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Nicholas Blackthorne si era sempre vantato di avere un brutto carattere. Non aveva scrupoli a imporlo a tutti quando era in collera e provava una certa soddisfazione nel vedere uomini forti trasalire e fare qualche passo indietro al suo cospetto.

Non gli importava nemmeno di spaventare le donne, il che dimostrava quanto fosse lontano dall’essere un gentiluomo. Lo pensava mentre giaceva nel letto della cameriera e osservava l’espressione circospetta dei suoi occhi solitamente vacui. Probabilmente era abituata a essere battuta, ma lui non aveva alcuna intenzione di picchiarla. Anche quando era in collera non era violento, almeno non fisicamente. Si limitò quindi a guardare con rabbia la donna con cui aveva condiviso il letto la sera prima, quando era ubriaco e frustrato. Lei uscì dalla camera senza pensare minimamente di ripetere l’intensa attività espletata nella notte.

La porta si chiuse alle sue spalle. Lui guardò il comodino e notò che la ragazza aveva intascato le monete e probabilmente gli aveva anche alleggerito i calzoni. Si sedette sul letto e cercò di ignorare il mal di testa, segno infallibile di eccessi nel bere e di senso di colpa.

Anche se non si spiegava perché si sentisse colpevole. Perché quel misterioso, improvviso odio per la pettoruta serva che l’aveva intrattenuto con tanto entusiasmo durante la notte? Nicholas detestava l’introspezione, ma detestava ancora di più la stupidità. E sapeva perfettamente di non odiare la donna, bensì se stesso.

Il catino e la brocca erano un po’ più eleganti di quelli che trovava di solito nella camera delle servette, così come la coperta. Era chiaro che lei aveva previsto la sua compagnia. Si disse che almeno poteva cancellare dal corpo le tracce della notte con acqua fresca e sapone profumato alla rosa. Avrebbe voluto poter cancellare con altrettanta facilità anche i pensieri dalla mente.

Quando l’attraversò, la cucina era in subbuglio. I domestici stavano sparecchiando i resti di una affollata colazione, ma la sala grande per fortuna era deserta. Si sedette di fronte al camino, accettò il boccale di birra dalle mani del proprietario e fissò la fiamma.

«Ehm… mattina gelida, Vostra Signoria» annunciò imbarazzato il locandiere.

Nicholas lo ignorò. Probabilmente l’uomo voleva qualcosa per i favori della serva, ma Nicholas non era dell’umore adatto a pagare un servizio due volte. Soprattutto perché detestava ciò che aveva fatto.

«La carrozza postale è appena partita» continuò l’ometto e Nicholas bevve un sorso di birra calda rammaricandosi che non fosse caffè. Sperava che il solerte Taverner gliene procurasse una tazza se voleva sopravvivere nelle ore successive.

«In questa stagione dell’anno non è mai piena» riprese ostinatamente l’uomo e finalmente Nicholas voltò la faccia verso di lui e lo guardò con gli occhi annebbiati. Si domandò perché tutti i locandieri si assomigliassero, quali che fossero le dimensioni della locanda, la classe della loro clientela e la zona del paese. Aveva incontrato lo stesso ometto nervoso e ossequiente decine di volte negli ultimi anni. Cosa che, ogni volta, gli rendeva difficile rendersi conto di dove si trovava.

«Interessante» gli rispose. «Ma c’è un motivo per questo discorso?»

Se l’uomo avesse indossato un cappello se lo sarebbe strappato dalla testa e l’avrebbe fatto a brandelli con le sue stesse mani nervose. Ma non avendolo dovette accontentarsi di torcersi quelle poco pulite appendici. «Sì, milord.»

Nicholas attese. Era troppo stanco, troppo contrariato e ancora un poco alticcio per balzare alla conclusione. Poi capì. «La carrozza postale» disse.

«Sì, milord. Era piena quando è partita, circa mezz’ora fa.»

Nicholas balzò in piedi e scaraventò il boccale di birra nel camino con un ruggito di rabbia. Salì le scale facendo i gradini tre alla volta, ma era sicuro di trovare la camera vuota.

Si fermò al centro della stanza imprecando. Udì dei passi salire le scale e una parte della mente gli suggerì che il proprietario della locanda non doveva tenere molto alla propria vita. In quel momento Nicholas Blackthorne era un uomo molto pericoloso.

