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Ellen non era leggera come una piuma, ma fu la sorpresa a trattenerla dal dibattersi troppo. «Che cosa stai facendo?» chiese quando si sentì deporre sul grande letto che aveva tormentato Tony da quando l’aveva visto.

«Se non vuoi sposarmi perché non ti ho sedotta davvero, non ho altra scelta che farlo.» Si tolse la giacca e la gettò su una sedia in fondo alla stanza. «E sono nauseato e stufo di essere paragonato a un mitico zio quando i miei sentimenti non sono mai stati quelli di uno zio. Sono un uomo, Ellen. Un uomo che ti vuole e intende averti.»

«Tony!» esclamò lei guardandolo sbalordita. I capelli biondo oro si erano sciolti dalle forcine e le scendevano sulla schiena in una cascata stupenda. Lui voleva immergervi il viso e il pensiero che stava per farlo lo emozionò tanto che gli riuscì difficile togliersi la cravatta.

Ellen non cercò di fuggire mentre Tony si sedeva sul letto per togliersi gli stivali. «Sei ridicolo, Tony» disse inginocchiandosi accanto a lui. Uno stivale cadde sul pavimento. «Lo sai che non vuoi sposarmi. Per te sono come una sorella.»

L’altro stivale cadde con un tonfo e lui si voltò verso di lei. «Proprio non capisci, vero?» le disse.

«Che cosa non capisco?»

«L’effetto che hai su di me. Vieni, Ellen.»

Lei cercò di indietreggiare, ma Tony le afferrò un polso e l’attirò a sé. Ellen gli cadde addosso e insieme finirono in mezzo al letto, i seni di lei premuti contro il suo petto. «Tony, non vorrai…» mormorò, ansimando.

«Invece sì, Ellen» rispose lui, spietato. Poi la fece tacere con un bacio, lungo e profondo, come da tanto tempo desiderava. Voleva scioccarla, sperando che lei gli credesse.

E lei rimase scioccata, ferma, mentre lui le tormentava la bocca con la lingua, i denti, le labbra, in un gioco erotico struggente, finché le braccia di Ellen gli circondarono il collo e lei ricambiò il bacio con l’innocente entusiasmo di cui era capace.

Gli ci volle parecchio tempo per liberare lei e se stesso degli indumenti. Il panico della ragazza eruppe a intervalli quando le sfilò le calze, quando le appoggiò la bocca sui seni turgidi, quando le mise la mano tra le cosce per accarezzarle i riccioli. Ma ogni volta riuscì a calmarla, a farle superare anche quella prova, fino a che lei giacque tra le sue braccia con il respiro affrettato, i capezzoli induriti dal desiderio e gli occhi chiusi mentre lui, inginocchiato tra le bellissime cosce bianche premeva il sesso contro quello di lei. Erano entrambi più che pronti all’amplesso.

«Non voglio farti male, amore» le mormorò nell’orecchio cercando di rallentare l’inesorabile invasione. Era madido di sudore e i suoi muscoli tremavano per la tensione mentre cercava di mantenere il controllo.

Ellen spalancò gli occhi quando si rese conto di che cosa lui stesse facendo. «Tony!» bisbigliò. Poi alzò la voce in un breve grido quando lui le infranse il velo della verginità ed entrò nel dolce tunnel di velluto. «Tony!»

«Sta’ ferma. Non muoverti» le sussurrò all’orecchio premendola contro il letto.

Ellen obbedì e rimase immobile. Anche se non si muoveva, il contatto con il suo corpo e il suo profumo erano quasi sufficienti a farlo esplodere. Strinse le lenzuola nei pugni deciso a non rovinarle l’emozione. Lentamente, riuscì a riprendere il controllo.

«Non sono sicura che questo mi piaccia» annunciò Ellen in tono pragmatico. «Se è così che speri di indurmi a sposarti, non credo che funzioni.»

