situazione per pubblicizzare il nuovo saggio su Baldassare Galuppi.
La verità era stata tenuta segreta per il semplice motivo che non poteva essere raccontata. D’altronde non c’era nulla di cui stupirsi. Ogni giorno nel mondo si svolgevano eventi gestiti da spie e servizi di intelligence che dovevano rimanere sepolti nella tomba della ragion di Stato.
Il Turista, dal suo nuovo rifugio, li aveva sfidati più volte a rendere pubblico quanto era accaduto a Venezia. E non era un tentativo per accrescere ulteriormente la sua fama. In realtà si trattava di una minaccia. Abel Cartagena era convinto che fosse un modo efficace per ricordare che non conveniva a nessuno continuare a investigare per trovarlo e arrestarlo. E lo stesso discorso valeva per Zoé Thibault, la sua nuova compagna.
Ma si sbagliava. Pietro Sambo aveva chiesto e ottenuto i mezzi e soprattutto l’autorità per dargli la caccia e giustiziarlo. Per questo si trovava in quel salotto. Il giorno prima aveva interrogato il suo editore, fingendo di indagare sulla scomparsa per conto di un’agenzia privata italiana.
L’ex commissario aveva lasciato Venezia e si era trasferito a Lione, dove gli era stato messo a disposizione un ufficio, una segretaria, un hacker ricattato dai servizi francesi e un fondo spese decisamente cospicuo.
La promessa di riabilitarlo non era stata mantenuta e dire addio alla sua amata città era stato ancora più difficile, anche se lì non gli era rimasto nessuno.
Nello Caprioglio si era rifiutato di incontrarlo per un chiarimento. Tiziana aveva dato le dimissioni dalla polizia ed era tornata a Bari, a esercitare l’avvocatura nello studio paterno.
Quando l’avevano liberata, non era ancora stata interrogata ma era stata stuprata più volte da tutti i suoi sequestratori. Eccetto Macheda, che aveva recitato la parte del rapitore buono. E lei era andata in pezzi. Il vicequestore Tiziana Basile era morto in quel palazzo disabitato di Fondamenta Lizza Fusina.
«È una pratica comune» gli aveva spiegato il tizio dell’intelligence italiana che aveva diretto l’operazione di salvataggio. «La violenza sessuale serve per “ammorbidire” il soggetto che verrà interrogato. Non importa che si tratti di un uomo o di una donna.»
Pietro l’aveva fissato con sospetto. «Se è così comune, significa che la usate anche voi, che lo Stato italiano permette che il suo personale possa violare le persone.»
L’altro aveva scosso la testa. «Io non riesco a inquadrarti, Sambo, sei un ottimo elemento ma a volte sembri così stupido. Lo Stato? Ma di che cazzo stai parlando?»
L’unica persona che era passato a salutare prima di partire era stata la vedova Gianesin. «Ho trovato lavoro in terraferma» aveva detto. E lei, commossa, lo aveva baciato sulle guance ed elencato una lunga serie di affettuose raccomandazioni.
Era arrivato a Copenhagen una settimana prima. Alloggiava in un hotel modesto non lontano dall’aeroporto. Aveva incontrato un funzionario di medio livello dell’intelligence che lo aveva autorizzato a indagare sul suolo danese.
In Canada, invece, le autorità si erano rifiutate di collaborare e gli avevano ordinato di tornare da dove era venuto. Indagare su Zoé poteva significare disseppellire episodi di illegalità poliziesca e nessuno tra i suoi vecchi superiori aveva voglia di mettere a repentaglio la carriera.
Pietro osservò le due donne mentre beveva una tazza di caffè. Tenevano gli occhi bassi, le mani intrecciate.
«Anch’io sono una vittima di Abel» disse per presentarsi. «Non ci libereremo mai di lui fino a quando rimarrà in vita. Ormai sapete di cosa è capace, può svegliarsi una mattina e decidere di tornare tra noi per il semplice piacere di giocare con le nostre anime e i nostri corpi. Ho bisogno di dettagli per scovarlo. Devo sapere che marca di dentifricio preferisce, cosa gli piace mangiare a colazione, come si comporta nell’intimità. Dovete aiutarmi a capire come vi ha manipolato. So che sarà doloroso, lo è anche per me, ma dobbiamo fare questo sforzo. Per le donne che ha ucciso, per quelle che ucciderà. Per noi stessi.»