«Se n’è andata, è così?» La voce di Taverner s’insinuò nella sua rabbia. Nicholas fece per lanciarsi contro di lui, poi si fermò. Una lieve traccia di ironia affievolì la sua furia.

«Non ho mai pensato di poter vedere il giorno in cui una donna avrebbe avuto la meglio su di te» disse osservando la testa sanguinante e contusa del valletto e il suo abbigliamento in disordine.

«Neanch’io» rispose Tavvy mortificato. «Quella non è una donna normale. Mi ha colpito in testa con qualcosa, poi deve avermi trascinato dietro un cespuglio. Non so per quanto tempo sono rimasto là. È molto forte, piccola com’è.»

Nicholas ricordò lo scontro nel salotto di Ellen poco dopo essersi ripreso dagli effetti del veleno che lei gli aveva somministrato. Aveva ancora i lividi.

«È forte davvero. Ha una mezz’ora di vantaggio su di noi, Tavvy. Hai preparato i cavalli?»

«Sono pronti e ci stanno aspettando» rispose cupo Taverner.

«Allora paga quell’incompetente del locandiere e raccogli i bagagli. Guiderò io. Non è ancora arrivato il giorno in cui una diligenza riuscirà a battermi.» Guardò ancora una volta la camera da letto deserta. «Accidenti a lei!» esclamò.

 

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«Non è che vi sentite male, eh?» chiese sgarbatamente la donna cicciona, che puzzava di grasso d’oca.

Gilly pensò di informarla che se avesse avuto più dimestichezza con acqua e sapone l’atmosfera della carrozza sarebbe stata più sopportabile, ma preferì stare zitta. La situazione avrebbe potuto essere migliore se qualcuno avesse aperto un finestrino per fare entrare l’aria fresca o se lei avesse potuto cambiare posto e non essere contromano, cosa che le aveva sempre dato fastidio.

Ma disse semplicemente «no» con un tono che non incoraggiava ulteriori domande.

Gilly sapeva di avere un aspetto strano. Una piccola donna bruna con abiti troppo larghi e troppo vistosi, che viaggiava sola in una carrozza pubblica non passava inosservata. Inoltre, una persona con l’accento francese rappresentava già un’anomalia. Aveva fatto il possibile per togliersi ogni inflessione gallica, ma ne rimaneva sempre una traccia, se pure lieve. E non riusciva a nascondere il nervosismo.

Non sapeva quale vantaggio avesse la diligenza su Blackthorne, ma era sicura che lui l’avrebbe inseguita. Non era uomo da accettare con rassegnazione la sconfitta e anche se si era stancato di giocare con lei come il gatto col topo, era improbabile che le permettesse di fuggire. Un uomo ragionevole avrebbe considerato la sua fuga come la migliore soluzione di una situazione impossibile, ma Nicholas non era un uomo ragionevole.

La prossima sosta era Newcastle. Lei non c’era mai stata, ma di sicuro era abbastanza grande da potervisi nascondere. Aveva già sperimentato il modo di scomparire nella confusione e nella sporcizia di una città popolosa e Newcastle aveva l’ulteriore vantaggio di avere un porto. Avrebbe potuto trovare un passaggio su una nave per andarsene dall’Inghilterra, lontano dalla vendetta di Blackthorne. Non poteva più considerare l’Inghilterra come la sua casa e questo lo accettava con rimpianto. Il suo temporaneo paradiso era svanito.

Allo stesso modo, Nicholas sarebbe stato fuori dalla sua portata. E anche questo era un bene. Più gli era vicino, più diminuiva la certezza di essere capace di realizzare la vendetta che aveva sognato per tanto tempo. Non perché si fosse indebolito il desiderio di vendetta. Quell’uomo era un bastardo senza coscienza, un sorridente, dannato malvagio e i sentimenti di Ghislaine per lui non si erano per nulla addolciti, anzi, erano concentrati in un ammasso di odio.

Ma lei si era rammollita in altre cose. Aveva dormito per troppe notti in un letto caldo e pulito, aveva consumato cibo buono e abbondante e aveva avuto anche un’amica con cui chiacchierare. Tutto questo aveva riportato alla civiltà la sua anima abbattuta. Una civiltà che poteva distoglierla dall’omicidio a sangue freddo, a prescindere da quanto desiderasse farsi giustizia da sé e punire l’uomo come meritava.