Lui alzò la testa e la guardò. Gli apparve afflitta e ancora più provocante, anche se non c’era desiderio nel suo sguardo. «Ellen, sta’ zitta» disse. Poi s’inarcò spingendosi con forza dentro di lei e sentì di nuovo il suo lieve grido. Sperò che non fosse di dolore, ma non poteva più ritrarsi, né per se stesso né per lei. Riprese a muoversi ritmicamente e strinse ancora di più il lenzuolo sforzandosi di controllare l’eccitazione.

Il grande letto del migliore hotel di Vienna cigolava. Ellen circondò il collo di Tony con le braccia e inarcò i fianchi per incontrare quelli di lui. In quel momento Tony sentì che l’amata gli rispondeva con lievi tremiti e si ripromise di darle tutto il piacere che poteva. La toccò dove i loro corpi si congiungevano ed ebbe da parte di lei la reazione che bramava.

La sentì sconvolta dallo spasimo, sentì le sue unghie nella schiena, il corpo che si inarcava e dovette soffocare il suo grido di piacere con un bacio. Un momento dopo anche lui, incapace di trattenersi oltre, raggiunse l’orgasmo dentro di lei.

Poi crollò contro la sua amata, sapendo di essere troppo grosso perché lei potesse sopportare il suo peso, ma troppo esausto per poter essere gentile. Quando si riprese abbastanza per scostarsi, lei lo abbracciò forte, con la faccia bagnata di lacrime. «Non andare via» gli bisbigliò timidamente. Tony non avrebbe mai pensato che la sua Ellen potesse essere timida.

Cercò di toglierle parte del suo peso di dosso, ma lei era una donna grande, fatta per un uomo come lui. Quando la guardò, girò il capo, arrossendo imbarazzata.

Tony le baciò le palpebre, gli zigomi, il naso, le lacrime che le rigavano il viso pallido. Le solleticò l’angolo della bocca con le labbra, dolcemente, finché lei non poté fare a meno di girarsi e ricambiare il bacio, abbracciandolo forte. Questa volta, quando lui la guardò, non distolse gli occhi.

«Così va meglio» disse Tony passandole le mani fra i capelli. «Sono riuscito a convincerti?»

«Convincermi di che cosa?» disse Ellen con voce timida e tremante e lui si domandò quando avrebbe potuto possederla di nuovo.

«Che mi devi sposare.»

Tony doveva ammettere che Ellen era una lottatrice formidabile. Lei aggrottò la fronte sotto i riccioli biondi. «Solo perché…»

«Tra l’altro. Ti ho dato la mia migliore dimostrazione di una delle ragioni per cui voglio sposarti, e se ciò non bastasse, sarò molto felice di dimostrartelo di nuovo.»

«Di nuovo? Non so se ne avrò la forza sufficiente» rispose debolmente Ellen.

«Ti darò il tempo di rimetterti in sesto» disse Tony dandole un piccolo bacio sulla spalla. «Ma non essere sciocca. Se non mi sposi, Carmichael sarà costretto a sfidarmi a duello e non mi va proprio di battermi con il mio migliore amico.»

«È per questo che vuoi sposami?» chiese ingenuamente lei. «Oltre a… questo?» concluse con un vago gesto della mano verso il letto dove ancora si trovavano.

«Questo, piccola mia, si chiama fare l’amore. Ci sono molti altri termini, alcuni non così belli, alcuni molto stimolanti, ma quando si tratta di noi due è indiscutibilmente fare l’amore. Ed è per questo che ci sposiamo. Non perché Carmichael mi taglierebbe a pezzi il fegato. Non perché lady Arbuthnot ci rovinerebbe la reputazione. E non solo perché quello che facciamo a letto è incredibilmente piacevole. Non ci sposiamo perché ti ho deflorata o perché graziosamente mi hai concesso i tuoi favori.»

Era riuscito a farla sorridere. «Allora, perché ci sposiamo?»

Tony avrebbe voluto lanciare un grido di trionfo al cielo sentendola ammettere che si sarebbero sposati. «Perché ti amo, dolcezza. Da prima che tu fossi tanto idiota da fidanzarti con quell’individuo mediocre e noioso. È solo che ho impiegato un po’ di tempo per arrivare al dunque.»