Ghislaine pensò che avrebbe fatto meglio ad ammettere la sconfitta. La propria, non quella di lui. Ancora poche ore fino alla prossima tappa e sarebbe stata fuori dalla sua portata per sempre.

Chiuse gli occhi sperando nell’oblio del sonno. Lo stomaco non era tranquillo per la tensione nervosa e per il movimento del veicolo. Se almeno avesse potuto dormire per quelle ultime ore di viaggio…

«Perché dobbiamo accelerare? La carrozza corre troppo. Ehi voi…» L’uomo che aveva parlato, un tipo evidentemente di cattivo umore, aprì il finestrino lasciando entrare un benefico soffio di aria fredda e gridò al conducente: «Rallentate, amico!».

«Qualcuno sta cercando di raggiungerci» disse la grassona aprendo il finestrino dalla sua parte per sbirciare fuori. «Sta guidando la carrozza come se dovesse gareggiare col diavolo. Ci farà andare fuori strada se continua così e moriremo tutti!»

Nella diligenza si creò il panico. I passeggeri gridavano e parlavano tutti contemporaneamente, ma quello non era niente a paragone del silenzioso panico che strinse il cuore di Ghislaine. Sapeva chi voleva raggiungerli guidando come un pazzo. E per una frazione di secondo anche lei ebbe un momento di follia e pensò di saltare dal veicolo in corsa per privare Nicholas del suo trionfo, nonostante tutto.

Ma era stretta tra quattro corpulenti passeggeri lontano dalla portiera. E se non aveva posto fine alla sua vita dieci anni prima, non voleva che Nicholas la facesse morire adesso.

Teneva i pugni stretti in grembo, mentre il movimento della carrozza la sbatteva contro gli altri passeggeri. Sembrava che il conducente non volesse essere superato e c’era sempre l’eventualità che riuscisse a correre più in fretta di Nicholas. O che fosse la carrozza di Nicholas a rovesciarsi nel tentativo di raggiungere la diligenza. I miracoli possono accadere. Ma non era mai successo che accadessero a lei.

«Sta guadagnando terreno» annunciò la grassona lanciando un’occhiata di rimprovero a Ghislaine. «E possiamo immaginare a chi stia correndo dietro. Ci farete morire tutti, ecco cosa farete, signorina, con tutte le vostre arie di superiorità.»

«Non so di che cosa stiate parlando» protestò Ghislaine con un filo di voce cercando di mantenere un tono indifferente.

Ma non ebbe successo. «È francese!» gridò la donna. «Probabilmente una spia. Fermate la carrozza prima che moriamo tutti!»

Malgrado l’apparenza poco rassicurante, la vecchia carrozza da viaggio di Blackthorne era stata costruita per andare veloce e raggiunse la diligenza mentre questa si avvicinava a una curva. Il conducente sbagliò i calcoli e imprecando uscì di strada.

Ghislaine vide Nicholas di sfuggita un attimo prima che la carrozza sbandasse e fu la visione del diavolo in persona. I capelli neri al vento, la bella faccia scura di rabbia e di determinazione mentre spingeva i cavalli oltre le loro forze.

Poi non lo vide più perché la diligenza si capovolse con un rumore e un sobbalzo spaventosi, i passeggeri volarono per aria e Ghislaine ebbe un momento per pensare che forse il fato aveva preso una decisione per lei e che c’era davvero un Dio misericordioso.

Non impiegò molto per cambiare idea. Il mondo era buio, pesante e puzzolente, pieno di gemiti e pianti di rabbia. Lei cercò di respirare, ma non riusciva a muoversi e capì che la grassona era finita sopra di lei.

Poi fu accecata, assalita dalla luce e dall’aria perché il peso le venne tolto di dosso, accompagnato da un grido di protesta.

Blackthorne non si curò delle grida dei passeggeri e nemmeno che Ghislaine lo respingesse. Infatti la sollevò e la portò fuori dalla diligenza rovesciata. I suoi gesti erano brutali, la faccia fredda e l’espressione dura.