«Dovrei ucciderti» disse lei, per nulla soddisfatta dalla sua dichiarazione. «Hai idea di quanti fastidi mi avresti evitato se me lo avessi detto prima?»

«È vero. Ma una volta presa la decisione devi ammettere che sono stato molto efficace.»

Lei gli rivolse un sorriso lento e dolce, la cosa più erotica che Tony avesse visto in tutta la vita. Fece un basso gemito e si staccò da lei. Con riluttanza Ellen lo lasciò andare.

«Ho cercato un religioso inglese che ci sposi» disse Tony raccogliendo i suoi abiti. «Mi dispiace ma, poiché siamo partiti da soli, non possiamo sposarci in St Paul, con tuo fratello che ti porti all’altare.»

Ellen si sedette, si avvolse nella coperta e lo guardò con curiosità. Lui fu colto da un improvviso dubbio. La fissò e disse: «Tu mi sposerai, vero? Non sei guarita dalla tua infatuazione di otto anni fa, è così?»

«Certo che lo sono» rispose lei facendogli gelare il sangue. «La cotta che avevo quando andavo ancora a scuola si è trasformata in una passione travolgente e non ricambiata.»

Lui tornò ad avvicinarsi al letto e le diede un bacio breve ma possessivo. «Ricambiata» la rassicurò. «Ma vuoi che cerchi di far tornare Miss Binnerston?»

«Impossibile. È con sua sorella…»

«Non esattamente. Io… ehm… l’ho fatta trattenere dal mio valletto. L’idea era di fare in modo che si storcesse una caviglia, ma temendo che si potesse rompere il collo ho detto a Higgins di chiuderla a chiave in camera fino alla nostra partenza.»

«Hai sequestrato la mia dama di compagnia?»

«Temo di sì» ammise lui chiedendosi perché mai avesse fatto in modo di attirare la collera di Ellen sulla propria testa.

«Credo che tu mi ami davvero» commentò lei a quel punto con espressione sognante accarezzandogli con tenerezza il viso. Era la prima volta che lo faceva e lui per poco non la stese di nuovo sul letto.

Ma si ricordò che doveva prima cercare un religioso e si controllò. Disse: «La ricompenseremo».

«Sei perverso» disse lei, ma con un tono di voce divertito.

«Ovviamente dovrai rieducarmi» rispose Tony con gli occhi bassi e l’aria colpevole.

«Lo considero il compito principale della mia vita» mormorò Ellen. Poi concluse: «Trova il prete».

 

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Venezia. Una città costruita su palafitte in mezzo a una laguna e raggiungibile solo via mare. Ghislaine avrebbe quasi preferito gli orrori di Parigi a un altro mal di mare. Per fortuna il viaggio era stato breve e il mare calmo. Erano sbarcati in una grande piazza e lei era riuscita a controllare lo stomaco.

Guardò l’uomo alto al suo fianco. Il viaggio per l’Italia percorrendo il continente era stato abbastanza veloce. Avevano attraversato Sassonia, Baviera e Austria, evitando di proposito la Francia. Avevano sempre tenuto una velocità sostenuta, ma nell’ultima settimana lui aveva imposto un passo decisamente micidiale. C’era da meravigliarsi che la carrozza non si fosse rovesciata una decina di volte.

La notte dopo era entrato, al buio, nella camera di lei. Ghislaine giaceva a letto, ferma, silenziosa. Lo aspettava, lo temeva, lo desiderava.

Sapeva ciò che doveva fare, cioè controllare le reazioni del corpo. Se non poteva rifugiarsi nell’angolino appartato del suo cuore, poteva almeno nascondere la risposta all’amplesso. Poteva giacere sotto di lui senza partecipare, mantenendo il respiro regolare e il battito del cuore non affrettato, e stringere i pugni per non attirare Nicholas contro di sé e voltare la testa per sottrargli la bocca. E lui non l’avrebbe forzata. Poteva fargli credere di essere indifferente a ciò che faceva al suo corpo. Era quasi riuscita a crederlo lei stessa.

Lui l’aveva fissata alla luce fioca della candela, con la faccia scura e pensierosa. «L’incantevole sacrificio di una vergine» aveva detto con sarcasmo. «Non hai l’aria di aspettare con gioia il mio ritorno nel tuo letto. Credimi, posso darti più piacere dell’altra volta.»

Il viso di Ghislaine era rimasto impassibile. Il pensiero di godere per causa sua era la più terribile delle minacce.

«Non hai niente da dire, amor mio?» le aveva chiesto avvicinandosi al letto. Le aveva sollevato il viso prendendole il mento con due dita, poi si era abbassato e le aveva sfiorato le labbra con un bacio, dolcemente, teneramente. Ghislaine aveva sentito il cuore torcersi e poi frantumarsi. Lui si era ritratto e i suoi occhi erano tristi e tormentati. «Dipende da te, Ghislaine. Non devi fare altro che chiedermi di andarmene.»

Le era rimasta l’impronta della sua bocca, aveva sentito di avere la pelle calda, sensibile e il cuore che le batteva forte. Avrebbe voluto allungare le mani, affondarle nei capelli di lui e attirarlo verso di sé.

Invece aveva detto, con voce chiara e calma: «Andatevene».

Nicholas si era voltato ed era uscito senza fiatare.

Lei era rimasta seduta sul letto, mentre sorpresa e disperazione lottavano con il sollievo. L’aveva giudicato un uomo senza onore. Perché allora le aveva ubbidito?

Non era più tornato. Non l’aveva toccata. Ma questa volta non era una tregua, bensì una lotta armata pronta a esplodere nella passione da un momento all’altro.

Ghislaine non sapeva se temere quel momento o desiderarlo.

 

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Nicholas si avviò lungo una calle e si guardò attorno con annoiato disprezzo. Lei rimase vicino ai bagagli decisa a non corrergli dietro. Lui si voltò a guardarla con un freddo disinteresse quasi convincente. «Intendete stare fuori tutto il giorno, Mam’zelle?» chiese con ironia. «Credevo foste stanca di viaggiare.»

L’idea di stare ferma, anche solo per un giorno, era troppo attraente per ribattere. «Non volete chiamare una carrozza?» gli chiese in tono stanco.

Lui rispose, canzonandola: «Non ci sono carrozze a Venezia, mia cara. Nessun veicolo con ruote. Se volete essere trasportata a Palazzo Verdi, dovete prendere una barca.»

«Volete dire che la barca è l’unico mezzo di trasporto in questa città?» chiese con un sussulto allo stomaco.

«Via acqua o a piedi.»

«Avrò bisogno di un altro paio di scarpe.»

«Imparerete a navigare per i canali senza avere mal di stomaco.»

«Ci sono cose, milord, che esulano anche dal vostro controllo. Che cos’è Palazzo Verdi?»

«È il palazzo di un amico mio le cui tasche sono sufficientemente vuote da essere indotto a fidarsi persino del mio dubbio credito.»

«Un palazzo?» chiese lei, meravigliata.

«I palazzi di Venezia sono molto più cadenti di quelli inglesi o francesi» rispose lui con indifferenza. «Comunque, io sono un gentiluomo inglese e devo salvare le apparenze.»

Tavvy li raggiunse sbuffando e disse: «Avete bisogno di racimolare un po’ di denaro. Questo vagabondare per l’Europa non è stato conveniente per le nostre tasche. Era meglio se andavamo diretti a Parigi».

Come sempre, Nicholas non parve offeso dal discorso chiaro e tondo del valletto. «Madame Ghislaine preferiva di no.»

Tavvy le lanciò un’occhiata enigmatica. Fin dalla prima notte nel continente, quando Blackthorne era andato in camera sua per la prima volta, l’atteggiamento del domestico era cambiato. Non la guardava e non le parlava se non era assolutamente necessario e non le si avvicinava. Lei non aveva capito perché. O era geloso, e questo era strano, anche se certi dipendenti potevano essere possessivi, o si sentiva in colpa.