La spinse sulla sua carrozza e salì dopo di lei chiudendosi lo sportello alle spalle. Taverner partì subito e dopo pochi momenti viaggiavano a passo leggermente meno veloce grazie al fatto che ora guidava il valletto, il quale aveva una benda bianca in fronte. Lei si rammaricò di non averlo colpito più forte, nel qual caso avrebbe avuto il tempo di arrivare a Newcastle.

La diligenza rovesciata sparì presto alla loro vista insieme ai passeggeri che imprecavano contro di loro. «Non volete aiutarli? Qualcuno potrebbe essere ferito» chiese Ghislaine.

«Sono già fortunati a non essere morti» rispose Blackthorne con rabbia. La guardava con gli occhi come schegge di ghiaccio. «Anche voi siete fortunata a non essere morta.»

Ghislaine incontrò il suo sguardo senza vacillare. Le doleva tutto il corpo, sentiva ancora l’odore di grasso d’oca e la sua unica possibilità di fuga era sparita. Lui non le avrebbe dato un’altra occasione. «Può darsi che sia una fortuna. O che non lo sia.»

«Evidentemente sono stato troppo indulgente con voi. Ma non illudetevi che commetta ancora lo stesso errore. Non mi piace essere preso in giro, e sono molto affezionato a Taverner. Ha una brutta escoriazione in testa. Mi meraviglia solo che non abbiate cercato me per scatenare la vostra vendetta.»

«L’ho fatto» rispose lei prima di poter giudicare se era saggio dirlo.

Per un momento dal viso di lui svanì la rabbia e la fissò dicendo: «Dovevo dormire profondamente. Oppure dovevo essere… distratto».

Ghislaine si sentì arrossire, cosa che la sorprese. Come poteva essere tanto pudica dopo quello che aveva passato? «Dormivate» disse.

«Se vi siete sentita esclusa, avreste potuto unirvi a noi» scherzò Nicholas.

Era una piccola cosa per essere la goccia che fa traboccare il vaso, ma dentro di lei scattò qualcosa. Si lanciò contro di lui nella carrozza traballante senza altro pensiero in testa che quello di fargli male.

Un momento dopo era stesa nel sedile opposto con lui sopra, che le stringeva i polsi sopra la testa e le teneva ferme le gambe ribelli con le proprie. Lei ansimava, aveva il fiato corto. Lui sembrava divertito e nei suoi occhi blu notte non c’era più rabbia. E per un folle momento lei accettò il fatto che il peso di lui fosse molto più dolce di quello della grassona.

«Avete ripreso le forze» osservò con voce amara.

«Siete tanto stupida da aver pensato di riuscire a vincermi?» disse lui. «L’ultima volta che siete venuta da me ho passato due giorni a rovesciarmi le budella. E questo indebolisce un uomo, almeno temporaneamente.»

«Mi dispiace di non avervi ucciso.»

«Non siate noiosa. Certo che avreste voluto farlo, lo sappiamo entrambi. Ma resta il fatto che non ci siete riuscita. E che ora comando io. Non riuscirete mai a sfuggirmi, malgrado i vostri sforzi.»

«Non statemi addosso» ordinò Gilly. La sua voce era tesa, furente di rabbia.

Lui rimase fermo e sembrò riflettere. Poi si mosse appena e premette di più i fianchi contro quelli di lei. Inorridita, Ghislaine si accorse che era eccitato. Decisamente, fortemente eccitato.

Fu presa dal panico e per un attimo cercò di dibattersi. Naturalmente fu inutile; lui era molto forte. Allora rimase immobile sapendo che era fatica sprecata. «Non ne avete avuto abbastanza per oggi?» domandò. «Sembravate soddisfatto nel letto di quella ragazza.»

Lui si dondolò lievemente contro di lei e Ghislaine fu scossa da un brivido di reazione, alla quale non seppe e non volle dare un nome. «Vi sorprenderebbe sapere quanto io sia insaziabile» disse lui con durezza e posò la bocca su quella di lei.

Ghislaine era stata baciata così altre volte, ma non molte. La bocca di lui strofinava la sua tanto forte da farle male, finché lei aprì le labbra sotto il rude assalto della sua lingua e giacque più ferma che poté, passivamente, cercando quell’angolo buio dentro al cuore in cui nascondersi finché lui avesse finito. Era il luogo segreto che lei conosceva bene, dove trovava conforto e speranza. Era il suo paradiso ove si sentiva protetta.