A sentirsi in colpa era Nicholas, anche se la parola non apparteneva al suo vocabolario. Sotto il brillante sole italiano, Ghislaine osservò la sua bella faccia con le labbra sottili dall’espressione ironica e il suo corpo possente, e si domandò per quanto tempo ancora avrebbe potuto sopportarlo.

Nicholas aveva ragione. Palazzo Verdi era decrepito, umido e in rovina, molto più malmesso dei quartieri della servitù ad Ainsley Hall. C’era un pugno di domestici che parlavano solo italiano, malvestiti e negligenti. La sporcizia del palazzo era indescrivibile. Ghislaine non era stata mai più circondata da uno squallore simile dai tempi in cui vagava per le strade di Parigi.

Raggiunse Nicholas nel salone dove lui, in piedi, fissava con indifferenza la polvere e la sporcizia che lo circondavano. «Evidentemente de Bruny non tiene la casa in ordine» disse senza che fosse necessario. «Io esco.»

Ghislaine era così sbalordita che le avesse dato quell’informazione non richiesta che domandò: «Tornerete stanotte?»

«Posso concedermi la speranza che abbiate cambiato idea a proposito di condividere il mio letto?» chiese lui con l’abituale sorriso ironico.

Ma lei rispose con calma: «No».

Il sorriso di lui divenne gelido. «Allora sarò occupato altrove. Ho bisogno di rimpinguare le nostre risorse impoverite con denaro fresco, come ha fatto notare Tavvy, e il solo modo sicuro per farlo è una visita a una casa da gioco.»

«E se perdete?»

«Mia cara, io non perdo mai.»

«Barate?» chiese lei, sperando di mandarlo su tutte le furie.

Lui si accigliò, ma non le diede la soddisfazione di mostrare emozioni. «No. Sono solo molto, molto bravo.» Guardò la stanza con evidente disgusto. «Fate ciò che volete per sistemarvi nel miglior modo possibile. Tavvy è a vostra disposizione, dato che questa servitù sembra incapace di capire il minimo inglese indispensabile.» Le si avvicinò per sollevarle il mento con la mano forte. «E non vi sognate di fuggire, mia cara. Non sono ancora pronto a lasciarvi andare.»

Lei si accorse con sorpresa che non le era nemmeno passato per la mente. Si disse che era sufficiente che lui lo pensasse. A Venezia, con una miriade di passatempi a portata di mano, molto probabilmente lui sarebbe rimasto lontano e lei avrebbe avuto il tempo di organizzare una fuga così bene da non poter essere ritrovata. Ammesso che l’avesse voluto.

«Al vostro ritorno ci sarò» gli disse desiderando che la lasciasse in pace. E desiderando contemporaneamente di sentire la bocca di lui sulla sua.

Non l’aveva più toccata da quando gli aveva detto di andarsene. È vero che lei lo aveva detto, ma Blackthorne non era il tipo da lasciarsi dire come doveva comportarsi. Se avesse voluto baciarla l’avrebbe fatto.

Per un momento le parve che volesse accarezzarle il mento con le dita. E che i suoi occhi esprimessero rimpianto e desiderio. Ma poi la lasciò e andò via.

Lei rimase sola e cercò di riacquistare il controllo che sentiva assai incerto. In quella casa c’era odore di muffa e di pesce non fresco e non aveva alcuna voglia di prolungare quell’esperienza. Raddrizzò le spalle e tornò nell’ingresso proprio mentre Tavvy gridava ai domestici con voce autoritaria e scandendo bene le parole: «Pulite. Dovete pulire».

«Non sono né stupidi né sordi» intervenne Ghislaine con calma osservando le tre donne e i due uomini che costituivano il personale di servizio di de Bruny. Erano vestiti poveramente, sudici, senza dubbio risentiti per l’intrusione di quegli estranei e disprezzavano il tentativo di comunicare di Tavvy. «È solo che non parlano inglese.»

«Dannati stranieri» commentò Tavvy.

«Mi pare che qui gli stranieri siamo noi» osservò Ghislaine e rivolgendosi alla donna più anziana, che a giudicare dall’atteggiamento doveva essere una specie di governante, disse nel buon italiano insegnatole dall’istitutrice quando era piccola: «Questa casa è una vergogna per tutti voi e per gli abitanti di Venezia. Volete che Sua Signoria, quando torna in Inghilterra, dica che la città è popolata da porci che sguazzano nella loro sporcizia?».

Uno degli uomini si fece avanti. I suoi occhi scuri ardevano di rabbia, ma la donna lo fermò con un gesto. «Perché dovremmo pulire per gente come voi?» Il suo italiano era diverso da quello di Ghislaine, era più dolce e fluido. Ghislaine lo trovò migliore del proprio.

«Per il vostro orgoglio, se non altro» rispose con fermezza. «Anche se il vostro padrone non si preoccupa, noi sì. Se non riuscite a rendere questa casa rispettabile, troveremo dei domestici che ci riusciranno.»

«Non potete gettarci per strada» disse l’uomo con rabbia.

«Posso gettarvi nel canale se mi fa piacere» replicò Ghislaine con espressione arcigna, essendo abituata a trattare con sottoposti ostili. «Dipende da voi. Vorrei che cominciaste dal salone, che necessita di essere strofinato forte per togliere bene la sporcizia. Poi farete lo stesso con la cucina. Noi abbiamo bisogno…» fece una pausa quasi impercettibile e proseguì: «… di tre camere da letto. Una per il signor Taverner, una per lord Blackthorne e una per me. Tutto dev’essere pronto per stasera. Avete capito?»

«Tre camere, signora?» chiese la governante guardando fissa Ghislaine. «Due devono essere comunicanti?»

Se aveva sperato di far arrossire Ghislaine era perché non sapeva con chi aveva a che fare. «Immagino che se lord Blackthorne lo vuole riuscirà comunque a trovarmi» disse apertamente. «Ma forse è meglio che cominciamo dalla cucina. Mi sono accorta di avere appetito, ma non mi fido di una pietanza preparata in una casa in queste condizioni. Portatemi in cucina» ordinò arrotolandosi le maniche oltre il gomito.

Era riuscita a sbalordire la governante oltre misura. «Avete detto che cominciamo… Forse non ho capito bene.»

«Avete capito benissimo. Lavoreremo insieme. Conosco il lavoro e detesto la sporcizia. In cucina, signora!»

«Mi chiamo Luisa» precisò la donna ancora sconcertata. «Da questa parte, prego.»

Ghislaine seguì Luisa e gli altri domestici seguirono lei. Passarono davanti all’esterrefatto Taverner e Ghislaine gli disse: «Chiudete la bocca, Tavvy. Potreste prendervi una malattia in quest’aria mefitica. Andate a cercare un mercato e portateci qualcosa da mangiare».

«Ma non so una parola d’italiano, Mam’zelle» ribatté lui, meravigliato che lei conoscesse la lingua.

«Avete del denaro, vero? Fatelo bastare.» Ghislaine proseguì all’interno della vecchia casa umida che comicamente si definiva palazzo.

All’una di notte, Ghislaine sorrise per la prima volta da quando erano giunti nel continente e da quando Nicholas l’aveva posseduta. Anche se la casa non era pulita da cima a fondo, almeno il salone e le camere da letto erano passabili. La cucina era decente, cosa che non la sorprese. Aveva intuito che la mancanza di pulizia era più una protesta dei domestici verso il padrone straniero che simpatia per il sudiciume.

Ghislaine aveva comunque lavorato duramente, fianco a fianco con il personale di servizio, e quando Tavvy era tornato con due ceste piene di pane, frutta, riso e pesce, aveva messo a lavorare anche lui ignorando le sue lamentele.