Ma questa volta non riuscì a raggiungerlo. Nicholas le teneva il viso tra le mani e premeva le labbra contro le sue mentre i polsini di pizzo le sfioravano le guance. Ma la sua bocca, dura di rabbia, bruciante di desiderio, accese dentro di lei una scintilla, così che, per un breve momento, chiuse gli occhi e si arrese al potere incontrollato della passione. Ghislaine sentiva i seni bollenti premere contro la sottile camiciola di percalle; le mani intrappolate sotto il corpo di lui volevano toccarlo, stringerlo, come non aveva tenuto nessuno per un tempo esageratamente lungo.

Poi fu sopraffatta dalla consapevolezza della propria follia e ricominciò a dibattersi, cercando di calciarlo, di contorcersi sotto il suo peso. La sua rabbia era tanto più intensa in quanto diretta in gran parte verso se stessa.

Lui sollevò la testa e la guardò. I suoi occhi brillavano nella carrozza semibuia e il fiato gli usciva ansante dalle labbra. «Credevo che cominciasse a piacervi» disse.

«Non illudetevi» replicò lei. Aveva la bocca umida dei suoi baci e voleva asciugarla, voleva togliersi il sapore delle sue labbra, ma aveva le mani intrappolate tra i loro corpi. Continuava a contorcersi sotto di lui dicendo: «Mi disgustate».

«Se non smettete di muovervi così, probabilmente vi darò maggiori motivi di disgusto» rispose lui.

Ghislaine si fermò subito. Avrebbe voluto gridare ma le sue precedenti grida non avevano portato ad alcun risultato. Voleva lottare, ma lui aveva già dimostrato di essere fisicamente superiore a lei. Voleva ucciderlo e giurò a se stessa che sarebbe riuscita a farlo alla prossima occasione.

Voleva anche piangere. Non versava lacrime da tanto tempo e credeva di non essere più capace di farlo, anche se l’avrebbe voluto. Nei primi anni era contenta che quella particolare debolezza femminile l’avesse abbandonata. Nella sua vita non c’era posto per rimpianti, per lacrime, per lamentarsi del suo destino.

Ma in seguito, quando le cose avevano cominciato ad andare meglio, aveva desiderato il sollievo delle lacrime. Però non erano mai venute. Nemmeno quando aveva ricordato l’orrore di vedere i genitori sul patibolo. Nemmeno il ricordo dell’ultima volta che aveva visto Charles-Louis con la faccia smagrita dalla fame, gli occhi scuri e spaventati, il corpo pelle e ossa.

Nemmeno quando si era data per denaro per sfamare il fratello. Né quando aveva ucciso Malviver, che era la feccia della terra, ma pur sempre un essere umano.

Ma in quel momento, intrappolata sotto quell’uomo che avrebbe potuto averla se avesse voluto, all’improvviso Ghislaine sentì il bisogno di piangere le lacrime di quando, vergine di diciassette anni, era stata violata. Lo voleva tanto da sentirne il calore dietro le palpebre.

All’improvviso, lui si alzò e andò a sedersi nella parte opposta della carrozza. Si diede un gran da fare a raddrizzare la giacca, a risistemarsi la cravatta allentata con mano esperta come se non avesse nient’altro di urgente da fare. Come infatti era.

Ghislaine si rincantucciò nel suo angolo, più lontano da lui che poté. Si sentiva come un animale in trappola, anche se lui sembrava aver perso ogni interesse per lei. Poi la guardò negli occhi e lei capì che non l’aveva dimenticata affatto.

«Ho saltato la colazione» osservò lui «per non parlare della mia rasatura quotidiana. E avrei potuto prolungare di un’altra ora i miei piaceri peccaminosi, se non foste fuggita. Mi avete privato delle mie abitudini, Ghislaine. Dovrete provvedere a soddisfarle voi stessa.»

«Sarò molto contenta di radervi» disse lei con voce mielosa.

Lui fece un sorriso sbieco. «Ne sono sicuro, ma credo che sarebbe meglio riservare questo compito a Tavvy. Preferisco che la mia gola rimanga intatta.» Si appoggiò allo schienale, stese le lunghe gambe e lei istintivamente si ritrasse e nascose le sue sotto la gonna.