Alla fine lei era esausta; il corpo le doleva ma lo spirito era rifiorito. Mangiarono tutti insieme attorno al tavolo un pasto semplice che Ghislaine e Luisa avevano preparato.

Ghislaine li aveva conquistati tutti. Il giovane domestico bellicoso di nome Guido portò secchi d’acqua per il bagno e una delle cameriere le offrì della biancheria pulita. Se mai ci fosse stata una disputa tra Ghislaine e il padrone che pagava il salario ai domestici, questi si sarebbero schierati tutti dalla parte di lei. Lo stato della casa indicava la loro ostilità verso chi teneva i cordoni della borsa.

L’acqua del bagno era abbondante e molto calda.

Ghislaine si strofinò con energia e si lavò persino i capelli. La camicia da notte era di cotone pesante, ma morbido per i numerosi bucati, e la copriva dal collo ai piedi. Quando si infilò nel letto della piccola camera che avevano pulito e che si affacciava sul davanti della casa, si accorse di sorridere per la sensazione di benessere che provava.

La camera padronale era stata preparata per Nicholas. La biancheria del grande letto era stata cambiata, le tende del baldacchino erano state scosse e messe all’aria, il pavimento lavato e strofinato. Malgrado ciò nel palazzo l’atmosfera era di decadenza e degrado. Un luogo adatto a un mascalzone dissoluto.

Nonostante la stanchezza per il lavoro svolto e il bagno caldo, Ghislaine impiegò molto tempo ad addormentarsi. Era inquieta, aveva bisogno di qualcosa che potesse rilassarla. Prima di prendere sonno si rese conto con orrore che ciò che le mancava era Nicholas.

Quando si svegliò si accorse che nella stanza filtrava una luce fosca e verdastra. Non avendo l’orologio poté solo immaginare che fosse appena l’alba, ma ebbe la certezza di non essere più sola nella cameretta che aveva scelto per sé.

Nicholas era mollemente adagiato nell’unica poltrona, le gambe allungate in avanti. Sembrava a suo agio. Era vestito di nero e il suo viso in ombra era in parte nascosto dai capelli.

Lei non si aspettava complimenti per la pulizia e l’ordine della casa, né li ricevette. I loro sguardi si incontrarono per un momento e nella stanza aumentò la tensione.

«No» disse lui a un tratto con voce amabile e lei non finse di non aver capito.

Poi Nicholas si alzò, si avvicinò al letto e le toccò la camicia. «Dove l’avete presa?»

«Me l’ha prestata una cameriera.»

«Non avrete più bisogno di farvi prestare gli indumenti smessi dalle cameriere. Più tardi verrà una sarta con diverse cose che possono anche essere modificate, se sarà il caso.»

«Non accetterò mai nulla da voi…»

Nicholas si piegò verso di lei e Ghislaine intimorita dalla sua pericolosa presenza e dalla sua incomprensibile collera repressa non finì la frase. «Accetterete ciò che ho deciso di darvi. Abiti, cibo, gioielli se lo voglio. Esattamente come avete accettato il mio corpo.»

«Non mi avete dato scelta.»

«Esattamente. Ricordatelo, se volete.» Nicholas si raddrizzò e si scostò da lei. Ghislaine credette di aver immaginato quel momento di emozione. «Stasera usciremo. Siamo stati invitati a un ricevimento a casa del marchese de Brumley, e noi ci andremo.»

«Ci andrete con la vostra prigioniera?» chiese lei, che non voleva dichiararsi sconfitta.

Nella luce del primo mattino, lui rispose con voce gelida: «Ci vado con la mia amante elegantemente vestita e ingioiellata. Ho vinto una fortuna ai tavoli da gioco».

Poi se ne andò e Ghislaine lo seguì con lo sguardo. Non voleva i suoi abiti eleganti. Né i gioielli. Non voleva essere la sua sgualdrina.

Ma una cosa la voleva, qualcosa che lui non poteva offrirle, perché non l’aveva più. La capacità di amare.

E lei era sette volte pazza a desiderare proprio questo.