Lui se ne accorse e il suo sorriso si allargò. «E anche se condividere il mio letto può essere una nuova esperienza per entrambi, non è lì che risiede il vostro talento, vero?»

Lei trattenne un moto di repulsione. «Si può sapere che cosa volete da me?»

«Che mi prepariate la colazione. Ci fermeremo alla prossima stazione di posta e voi provvederete a procurarmi qualcosa che migliori il mio umore. Forse una omelette, con prosciutto e funghi. E senza veleno per topi.»

«Ma un po’ di condimento è necessario» rispose lei non volendo dare l’impressione di essere sottomessa.

«Sarete la mia assaggiatrice ufficiale. E credetemi, nemmeno il vostro odio per me vale il prezzo degli atroci dolori dell’avvelenamento. Ne so qualcosa.» Nicholas si passò la mano sul viso ruvido di barba osservandola con espressione meditabonda. Poi si allungò e malgrado gli sforzi di Ghislaine di sottrarsi alla sua mano, le toccò la faccia. «Vi ho segnato il viso. Prometto di radermi prima di baciarvi di nuovo.»

Lei allontanò la testa. «Promettete di non baciarmi più e io dimenticherò il veleno per topi.»

«D’accordo» rispose lui ritraendosi e Gilly riprese a respirare.

Non poteva credere alla sua fortuna. «Lo promettete davvero?» domandò, stupita.

«Naturalmente. Il problema è che non mantengo mai le promesse» disse Nicholas con un sorriso dolce e triste insieme.

«Non avete dunque un briciolo di onore?» chiese lei, incredula.

«Nemmeno un briciolo» le rispose in un tono molto disinvolto. «Credevo che ve ne foste accorta. Un uomo d’onore non avrebbe mai lasciato una ragazzina di quindici anni in un paese pericoloso, specialmente se quella ragazzina era innamorata di lui. Un uomo d’onore non avrebbe mai sedotto una donna sposata e poi ferito gravemente suo marito in duello. Un uomo d’onore non avrebbe mai rapito la cuoca della cugina semplicemente perché aveva avuto il cattivo gusto di tentare di avvelenarlo.» Scosse le spalle e concluse: «È più facile vivere senza onore, ma petite. Dovreste provarci».

«Mi disgustate.»

«Non siate noiosa, ma belle. So che mi detestate e non occorre che me lo ricordiate costantemente. Ma finché mi preparerete una omelette decente e un buon caffè potete odiarmi quanto volete.»

«Caffè?» Ghislaine non riuscì a nascondere una nota di speranza nella voce.

Nicholas era un uomo troppo attento per non accorgersene. «Ho sempre Taverner che mi procura la qualità che preferisco. Le locande che posso permettermi sono inaffidabili e un giorno senza caffè non vale la pena di essere vissuto.» Le sorrise amabilmente e concluse: «Se sarete gentile con me potrei anche lasciarvene bere una tazza».

«Io valgo molto più di una tazza di caffè» rispose lei seccamente.

«Oh, non lo so. Ma credo di aver trovato il vostro punto debole. Caffè, Ghislaine, e la vostra promessa di non fuggire più.»

Lei avrebbe barattato il suo corpo per un caffè. Ma non ciò che era rimasto della sua anima. «No» disse con voce decisa e disperata.

«Allora porgetemi le mani.» Sembrava annoiato.

«Che cosa?»

«Ho detto di porgermi le mani. A meno che non vogliate che venga lì e…»

Lei obbedì.

La sciarpa era di morbida seta e molto robusta. Lui le legò i polsi, molto stretti, poi glieli lasciò cadere in grembo. «Vi lascio libere le caviglie» la informò e tornò ad appoggiarsi allo schienale. «Credo che Tavvy vi sparerebbe alla schiena se cercaste di fuggire. Questa mattina non è molto caritatevole nei vostri confronti.»

Ghislaine era furente, ma non disse nulla. Non avrebbe approfittato di avere le caviglie libere per scappare. Le avrebbe usate per prenderlo a calci.

«E se mi sorridete, potrei ancora offrirvi un po’ del mio caffè» disse lui con ironia.

Ghislaine emise una specie di ringhio basso, di gola.

«Ci siamo quasi, ma belle» mormorò Nicholas, e incrociate le braccia sul petto le rivolse un sorriso scherzoso mentre la carrozza procedeva in direzione nord.